Oltre il carcere, per una relazione che rinasce dal perdono

Intervista a Giorgio Pieri (a cura di Massimo Gelmini)

Il perdono non può cancellare il male che è stato commesso, ma può consentire di recuperare il rapporto con la persona che l’ha provocato, che ha arrecato il danno e procurato lo strappo. A chi si è macchiato di un reato, si deve chiedere di riconoscere il dolore della vittima e, per quanto possibile, di ripararlo. D’altra parte, senza la disponibilità a riaccogliere nella società chi ha sbagliato, non può esserci giustizia, né ricomposizione sociale. 

Abbiamo chiesto a Giorgio Pieri, responsabile del servizio Carcere della Comunità Papa Giovanni XXIII e autore del libro Carcere. L’alternativa è possibile, con lunga esperienza accanto ai carcerati, di dirci quanto il carcere sia in grado di assolvere al proprio mandato educativo e di raccontarci la sua proposta per un’alternativa concreta alla detenzione penitenziaria, resa possibile da un percorso di recupero e di risocializzazione che ha nel perdono il proprio fondamento e nella riconciliazione la propria forza.

 

 

Chi è il detenuto oggi? Da chi è composta la popolazione che abita i luoghi di detenzione?

La popolazione delle carceri oggi consta di circa 55.000 detenuti, di cui poco più di 2000 donne, con una presenza pari al 27% di stranieri. Il 5% è analfabeta, l’1% laureato, il 16% ha raggiunto un diploma e il 32% ha frequentato fino all’obbligo scolastico. Chi è il detenuto oggi? Beh, per alcuni il detenuto è uno scarto pericoloso, come una scoria tossica da isolare in quelle che potremmo definire grandi pattumiere fatte di cemento e ferro. Per costoro l’uomo che sbaglia è considerato l’orrore dell’umanità, per il quale si dovrebbe buttare via la chiave eliminando non solo lo sbaglio, ma anche chi sbaglia. Come dire, il peccato con il peccatore. Ma se iniziamo a scoprire il volto di ogni persona che abita quel carcere, quella cella, ci rendiamo conto allora che il detenuto è un uomo.

Sul rispetto del valore assoluto della persona umana – sancito dall’Art. 2 della Costituzione – si fonda la concezione del carcere presente nel nostro ordinamento legislativo, orientata secondo la logica di una pena che non può “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e deve tendere “alla rieducazione del condannato” (Art. 27). A che punto siamo, nelle carceri italiane, con l’attuazione di questo principio costituzionale? 

La Costituzione italiana è tra le migliori del mondo. Anche le leggi riguardanti l’esecuzione penale sono all’avanguardia. Perché allora siamo ancora indietro nel renderla attuale? Credo che in ognuno di noi abiti come una forza misteriosa, una paura nei confronti del male e di chi lo compie, per cui di fronte al male istintivamente tutti vorremmo rispondere con il male. Ecco, le carceri spesso sono luoghi per una vendetta statale silenziosa e prolungata. Ma il male non si combatte con il male. Ecco perché su 100 persone che escono dalle carceri 75 tornano a delinquere e coloro che compiono delitti gravissimi spesso sono persone che già hanno frequentato il carcere. Su 100 persone che entrano in carcere, 60 hanno già fatto il carcere. Dunque, a che serve?

Può una pena avere una forza educativa? Qual è il paradigma pedagogico a cui si ispirano gli operatori coinvolti nel percorso riabilitativo? 

Coloro che lavorano in carcere, dai direttori agli educatori fino alla polizia penitenziaria, spesso sono persone brave, non raramente degli eroi. Ma il sistema carcere è fallimentare. Lo dicono i risultati. Per certe situazioni e per brevi periodi, il carcere è necessario e può anche dare inizio ad un percorso educativo, ma non può realizzarlo. Perché no? Perché per realizzare un percorso educativo nel vero senso del termine (in latino, educere, cioè “tirare fuori”) è necessario un luogo ove si possano vivere relazioni sane. Essendo l’educazione “cosa del cuore”, la dimensione relazionale deve essere favorita. Il carcere per sua natura è isolamento, castigo, chiusura, nei casi peggiori violenza e sopruso. L’esperienza mi insegna che persone con tanti anni di carcere alle spalle, e quindi all’interno di un percorso educativo protratto nel tempo, pur avendo il desiderio di un reinserimento nella società, faticano a realizzarlo in quanto il carcere li ha mentalmente strutturati. Mi viene in mente Gioacchino con una storia di più di 40 anni di carcerazione. Conosceva solo il linguaggio della manipolazione, del ricatto, della violenza… Dalla comunità di recupero è dovuto ritornare in carcere. 

