Intervista a Giovanni Grandi, responsabile Aics a Kabul (a cura di Massimo Gelmini e Meri Polito)
A tre mesi dalla precipitosa presa del potere da parte dei talebani, la situazione in Afghanistan rimane preoccupante e incerta. Nonostante la copertura giornalistica delle ultime settimane sia stata superiore a quella di agosto ― molte testate ed emittenti internazionali sono presenti con reporter e inviati a Kabul ― l’aria che si respira è quella del “si salvi chi può”, e mettersi in salvo significa andarsene, abbandonare il Paese, ora sull’orlo del collasso economico e forse destinato a ripiombare sotto la maledizione dell’oscurantismo islamista. Le storie rubate lungo le strade svuotate della metropoli, tra attacchi dell’ISIS e arresti e intimidazioni da parte delle milizie del nuovo ordine, non fanno stare tranquilli e restituiscono il senso di una catastrofe imminente.
Abbiamo chiesto a Giovanni Grandi, responsabile Afghanistan dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics), rientrato poche settimane fa da Kabul, di aiutarci a delineare i tratti salienti di questa crisi per comprendere meglio quanto accaduto, capire cosa sta avvenendo e provare a tracciare un bilancio di vent’anni di aiuti, che hanno comunque cambiato il Paese.

Andarsene, fuggire. L’immagine che forse più ci è rimasta impressa dei giorni in cui questa crisi è scoppiata è quella di giovani afghani che tentano l’impossibile per scappare, aggrappandosi agli aerei in partenza dall’aeroporto di Kabul e cadendo inevitabilmente nel vuoto pochi istanti dopo il decollo. Da cosa esattamente cercavano di fuggire? Cosa può averli terrorizzati al punto da spingerli a compiere un gesto suicida? Sta avvenendo veramente tutto questo?
Si può tentare di spiegare la questione in questi termini: l’età media della popolazione afghana è 28 anni, quindi sono tutti molto giovani. Nel periodo della nostra permanenza nel Paese ― sostanzialmente gli ultimi 20 anni ― abbiamo fatto una serie di interventi di institutional building, ovvero abbiamo creato una serie di istituzioni a livello di governance dello Stato, ad esempio nell’ambito del sistema giudiziario ma non solo. Coloro che sono cresciuti sotto l’influenza occidentale per due decenni hanno vissuto in un ambiente che ha permesso loro di assorbire mentalità e stili di comportamento nuovi, anche con riferimento all’accettazione di determinati principi fondamentali come il riconoscimento di diritti umani e un maggior rispetto della parità di genere. Il Paese è ora profondamente diverso da quello del primo governo dei talebani. I ragazzi accalcati agli aerei in partenza da Kabul nell’agosto scorso cercavano di scappare per paura del ritorno di un regime di cui loro hanno sentito parlare, ma di cui non hanno avuto esperienza o che hanno vissuto solo in minima parte nella loro vita. Questo è il contesto, senza nulla togliere ai difetti e alle responsabilità che noi come occidentali abbiamo in tutta la vicenda.
Passati i giorni della concitazione, trovare una via di fuga rimane l’aspirazione di molti. Si allungano le liste d’attesa per i voli di evacuazione concordati con i talebani che però non sono frequenti. Quale sforzo si può compiere, ora, da parte della comunità internazionale, per consentire a quante più persone possibile di lasciare il Paese?
