VOLTI COPERTI D’ARGILLA

In questo nuovo anno, stiamo sperimentando un’emergenza sanitaria, che ci ha costretti a condizioni di forzato isolamento, a diradare incontri e socialità, ad un distanziamento sociale che fatichiamo ancora, in molti ambiti, ad immaginare, a mutare routine quotidiane ed abitudini nella gestione di giornate, del lavoro, persino delle relazioni. Nel pensare mesi fa a questo numero della rivista, che esce dedicando una parte del suo spazio al tema dell’emergenza e dovendo per questo sacrificare a malincuore alcune delle consuete rubriche, mai avremmo però immaginato quanto il tema dell’approfondimento scelto avrebbe potuto essere così vicino e appropriato rispetto agli accadimenti successivi, perché, se c’è un effetto dell’epidemia, questo è, al di là dei numeri e delle conseguenze sanitarie ed economiche, la necessità di riflettere sull’idea che abbiamo di noi stessi e delle relazioni che intessiamo con gli altri: l’obbligato isolamento e l’inaccessibilità di molti luoghi, dove si svolge la nostra vita e che fanno il nostro vivere, spinge, necessariamente, a far maggiormente i conti con se stessi, a percepirsi e guardarsi dentro e a ripensare ed immaginare il tempo, che ci passa fra le mani, e la nostra vita stessa.

In un famoso racconto di Guy de Maupassant, intitolato Solitudine, si narra della passeggiata di due amici dopo una cena: uno di loro, in una sorta di sfogo, spiega all’altro che il tormento dell’esistenza è la solitudine, che lui raffigura come una sorta di sotterraneo buio e senza limiti, senza fine né uscita, che inghiotte l’individuo. Nulla, secondo l’autore francese e il suo personaggio, neppure l’amore può dissipare questa condanna: l’amore, in realtà, ci illude e acuisce la distanza e l’avvertimento di tale angoscia, perché, nonostante tutti i nostri sforzi e tutte le nostre azioni tendano solo a sfuggire la solitudine, l’incapacità che viviamo di comunicare, di conoscere e di unirci con gli altri ci scava dentro un disagio ancor più cavernoso, un’estrema e primordiale solitudine, che nel profondo drammaticamente ci costituisce.

 

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La scoperta, nell’esistenza, di un luogo segreto dell’anima, dove l’io spera di poter avere accesso alla verità di sé, è per Maupassant la terribile conferma che certamente ciascuno è dominato dall’eterno bisogno di un amore, di cui è alla ricerca e che rode il cuore solitario e che si amplifica ad ogni nuovo incontro, ma nello stesso tempo è soprattutto la certezza dell’impossibilità di una risposta che soddisfi tale vertiginosa voragine di incommensurabile nostalgia e di irrisolto bisogno.

Amara ed avara solitudine, soprattutto in un’epoca come la nostra, che Alda Merini definiva «una gigantesca bolla di solitudini, un aggregato di vite stanche, trascinate al loro epilogo». E come rimbombano queste parole nei giorni che stiamo vivendo.

Eppure, sin dall’antichità, l’uomo ha anche cercato la solitudine, ha visto in essa la modalità di penetrare nella profondità di sé stesso e la via per la comprensione della complessità della realtà. Ritirarsi dal mondo è stato per millenni, anche prima delle forme monastiche cristiane, una forma di ricerca di autenticità, il tentativo di vivere in silenzio, per riflettere su di sé, approfondire la consapevolezza del reale, cercare di incontrare il significato del cielo e della terra, lasciarsi trovare dal Dio che ha plasmato ogni cosa.

In questo numero della rivista, vorremmo incamminarci a scoprire come la vera solitudine è, in verità, la sorgente del nostro essere creature, una ferita originaria la cui scoperta purifica l’anima e spalanca, non chiude, l’io. 

Thomas Merton annota nei suoi Pensieri nella solitudine: «La gratitudine è quindi il cuore della vita solitaria come lo è della vita cristiana. […] Dovrei essere capace di ritornare ogni volta nella solitudine come nel luogo che non ho mai descritto a nessuno, il luogo dove non ho mai condotto nessuno, il luogo in cui il silenzio ha generato una vita interiore a nessun altro nota fuori che a Dio solo. Più mi addentro nella solitudine, più vedo con chiarezza la bontà di tutte le cose».

La solitudine appare allora come la più alta espressione del dono totale di se stessi a Dio.

In una poesia, scritta qualche decennio fa, il premio Nobel per la letteratura Tomas Tranströmer rivela la sua personale necessità di iniziare e finire le giornate solo, con un momento di silenzio, mentre in tempi come i nostri di iperconnessione, la solitudine o la sola cognizione di essa suonano come un male da evitare, come la mancanza di un riconoscimento, che costantemente cerchiamo ed attendiamo dai social; viviamo una sorta di horror vacui, la paura del tempo vuoto, che risulta intollerabile, vittime di una visibilità imprescindibile che bramiamo e ci condiziona. Scrive infatti Tranströmer: «Essere sempre visibili –/ vivere in uno sciame di occhi –/ deve dare al viso un’espressione speciale,/ volti coperti di argilla».

E i nostri volti d’argilla, sempre un po’ meno capaci di empatia e di vera solidarietà, devono temere la solitudine? Accettarla, negarla, esorcizzarla o tentare di colmarla?

Ma cosa può allora colmare, riempire, o solo entrare nello spazio e nel tempo della profonda ed insondabile solitudine di un uomo?

La Merini continua nel suo testo: «Ma la vita, pur nella stanchezza e perfino nella follia della sua estrema stagione,/ non è un cieco carcere, finché esisterà l’infinito./ Perché l’infinito è la faccia di Dio,/ di Colui che non condanna le nostre povere passioni,/ di Colui che anzi redime queste stesse passioni. L’infinito è solitudine divina, è colloquio con l’Eterno, è riflesso di Colui che in fondo ogni cuore brama».

La nostra assetata solitudine, talvolta incomprensibile a noi stessi, attende una forza ed una luce che rivelino il nostro vero volto e sgretolino l’argilla che ci fascia gli occhi.

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