Il reato, per quanto grave e dannoso, non coincide con la persona che l’ha commesso, alla quale è data la possibilità di recuperare, di fare una riflessione critica sull’atto compiuto, di cambiare. Cosa può rendere questo percorso di emancipazione autentico e duraturo? Che posto deve avere, in tutto questo, la parte offesa? 

Un vero percorso di riabilitazione non può non coinvolgere la parte offesa, direttamente o indirettamente. Penso a Nicola che, pur avendo ucciso la moglie, oggi è una persona nuova, e accudisce un disabile. Non a caso noi spesso coinvolgiamo nel percorso educativo anche la cura degli altri, spesso delle persone più fragili, anche con handicap. Anche il lavoro, in una prima fase almeno, dovrebbe essere risarcitorio direttamente o indirettamente per le vittime. Non basta dire: «Mi dispiace». In una parola, dovremmo aiutare le persone a passare dall’egoismo all’alterocentrismo. Però, parliamoci chiaro: i detenuti devono essere educati a questo, ma anche noi tutti con loro, nello stile della condivisione diretta. Ecco perché credo che, come diceva don Oreste, «nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti e per recuperare uno ci vuole il coinvolgimento di tutti». Tra questi “tutti” appunto ci siamo tutti noi. Quando una società è malata di egoismo è normale che i cittadini di questa società si ammalino. 

La separazione, non solo fisica ma mentale, culturale, tra il carcere – spazio artificiale confinato, non-luogo invisibile – e il mondo reale esterno sconfinato e distratto, genera dinamiche che non favoriscono né i processi di reinserimento sociale, né atteggiamenti di fiducia e riconciliazione verso i soggetti detenuti. Su cosa si dovrebbe lavorare sia “dentro” sia “fuori” per superare questa distanza, questa separazione?

Dentro, come ho detto, si deve lavorare per poter maturare la scelta del cambiamento. All’interno di una comunità è necessario fare il “gioco dell’altalena”: bisogna cioè andare indietro con gli anni a rivisitare le ferite che continuano a dominare il presente; poi provare a lanciarsi verso il futuro. Allora il tempo dell’oggi, del presente, diventa fecondo, perché nell’oggi riconosciamo le conseguenze delle nostre ferite e di come ci determinano e se prendiamo consapevolezza riusciamo anche a governarci per il futuro. In carcere, la mancanza di relazioni sane frena questo processo. Diceva Vittorino Andreoli: «Il carcere è una costosa inutilità» in quanto la persona invece di elaborare il senso di colpa, a causa del sistema violento, si sente vittima del sistema da cui deve difendersi. Domenico, dentro per aver ucciso un carabiniere, per otto anni si è vantato dell’omicidio, poi si è rattristato, ma ha sempre mantenuto la convinzione che doveva farlo: Mors sua, Vita mea. In cappellina mi disse: «Qui ho scoperto il valore della vita. Qui ho scoperto la gravità del mio reato: ho tolto una vita. È come un pozzo senza fine. Non è recuperabile». In carcere addirittura i compagni gli dicevano che aveva fatto bene. Invece, in comunità, Domenico ha scoperto che era un uomo ferito e che per andare avanti aveva compiuto tanto male. Ne ha preso coscienza. Ma non basta: in comunità ha sperimentato stili di vita sani e per lui piacevoli. Da oltre dieci anni lavora in pace ed è un cittadino normale. 

Quanto pesano nella piena realizzazione di un percorso riabilitativo il “giustizialismo”, i processi mediatici, la condanna sociale che possono lasciare un marchio indelebile nella storia della persona?

Quando ho accolto una persona che aveva bruciato un barbone, suo malgrado era diventato un personaggio pubblico. I processi mediatici non hanno aiutato né lui, né i magistrati che dovevano giudicare in sede opportuna il suo reato, anch’essi influenzabili dal giudizio preventivo.

Esiste la possibilità concreta di una giustizia riparativa e non retributiva? Riconciliazione e perdono sono valori cristiani che possono trovare realizzazione nell’esercizio dell’esecuzione giudiziaria? 

Non dobbiamo vergognarci di dirlo. La vera giustizia non può che passare da questi valori. Ieri parlavo con Salah: ha accoltellato un tunisino per cui è finito in carcere. Dentro ha accoltellato altre due persone. Guardando la sua storia, scopriamo che il fratello per tanto tempo lo legava alla sedia e lo maltrattava. A Salah, pur essendo musulmano, propongo di perdonare suo fratello. Salah, prima di essere carnefice, è vittima. Prima di essere perdonato, lui stesso deve perdonare. 