Personalmente non sono coinvolto nell’organizzazione del processo di trasferimento di coloro che vogliono lasciare il Paese, perché se ne stanno occupando il Ministero degli Esteri e la Direzione Generale preposta. Posso dire che la Comunità Internazionale si è mobilitata portando la questione all’ordine del giorno all’Assemblea delle Nazioni Unite a Settembre e in una serie di appuntamenti, in occasione dei quali l’Italia, essendo incaricata della Presidenza del G20, ha avuto un ruolo piuttosto rilevante inserendo il tema proprio nel programma del vertice dei Capi di Stato e di Governo tenutosi a Roma il 30 e il 31 ottobre. Uno dei punti di cui si è discusso riguarda proprio la necessità di consentire a chi vuole lasciare il Paese di farlo in maniera sicura, affrontando qui uno degli aspetti più dolorosi della questione perché, allo stato attuale, non c’è un dialogo da parte della Comunità Internazionale con il Governo di fatto. Non essendo avvenuto un riconoscimento, non c’è un interlocutore con cui trattare ufficialmente questa emergenza; pertanto, l’unica azione che possiamo pensare di fare è invogliare o stimolare questa povera gente a emigrare clandestinamente trovando rifugio nei Paesi limitrofi, dove poi ci si augura di poterli trarre in salvo. L’Italia ha fatto tantissimo nel momento della primissima emergenza, proprio nei giorni in cui si vedevano persone attaccate ai carrelli degli aerei. Io sono rientrato il 16 agosto insieme all’ambasciatore. Nei 10 giorni dopo il mio rientro abbiamo svolto un intervento assolutamente straordinario, come solo noi Italiani riusciamo a fare nei momenti di crisi, realizzando in brevissimo tempo un lavoro di squadra con l’aeronautica, il console a Kabul, noi dall’Italia, riuscendo a trasferire fino a 5000 persone. Avevo 51 dipendenti locali con le loro famiglie, circa 300 persone, e siamo riusciti a far arrivare tutti in Italia. Da allora il problema è che i corridoi umanitari, di cui si sta discutendo, non sono possibili allo stato attuale in mancanza di un dialogo con i talebani. Non possiamo evidentemente condividere la lista di persone che sono a rischio con il Governo per non esporle ad un pericolo ulteriore. Si sta lavorando a livello politico per cercare una soluzione, ma in questo momento ancora non c’è nulla di fatto.
Continua a leggere
Vanno considerati più fattori. Le forze militari afghane, formate e rifornite per 20 anni dagli occidentali, hanno opposto all’avanzata talebana una resistenza che si è dimostrata scarsa e inferiore alle aspettative, pur essendo costituita da forze regolari di 350.000 unità, di fronte a milizie talebane di solo 50.000 combattenti. Le motivazioni sono diverse. La prima è legata alla coesione del Governo che abbiamo sostenuto, che è venuta meno provocando anche la diserzione di molti militari. L’esercito non era pagato da sei mesi – fatto non irrilevante – e di fronte ai talebani che conquistavano terreno e si presentavano alle porte di Kabul, andando da poliziotti e militari dicendo: “Se passate dal lato nostro, se riponete le armi, vi salviamo la vita”, molti devono aver pensato: “Perché devo resistere? Perché resistere quando poi il mio Presidente, i ministri e il Governo se ne sono andati a gambe levate?”. La seconda spiegazione va ricercata nelle colpe dell’Occidente. Sull’Afghanistan la Comunità Internazionale ha investito nel corso di questi anni un ammontare di risorse finanziarie incredibile. Stiamo parlando di fondi pari a tre volte quanto speso per il Piano Marshall dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tutto questo denaro però è stato investito per scopi militari, trascurando le esigenze dei civili. Se si fossero invertite le proporzioni dando più peso alla ricostruzione della società civile, probabilmente l’esito sarebbe stato differente. Non bisogna poi dimenticare che in questi vent’anni il Governo che noi abbiamo sostenuto ha dato prova ed evidenza di un livello di corruzione molto elevato che ha esasperato la popolazione fino a renderla stanca di essere continuamente assoggettata a varie forme di illeciti e vessazioni. Su questo noi dobbiamo fare ammenda per aver chiuso più di un occhio.
