Riflessioni sul prendersi cura
(don Virginio Colmegna)
«In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo. Ecco un passante: ha lunghe braccia, occhi celesti, una mente attraversata da pensieri che ignoro, ma che forse sono mediocri. Ciò che per me è sacro non è né la sua persona né la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto. Non arrecherei offesa a niente di tutto questo senza infiniti scrupoli». (La persona e il sacro, Simone Weil, Adelphi 2012).

Premessa
La sollecitazione sul tema del “Prendersi cura” mi ha portato a rileggere, in questo tempo di sconvolgimenti, la drammaticità degli eventi che si vivono, la complessità che si ha di fronte, gli scenari mondiali ecologici e di giustizia sociale. Una riflessione sul “Prendersi cura” ha bisogno di un ritorno al senso più profondo di questa espressione. Non è tempo di letture di sistema, almeno dal mio punto di vista. Dobbiamo invece riscoprire tutto partendo proprio dal “sentimento” del limite, della debolezza, della fragilità. Bisogna chiudere ogni spiraglio al delirio di onnipotenza e non si deve cedere alla tentazione di affidarsi al potere tecnocratico. In fondo, questo periodo di pandemia ci lascia come eredità quotidiana, anche se qualche volta non la si vuole cogliere, il superamento dell’indifferenza: sentiamo aumentare forte il bisogno di appartenere allo stesso destino. In questo senso dobbiamo allora riscoprire il tema della soggettività e dell’interiorità, ma in termini nuovi capovolgendo l’idea di ricondurre questi aspetti alla sfera intimistica.
Quella che dobbiamo coltivare è una spiritualità capace di prendersi cura di noi stessi, per essere poi in grado di prendersi cura anche degli altri. Pertanto la rottura della superficialità e dell’indifferenza è molto più profonda. Non dobbiamo dedicarci soltanto a un’operosità che ci porta fuori da noi stessi rimuovendo le grandi questioni interiori, che, come detto, non sono problemi intimi, ma una rilettura continua della quotidianità. La società tecnologicamente avanzata è vittima essa stessa di questo principio dell’individualismo, occupata solo da logiche mercantilistiche e dal paradigma tecnocratico. Una società che ci lascia sempre più bisognosi di spazi riflessivi e di interiorità dove coltivare alcune volte l’indignazione, ma anche la sofferenza e la commozione. Non c’è un “Prendersi cura” che non abbia questo sacrario. Lo chiamo proprio così. Un sacrario che custodisce, nella sofferenza e nella commozione, la dignità della persona come valore fondamentale e decisivo.
Madre Teresa di Calcutta e San Francesco d’Assisi
Scrive Papa Francesco: «Nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di san Francesco di Assisi e della Beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra». (Evangelii Gaudium, 183).
Alla luce di queste parole il “Prendersi cura” mi porta dunque alla scelta dei poveri come opzione teologica. Ovvero il luogo nel quale si devono strategicamente individuare quali sono i punti di partenza per prendersi cura delle persone prendendosi cura di sé stessi. Per fare questo ci è richiesto uno sguardo nuovo, che incrocia la passione per l’umanità e la sensibilità ecologica. Solo così possiamo superare quella che definirei la “bancarotta dell’umanità” determinata dall’imperialismo neoliberista che produce scarti umani e deturpa il Creato. Scriveva Bauman: «Smaltiamo gli avanzi nel modo più radicale ed efficiente: li rendiamo invisibili non guardandoli, e impensabili non pensandoci». (Vite di scarto, Laterza, 2004).
Soffermiamoci sul Mediterraneo o “Grande Lago di Tiberiade”, come lo aveva definito La Pira, ricordando il luogo in cui venne insegnata una dottrina di pace e in cui vennero compiuti miracoli della carità e della condivisione. Un Mediterraneo che, restituendoci frammenti di barconi, ci ricorda che insieme ai tanti corpi senza vita che si trovano sui fondali va in frantumi anche il sogno di una economia accogliente e solidale, sacrificata agli interessi economici e politici. Lo stesso lo stiamo vivendo di fronte al recente dramma dell’Afghanistan. Sono tanti i non-luoghi su cui dovremmo soffermarci e aprire almeno uno spazio interiore di riflessione affinché non ci si abitui alle sofferenze che esistono.