Insieme al vescovo Francesco Lambiasi di Rimini, abbiamo inaugurato “L’Università del Perdono”. Si tratta di incontri che insegnano l’arte del perdonare. Mentre la rabbia è come mangiare il veleno con la speranza che l’altro muoia, il perdono è un regalo che si fa a sé stessi: ci si libera dal dominio delle emozioni negative per ritrovare la pace. La riconciliazione, quando è possibile, è fare pace con chi ha ferito, per una pace duratura. I carcerati illuminano la società sulla necessità del perdono.

Un giudice che sa fare il suo mestiere deve poter andare oltre la legge e deve essere sostenuto da una società che «non vuole la morte del peccatore, ma che si salvi». Quando la Chiesa ha rinchiuso quelle parole nel confessionale, è stata una rovina. I peccati sono sempre anche sociali e la via del perdono non toglie la giustizia, ma la supera. Dice Gesù: «Che cosa dunque è più facile, dire: “Ti sono rimessi i peccati”, o dire: “Alzati e cammina”?». Il perdono abilita a rialzarsi e a camminare di nuovo. 

Che bello! Quando il sacerdote alza l’ostia dice: «Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo», e da un’altra parte dice: «Ero in carcere e siete venuti a visitarmi». In quell’ostia c’è Gesù, il carcerato, che toglie i peccati del mondo. Ho meditato tanto. Molte volte in quel detenuto c’è Gesù che espia un peccato che non è solo suo. Eppure, Lui, Gesù, il carcerato, paga per tutti! Quanti carcerati pagano per reati che certamente hanno commesso, ma in cui è coinvolta l’intera società. Quando questi valori vengono tradotti in proposte di legge e inseriti nel cammino della società, noi cristiani abbiamo fatto il nostro dovere.

Molti pensano che esistano persone “irrecuperabili”, per le quali non resti altra opzione che “gettare la chiave”. Veramente è possibile che anche una persona che ha commesso reati gravissimi possa trovare la riconciliazione, se non con il mondo, almeno con sé stessa?

«L’uomo non è il suo errore», diceva don Oreste. Nessun peccato, nessun reato per quanto grave cancella la dignità di un uomo. Ho fatto esperienza di un uomo, Gioacchino, che dopo oltre 40 anni di carcere era difficile da gestire in comunità. Oggi con amarezza dico che probabilmente uscirà dal carcere dentro una bara. Forse bisognava farlo uscire prima. Ma i casi come Gioacchino sono pochi, e non possono giustificare il disimpegno statale sul fronte dell’educazione. 

Oggi un detenuto costa circa 150 euro al giorno. In comunità vengono a costo zero per lo stato. Di quei 150 euro, solo 97 centesimi sono dedicati a educatori e psicologi… Neanche un euro!

Dice Sant’Agostino: «Dio che ha creato te senza di te, non può salvare te senza di te». Rimane, certo, la libertà personale. Nessuno è irrecuperabile, ma non tutti lo vogliono essere: Gioacchino è uno di questi. 

Andammo dal Papa che mi sussurrò all’orecchio: «Ricordati non c’è santo senza un passato, non c’è peccatore senza futuro».

Serve un carcere diverso o vanno cercate e promosse forme alternative al carcere? Qual è la proposta del progetto Comunità educante con i carcerati?

Il carcere non è migliorabile, a mio avviso. Va sostituito. Le carceri che conosciamo oggi hanno circa 200 anni di vita, non sono sempre esistite. Sono il frutto maturo della società del profitto. Dobbiamo passare alla società del gratuito, dove per l’uomo che sbaglia vanno costruiti luoghi di misericordia. Andando dal Papa, consegnandogli attraverso le mani di Antonello il formaggio del perdono, gli dissi proprio questo: luoghi, spazi di misericordia, di questo abbiamo bisogno. Era il Giubileo della Misericordia. 

Vanno promosse forme alternative al carcere, luoghi che garantiscano sicurezza ai cittadini e educazione alla libertà ai carcerati. La nostra proposta nasce dall’incrocio di due esperienze: l’APAC brasiliana e le comunità terapeutiche dell’Associazione Papa Giovanni XXIII.

L’APAC, che inizialmente significava Amando Prigionieri, Amerai Cristo, si è trasformata in Associazione per la Protezione e Assistenza Carcerati. Sono carceri gestite con l’assenza di guardie e forte presenza del mondo del volontariato. Offrono una formazione umana e una religiosa. In Brasile nel 2008 c’erano 10 carceri di questo tipo funzionanti e 20 in costruzione. Oggi sono 52 funzionanti e 100 in costruzione, nello stato del Minas Gerais (Brasile). Lo Stato finanzia la costruzione. La gestione è prevalentemente affidata alla comunità esterna. Vengono impiegate solo 4 guardie su 200 carcerati. La recidiva si abbassa dall’80% al 10%. Attualmente sono diffuse in altri 12 Paesi del mondo. Dal 2016 siamo ufficialmente anche noi affiliati all’APAC.