Non è tanto una questione di valori tradizionali, che non sono univoci se si considera che la popolazione musulmana si divide in sciiti, sunniti ed altre etnie. Storicamente, fino a quando il Paese è stato retto dalla monarchia, la popolazione non era divisa tra le etnie che convivevano con grande tolleranza anche per quanto riguarda il credo religioso. Le occupazioni che si sono susseguite – prima i sovietici, poi i talebani, infine gli americani e l’Occidente – hanno finito con l’imporre ciascuna il proprio modo di essere. La popolazione si aspetta semplicemente la pace, chiede che siano eliminati i conflitti, è stanca di subire attentati. Durante la mia permanenza in Afghanistan, ho visto molti attentati, esecuzioni mirate, omicidi per strada, le cui vittime erano funzionari dello Stato e rappresentanti del Governo, spesso donne. Si tratta di azioni con bersagli precisi, le cui responsabilità sono state attribuite di volta in volta all’Isis o ai talebani. Ricordo particolarmente l’attentato di giugno-luglio nella scuola femminile in un quartiere sciita di Kabul, dove si sono avuti molti feriti e tantissime vittime, rivendicato dall’Isis e non attribuibile ai talebani.
L’illusione che i nuovi talebani siano cambiati e divenuti più “inclusivi” dei loro predecessori svanisce di fronte alle notizie di sospensione delle libertà fondamentali, ritorsioni, discriminazioni e svariati episodi di applicazione della legge islamica, di cui sono vittime soprattutto le donne. Tuttavia, pur non avendo ottenuto ufficialmente il riconoscimento internazionale, il nuovo governo ha di fatto tenuto aperto un canale di comunicazione con i Paesi esteri, auspicando di ricevere da essi aiuti economici. Ritiene che una strategia di scambio con l’Occidente possa essere efficace per salvare vite e scongiurare il definitivo ritorno in un clima di terrore?
Gli stessi talebani di oggi si trovano in un Paese completamente cambiato dalla presenza occidentale degli ultimi 20 anni, che ha lasciato semi profondi nella popolazione. Se lo guardiamo dal punto di vista dei talebani, il Paese oggi si trova in una situazione in cui sono stati congelati tutti gli aiuti e messe sotto sequestro tutte le riserve di valuta, escludendo l’accesso ai dollari, la valuta pregiata, e provocando una crisi di liquidità che sta portando il sistema bancario al collasso. Tutto questo comporta l’aggravarsi del problema umanitario, già importante. Le stime dicono che quasi l’80% della popolazione non ha più accesso al cibo. Stiamo affrontando questa emergenza tenendo stretti i cordoni degli aiuti, allocandoli a favore della popolazione attraverso le agenzie delle Nazioni Unite che sono presenti e sono rimaste lì. Gli aiuti della Comunità Internazionale stanno passando tutti attraverso le Nazioni Unite, le cui agenzie umanitarie (l’UNHCR, il World Food Programme, l’OMS) sono operative e noi stiamo operando con loro per contribuire ad un intervento straordinario. Come Italia abbiamo annunciato un’allocazione straordinaria di 150 milioni di euro, prendendo quello che dovevamo destinare alla formazione militare nel 2020-21 e spostandolo sugli interventi umanitari. All’interno del G20 purtroppo non c’è una posizione unitaria perché Paesi come Russia e Cina hanno una posizione più dialogante mentre gli altri restano fermi nel mancato riconoscimento del governo dei talebani, composto da esponenti giudicati inaccettabili. Dei 30 ministri attuali del Governo Transitorio, 20 sono blacklisted (i loro nomi figurano nella lista Onu di persone designate come “terroristi o associati a terroristi”, ndr), il Ministro degli Interni (Sirajuddin Haqqani, ndr) – sulla cui testa grava una taglia di 5 milioni di dollari dalle autorità americane – a Ottobre ha ricevuto in un albergo di Kabul tutti i parenti dei kamikaze che negli ultimi 20 anni si sono fatti saltare in aria, uccidendo gli Occidentali, per premiarli… In queste condizioni è assai difficile poter instaurare un dialogo. Anche in tema di rispetto dei diritti umani, il clima non è rassicurante. La situazione è tuttavia molto diversificata da provincia a provincia: mentre a Kabul permangono le proibizioni, in alcune province le ragazze possono andare a scuola.