Ecco allora la figura fondamentale di Madre Teresa di Calcutta, che certamente va contestualizzata nell’ottica di un percorso di santità, ma che non vorrei venisse recuperata solo in una lettura filantropica. In lei vediamo il dono che i poveri ci fanno: quello di essere evangelizzati dai poveri stessi. L’affetto e la generosità semplice dei poveri hanno trasformato quella suora di origini albanesi e formatasi in Irlanda: essi sono stati per lei il tramite della Grazia divina. Allora bisogna avere il coraggio di dire che i poveri sono un sacramento che rivela la gratuità dell’amore di Dio. Perché in loro c’è Gesù che li ha presi su di Sé. È la teologia francescana, che credo vada meditata e rilanciata in questo nostro mondo dove ci sono tante visioni e impostazioni. La Chiesa deve avere questo stesso impatto profondo e profetico, che la figura di San Francesco evoca. Egli restituì al padre ogni cosa, rinunciò ai beni temporali, fino a spogliarsi nudo. Allora è il tema della povertà che ci rende nudi con noi stessi, che ci fa interrogare sui nostri stili di vita, sul cambiamento che ci è richiesto.
Soffermiamoci dunque sulla contemporaneità della figura di Madre Teresa di Calcutta. La sua opera come detto va contestualizzata nel suo tempo. Il suo modo di vivere la vocazione e la sua fedeltà radicale al Vangelo arrivano nel periodo in cui era stata testimone della grande carestia del Bengala nel 1943 durante la quale morirono 3 milioni di persone a causa della fame e della denutrizione. Molti di più furono quelli colpiti da malattie ed epidemie. Poi il “Grande massacro di Calcutta” del 1946 dove negli scontri tra fazioni indu, sikh e musulmane della città, nel quadro del processo di decolonizzazione dell’India, ci furono oltre quattromila morti e diecimila feriti. Poi l’epidemia di lebbra che trasformò Calcutta in un “affresco” di disperati, spinti all’accattonaggio e alla pura sopravvivenza. I contesti di allora sono diversissimi, però è fondamentale osservare come lei si sia accostata a quanto succedeva. Innanzitutto è rimasta e la sua presenza non è stata soltanto misericordiosa. Reagiva e dava risposte al dolore delle persone. La sua immensa opera di carità solo apparentemente pareva non produrre cambiamento. In realtà ci ha lasciato questo grande dono: sapeva che il dolore esiste, è reale, lo ha avvertito dentro di sé e ha colto il bisogno di ripartire dalla vita delle persone. La risposta di Madre Teresa al contesto storico, politico, sociale è stata quella di reagire per provare a fermare il dolore delle persone.
Mi sovviene una parabola buddhista. Un uomo stava attraversando una foresta quando fu colpito da una freccia. Cadde a terra, perse molto sangue, si ritrovò in punto di morte. Un altro uomo passando di lì notò il ferito. Ciò che fece quest’uomo fu di speculare su chi avrebbe potuto verosimilmente essere stato a colpire quel malcapitato. Estrasse la freccia dal corpo del ferito, ne esaminò il materiale, ne misurò la lunghezza. Fece di tutto fuorché rispondere all’uomo sofferente.
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Nell’avvertire il dolore c’è la radicalità del Vangelo
Vi è una centralità della persona che rischia di essere dimenticata oggi, quando il prendersi cura diventa sostanzialmente un fare, anche caritatevole, senza che però abbia un impatto con la nostra coscienza, senza sapere che il dolore esiste, è reale ed è vissuto dall’altro. Papa Francesco nel suo primo viaggio a Lampedusa disse: «Lasciateci piangere». Questo spazio della spiritualità della condivisione, della fraternità vissuta, della indignazione custodita nella preghiera salmodica, credo che ci debba appartenere. Va detto e ribadito continuamente per evitare di essere assorbiti in una logica da Protezione Civile. Dobbiamo immettere in quello che facciamo una forte carica di umanità.