Il metodo CEC (Comunità educante con i carcerati) nasce dall’incrocio tra l’APAC e tutta l’esperienza delle comunità terapeutiche della Comunità Papa Giovanni XXIII. Nel mio libro Carcere. L’alternativa è possibile (Sempre Editore, 2021) spiego il metodo elaborato dalla comunità, i cui principi fondanti sono sintetizzabili nei seguenti punti: 1) Presenza della comunità esterna: i volontari; 2) Recuperando aiuta recuperando: forte responsabilizzazione; 3) Pacificazione con la famiglia di origine; 4) Il lavoro; 5) Dio alla base di tutto. 

La prima casa è stata aperta nel 2004, ed oggi ve ne sono otto in Italia e due in Camerun. Siamo appena agli inizi…

Cosa rappresenta personalmente, per Giorgio Pieri, il cuore di questa esperienza? Da cosa trae forza ed entusiasmo per affrontare ogni giorno un impegno tanto difficile e delicato? 

Il progetto CEC è nato in seno alla Comunità Papa Giovanni XXIII da persone che come me hanno scelto un cammino di fede alla sequela di Gesù che “si nasconde” nei poveri.

È stata dunque per me una chiamata, nella Comunità, che mi ha visto lasciare il lavoro come biologo e impegnarmi in una condivisione diretta. Questa è l’unica via che può funzionare con i carcerati, in quanto solo con la conoscenza diretta del povero possiamo dare le risposte che servono. La parola di Dio ha guidato le centinaia di colloqui svolti con i “ragazzi”. La parola “perdono” è stata per me la porta d’entrata nella chiesa, dopo anni di latitanza. La potenza del perdono ha guidato il cammino. La condivisione mi ha fatto crescere nella preghiera e nell’abbandono in Dio. Oggi mi trovo a dover svolgere un ulteriore passo che davo per scontato: abbandonarmi a Lui confidando più in Lui che nelle mie forze. Affidarmi di più alla Sua grazia, che attendo a volte come il discepolo che Egli amava: ai piedi della croce.

Avrei molto altro da raccontarvi, ma vi invito a comprare Carcere. L’alternativa è possibile: è un libro per l’anima, ricco di aneddoti che sono frutto di oltre 3000 contatti, 600 incontri con i recuperandi in questi 25 anni di vita spesa per loro. Con l’acquisto, potete contribuire al mantenimento delle case.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 3, Giugno 2021

 

Carcere. L'arternativa è possibile. Giorgio PieriCarcere. L’alternativa è possibile (Sempre Editore, 2021)

25 anni di lavoro con i detenuti e l’esperienza delle Comunità Educanti con i Carcerati (CEC). Nel volume, ricco di storie e aneddoti, Pieri propone un’alternativa al carcere messa a punto dopo aver visitato le prigioni senza chiavi del Brasile, e caratterizzata da una efficacia sorprendente nel favorire autentici percorsi di riabilitazione con una riduzione della recidiva al 15%. Chi completa questi percorsi, spiega l’autore, nella maggior parte dei casi è una persona nuova che non rappresenta più un pericolo ma una risorsa per la società. Un testo utile per comprendere le contraddizioni del sistema carcerario in cui vengono affrontati temi cruciali come il carcere per i minorenni, l’ergastolo ostativo, i diritti delle persone detenute, il ruolo della Chiesa, l’esperienza di chi accoglie i detenuti in famiglia. Un libro non solo per gli “addetti ai lavori” ma rivolto a tutti, per riflettere attorno alle idee di giustizia, di pena, e per considerare in una logica non punitiva la condizione di chi, trovandosi ai margini dell’umano, può tornare a vivere riconciliandosi con la propria vita e con gli altri.

Giorgio PieriGiorgio Pieri è responsabile del servizio Carcere della Comunità Papa Giovanni XXIII. Riminese, laureato in Scienze Biologiche, diplomato in Erboristeria e in Scienze Religiose, da anni è in prima linea con l’opera fondata da Don Oreste Benzi nell’incontrare coloro che vivono dentro al carcere e nella sperimentazione di forme alternative alla detenzione penitenziaria. È autore del libro Carcere. L’alternativa è possibile (Sempre Editore, 2021) nel quale mette in fila 25 anni di lavoro con i detenuti e l’esperienza delle Comunità Educanti con i Carcerati (CEC).