Come agenzia, come avete vissuto la crisi di questi mesi e cosa vedete nel futuro della cooperazione in Afghanistan? Qual è l’emergenza più grave e urgente che deve essere affrontata?
In questo momento la priorità numero uno è la crisi umanitaria, per affrontare la quale dobbiamo cercare di dare il massimo. Anche prima dell’avvento dei talebani c’era un problema umanitario a causa della perdurante siccità che aveva colpito il Paese comportando problemi di accesso al cibo per 18 milioni di afghani. Se a questo aggiungiamo la pandemia Covid-19, l’avvento dei talebani e il conflitto, siamo alla tempesta perfetta. Per concentrarci su questa emergenza, abbiamo bloccato tutti i progetti di sviluppo che avevamo in essere e stiamo riconvertendo gli interventi sul versante umanitario.
Se abbandonare l’Afghanistan com’è avvenuto, dopo vent’anni, è stata una sconfitta per Stati Uniti e loro alleati, cosa dovrebbe fare ora l’Unione Europea, e l’Italia, se si vuole avere un ruolo decisivo per la risoluzione della crisi umanitaria ed economica del Paese?
L’abbandono dell’Afghanistan di USA e Nato è stato senz’altro una sconfitta. Non sono tra coloro che dicono che il lavoro di 20 anni è andato perduto perché, come dicevo, abbiamo lasciato dei semi significativi tra la popolazione. Se le donne di Herat oggi scendono in strada per manifestare per i loro diritti – stavolta con il burqa, e non più con il viso scoperto, sapendo che vengono picchiate – è un segno che abbiamo seminato qualcosa di importante. Non sappiamo quanto tempo servirà per vederne i frutti, ma possiamo facilmente prevedere che tanto più si proverà a far prevalere un atteggiamento oscurantista, tanto più forte sarà la reazione contraria a questo Governo. Questo serve, non gli interventi militari. Anche in Iran dopo l’avvento di Khomeini c’è stato un cambio di regime. Non dobbiamo pensare solo alle nostre forme democratiche.
Dopo la nuova ascesa al potere dei talebani, anche la presenza ufficiale cattolica, confinata nella cappella all’interno dell’ambasciata italiana a Kabul, ha dovuto interrompere la missione iniziata 90 anni fa e abbandonare il Paese, tristemente noto per l’alta incidenza di persecuzione anticristiana. Sulla base della vostra esperienza, in quali condizioni si trovano ora le minoranze religiose e cosa si può fare in concreto per coloro che necessariamente sono costretti a vivere la propria fede nella clandestinità?
Arrivato a Kabul, ho avuto il grande privilegio di partecipare all’Eucaristia e incontrare padre Giovanni Scalese che risiedeva in ambasciata, dove c’era l’unica chiesa cattolica di tutto l’Afghanistan. I cattolici a Kabul erano veramente pochi. Ho conosciuto una comunità di Suore Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta, che vivevano a Kabul, dove gestivano una scuola in totale trasparenza, assistendo bambini con disabilità mentali. Vivevano e operavano in questo contesto così complicato, continuando ad essere tranquillamente identificabili e nessuno le ha mai infastidite perché si occupavano di questo centro e risolvevano problemi facendosi carico degli ultimi. Con il ponte aereo delle autorità italiane e l’evacuazione di 5000 persone, padre Scalese è rientrato in Italia, chiudendo l’esperienza della Chiesa cattolica in Afghanistan; con lui sono venute anche le suore e, con loro, tutti i bambini disabili che accudivano. Ci sono ancora degli espatriati che sono presenti e lavorano a Kabul, ma non hanno più la possibilità di ricevere la comunione e di partecipare ad una messa. In questo momento tuttavia il problema più rilevante non è tanto quello della minoranza cristiana. Il vero problema è interno al mondo musulmano, diviso dall’inimicizia tra sciiti e sunniti. Gli hazara, che sono una minoranza sciita (rappresentano il 12% della popolazione), sono presi di mira e vittime della persecuzione talebana.