Madre Teresa avverte che la sofferenza umana era espressione della sua profonda fede e della sua ferma dedizione alla radicalità del Vangelo. La critica che qualcuno le rivolge è che non ha dato risposte al male strutturale della società limitandosi a svolgere l’opera della buona samaritana. Eppure, se ci sforziamo di cogliere in profondità il contesto che ha vissuto, avvertiamo che ha fatto qualcosa di veramente rivoluzionario, anche in termini strutturali, avendo interrotto la vita conventuale per liberarsi e accogliere la sfida che la portò a essere immersa dentro quella quotidianità di vite sofferenti, per restituire la dignità che si deve a ogni vita umana, per quanto sfigurata e ferita essa fosse. Credo che questo sia un dono estremamente importante e significativo.
Anche oggi dobbiamo cogliere continuamente questa stessa radicalità, che deve essere ricondotta in una visione mistica che tiene insieme la capacità contemplativa e quella di chinarsi e inginocchiarsi di fronte ai tanti crocifissi della storia. “Prendersi cura” significa appartenere a questa visione. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, ancora al 183, dice: «Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli». Non c’è fuga, non c’è masochismo. C’è un’urgenza da avvertire profondamente come una dinamica vera, autentica.
Allora “Prendersi cura” vuol dire riappropriarsi di questo sentimento, di questa passione solidale, di questo cambiamento radicale che parte dall’interno, di questo far vibrare la quotidianità nostra popolata da volti e storie di un’umanità dolente, di questo stare nel mezzo come scelta e modo di vivere, di questa idea di Chiesa povera con i poveri. Tutto va riconsegnato, in un’ottica di dialogo interiore e di vita spirituale, al mondo nel quale viviamo per mostrargli la sua povertà di senso e per “aiutarlo” a rileggere la rottura dell’indifferenza aprendo spazi di futuro, di possibilità nuova.
Ecco perché quella che oggi si chiama “conversione ecologica” è una conversione più profonda, che rimette in gioco sentimenti forti. Ritrovando quello che Gandhi diceva rispetto all’utopia della pace e alla radicalità della non violenza. Si tratta di mettersi in dialogo, anche se è sempre più difficile, e lottare per riscoprire un mondo nuovo, che rompe qualsiasi forma di razzismo e di negazione. Qui ritorna anche la figura di Charles de Foucauld nella dimensione del “Deserto” come grande metafora della contemplazione. Lui, Madre Teresa, Francesco d’Assisi, Gandhi, tutte figure da portare dentro di sé, non separate, nella domanda di interiorità profonda.
È dunque da questa fonte che nasce anche tutto l’impegno per il “Prendersi cura” inteso come salute quotidiana, come benessere di una comunità, a partire dalla richiesta di vaccini per tutti o dagli sforzi che stiamo facendo con l’Associazione Prima la comunità (www.primalacomunita.it) per ridare alla medicina territoriale un ruolo da protagonista. Un impegno che vuole attraversare le ingiustizie e rimettere in gioco una visione di salute che è cura, prossimità, istanza comunitaria, competenza.
Per una conversione interiore
C’è allora da trovare la capacità di un silenzio che custodisce e che si chiama preghiera: è la carità contemplativa. Credo che sia la grande novità, la grande urgenza, che ha bisogno di essere coltivata insieme. In un mondo dove 1 miliardo di persone è denutrito e 2 miliardi di persone soffrono di carenze di micronutrienti che portano a scarsa crescita, cecità, aumentato rischio di infezioni, talvolta anche alla morte; in un mondo dove in alcuni Paesi alle donne non è consentito possedere dei beni o accedere all’istruzione; in un mondo dove il 90 per cento dei miliardari sono uomini; in un mondo così, oggi abbiamo bisogno di respirare dentro questi drammi, portandoli fuori dall’indifferenza e richiamando responsabilità.