Tornerà il sole a risplendere nel cielo di Kabul, come le gemme azzurre nelle sue vetrine? Molti afghani temono che la situazione attuale possa durare per altri quarant’anni, per tutta la vita, e non ci vogliono stare.
Stiamo vivendo una fase molto buia e di grande dolore per la popolazione afghana che si trova a subire le conseguenze di quanto accade, come purtroppo è avvenuto negli ultimi 40 anni. Le cose non sono destinate a risolversi in breve tempo. Ci sono interessi di tipo geopolitico che stanno cambiando, con nuovi attori che si stanno affacciando sullo scenario afghano, come cinesi e russi, e l’Occidente che sta spostando il suo focus in maniera evidente. Non è facile prevedere cosa succederà. Per quanto ci compete, noi siamo concentrati per cercare di dare un sollievo alla popolazione che veramente non merita di sopportare tutto questo.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 5, Dicembre 2021
L’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo è una delle principali novità della legge di riforma della cooperazione (Legge n. 125/2014) e ha iniziato ad operare nel gennaio del 2016 con l’ambizione di allineare l’Italia ai principali partner europei e internazionali nell’impegno per lo sviluppo. L’Agenzia è un modello impiegato in tutti i principali Paesi europei e deve rispondere all’esigenza di una cooperazione più professionale e innovativa, con il necessario grado di flessibilità degli strumenti in uno scenario che è in continuo mutamento. L’Agenzia ha la sua sede centrale a Roma, una sede a Firenze e 19 sedi all’estero per il monitoraggio, l’implementazione e l’analisi sul terreno delle esigenze di sviluppo dei Paesi partner. Il compito dell’Agenzia è quello di svolgere le attività di carattere tecnico-operativo connesse alle fasi di istruttoria, formulazione, finanziamento, gestione e controllo delle iniziative di cooperazione internazionale. Gli obiettivi della cooperazione, come indicato dalla legge di riforma, consistono nello sradicamento della povertà, nella riduzione delle disuguaglianze, nell’affermazione dei diritti umani e della dignità degli individui – compresa l’uguaglianza di genere e le pari opportunità –, nella prevenzione dei conflitti e nel sostegno ai processi di pacificazione.
I Paesi prioritari della Cooperazione italiana:
- AFRICA SUB-SAHARIANA: Burkina Faso, Senegal, Niger, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Mozambico;
- MEDITERRANEO: Egitto, Tunisia
- MEDIO ORIENTE: Libano, Palestina, Iraq, Giordania
- BALCANI: Albania, Bosnia
- AMERICA LATINA E CARAIBI: Cuba, El Salvador
- ASIA: Afghanistan, Myanmar, Pakistan
Giovanni Grandi, in Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) dalla sua fondazione nel 2015, è attualmente Direttore della sede AICS a Kabul, Afghanistan. Per dieci anni è stato consulente a tempo pieno del Governo italiano e della sua Amministrazione (Ministero degli Affari Esteri) su questioni finanziarie relative alle attività di Cooperazione allo Sviluppo. In particolare, è stato direttamente coinvolto nella progettazione ed esecuzione della Politica di Sviluppo Italiana verso i Paesi in Via di Sviluppo e nella gestione dell’Aiuto allo Sviluppo verso i Paesi Partner. In precedenza ha ricoperto ruoli dirigenziali in primarie Istituzioni Internazionali e Istituti Italiani di Investment Banking, maturando ampia esperienza nella Finanza Globale (Barclays Bank, Morgan Stanley Dean Witter, AKROS, Rasini & C.).