Per coltivare questo abbiamo però bisogno di non essere dissipati nell’impotenza del cambiare, nel potere economico che ci riduce all’irrilevanza, nel perdersi in conflitti locali incapaci di riaprire una coscienza universale. Tutto lo sforzo da fare rispetto alla visione ecologica del cambiamento credo abbia bisogno di un momento dove si avverta l’urgenza sì di intervenire, ma sempre con un portato di umanità accompagnata da una spiritualità profonda. Dobbiamo allora lasciarci attraversare dai contesti, come ha fatto Madre Teresa, in modo da trasformare anche le nostre categorie interpretative, il nostro modo di stare al mondo.
Spesso chi resta muto lo fa perché il mondo intorno a lui non lo interroga mai, non gli dà mai occasione di esprimere pensiero e parola. Si guardano le immagini televisive e si accostano tra loro, tra uno spot e l’altro, varie realtà da tutto il mondo. Ci si dimentica però il lascito di appropriarsi e di sentire “dentro” quello che accade agli altri. La conversione interiore non è intimismo. Papa Francesco lo richiama continuamente.
Allora necessitiamo di processi trasformativi, di riconoscere cittadinanza a chi vive ai margini, di consegnare titolarità ai poveri dentro la pastorale del vivere. Allora la Chiesa deve stare dentro la storia con un “Prendersi cura” che non è esercizio di potere. C’è il bisogno di riscoprire sul territorio la capacità di generare speranza, di promuovere una lettura diversa. Non va lasciato solo alla politica questo compito. Io ho ripreso a leggere intensamente i Salmi come spunti davvero significativi. Anche i conflitti devono essere presi in carico con una capacità di gestione non violenta. Abbiamo bisogno di prenderci cura di tutto questo per ri-generare.
Il dono della carità contemplativa
La trasformazione che propongo è rilanciare la carità contemplativa, la Chiesa come luogo quasi di monastero che si diffonde, non chiuso in sé stesso, ma aperto, che abbraccia con la foresteria tutto il mondo e non ha problemi di isolamento se si mette in moto il meccanismo della carità operosa come ha fatto Madre Teresa e come fanno le tante esperienze che ci sono. Abbiamo bisogno di ritornare fortemente alla interiorità, direi anche in termini formativi. Abbiamo bisogno di una pedagogia sognante, che affronti il tema del futuro.
Allora si ritorna al dono della gratuità come elemento fondamentale che sa impiantarsi in tutta la complessità del vivere relazionale, economico, strutturale. Tiriamo fuori i sentimenti come capacità poetica e creativa della vita. Ecco, aumentare i luoghi di discernimento credo sia estremamente importante, ritornando a generare una cultura di comunità, una vicinanza di prossimità. È come se, usando un linguaggio psicanalitico, si dovesse dare un “setting” alla speranza.
Allora, nel ripartire anche dai fallimenti e nel ritornare alla domanda «Chi ce lo fa fare?» dobbiamo immettere questa lettura: una lettura della speranza come capacità forte di cambiamento. Il Giubileo della Misericordia voluto da Papa Francesco ci ha lasciato una traccia importante: tutta la riflessione sull’empatia e sulla reciprocità dove non si tratta solo di dare, ma di accorgersi e di ricevere. L’empatia è ciò che sta mancando nel dramma dell’indifferenza. In questo periodo rileggevo anche la grande riflessione di Edith Stein che propone l’empatia come superamento dell’inganno per cui i poveri non possono essere ingannati. C’è un’empatia che nasce da questo, prima ancora che si traduca in advocacy e in capacità politica. C’è bisogno di far circolare questa reciprocità di scambio. C’è bisogno che questa attenzione, questo chinarsi su persone con cui non c’è più niente da fare, non sia semplicemente opera di assistenza, ma un’opera che ci richiama, nel profondo, il volto di Dio. Un Dio che noi chiamiamo misericordioso.
Qui mi viene in mente, riferito al “Prendersi cura”, quanto Papa Francesco ci fa intuire quando parla della nostra generazione così ricca di tecnica, ma così povera di saggezza. Bergoglio ci invita a mettere in discussione il problema di Dio, ma non tanto se esiste Dio, quanto che volto ha e Chi è. Una grande sollecitazione che anche il cardinale Carlo Maria Martini ci aveva lasciato: quella di vivere la carità come quell’inquietudine che mette in dialogo il non credente interrogato che è in noi stessi con il credente che si incontra nel volto misericordioso di Dio.
Conclusione In questo tempo di pandemia riscoprire tutto ciò è un grande dono. Il Covid ha reso la fragilità elemento strutturale. Inoltre, sto riflettendo molto negli ultimi tempi sulla disabilità. La fragilità e la debolezza credo siano il modo con il quale Dio si presenta al mondo per riscoprire il senso di come i più vulnerabili siano straordinariamente il terreno di incontri, le pietre di inciampo, la nostra speranza di cambiamento, coloro che devono portarci a ri-orientare l’immaginario sociale, culturale, politico, in cui siamo immersi per costruire legami sociali realmente dotati di senso. Per tutto questo abbiamo bisogno di immagazzinare, dentro il grande dono di reciprocità, l’essere evangelizzati dai poveri per prenderci cura anche di noi stessi. E per avere quella libertà che ci permette, non in termini paradossali, di porci di fronte alla morte chiamandola sorella e a cantare l’inno del Cantico dei Cantici con purezza francescana che deve ritornare a noi come radicalità e come profezia.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 4, Settembre 2021
Don Virginio Colmegna (Saronno, 1945) è un sacerdote della diocesi di Milano, dal 2002 presidente della Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani”, ente voluto dall’allora Arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, come luogo di accoglienza e ospitalità per persone in difficoltà, che fosse anche centro di elaborazione culturale, di formazione e di studio. Don Virginio si è sempre occupato di poveri ed emarginati, tra cui in particolare persone senza fissa dimora, minori disagiati, sofferenti psichici, immigrati, profughi, rom. Negli anni ha fondato diverse cooperative sociali e comunità di accoglienza (Cooperativa sociale Lotta Contro l’Emarginazione, Cooperativa sociale La Grande Casa, Cooperativa sociale Detto Fatto, Cooperativa sociale Oltre, Associazione Oikos) attivandosi sempre anche per affermare i diritti di cittadinanza dei più deboli oltre che per diffondere la cultura dell’accoglienza, nella convinzione che chi è in difficoltà non vada aiutato con l’assistenzialismo, ma con promozione di diritti, dignità, percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Ha conseguito la licenza in Teologia presso la facoltà Teologica dell’Italia settentrionale nel 1969 e nello stesso anno è ordinato sacerdote. Dopo aver ricoperto negli anni Settanta il ruolo di parroco in quartieri difficili della periferia milanese (Bovisa), negli anni Ottanta assume incarichi in Azione Cattolica di Milano, alla Pastorale diocesana del Lavoro e, a livello nazionale, nel Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca). Dal 2000 è presidente della Campagna di Salute Mentale della Lombardia. È autore di diversi articoli, editoriali, testi e saggi sui temi del disagio sociale e della spiritualità. L’ultimo libro pubblicato è Una vocazione controcorrente. Dialogo sulla spiritualità e sulla dignità degli ultimi, (Il Saggiatore, 2019). Nel 2020 è uscito in eBook Oltre cinquanta gradini. 13 marzo-3 maggio 2020. Diario di un tempo sospeso: lo sguardo sui più deboli, le angosce di tutti, la speranza per un cambiamento d’epoca, (Il Saggiatore, 2020). Dal 2020 è presidente dell’associazione Prima la comunità.