Biennale di architettura 2016

(di Luca Sighel)

È in corso la quindicesima edizione della Biennale di Architettura a Venezia, a cura dell’architetto cileno Alejandro Aravena, uno degli eventi culturali più importanti del nostro Paese, che spesso però noi italiani disertiamo. Offriamo qui alcuni spunti e alcune delle riflessioni sviluppate dalla mostra, suggerendo la visita nella splendida cornice dei Giardini e del vecchio Arsenale della città.

A chi decidesse di visitare a Venezia, presso i Giardini o presso l’Arsenale, la Biennale di Arte o di Architettura, salterebbero agli occhi, già all’entrata, due evidenze: la scarsità di italiani e l’abitudine, di molti visitatori stranieri, di portare con sé i bambini anche abbastanza piccoli.

Eppure l’evento della Biennale, ad anni alterni di arte e di architettura, è uno degli avvenimenti culturali più significativi ed importanti dell’anno e quindi ci si aspetterebbe un’affluenza massiccia, non certo ai livelli dell’Expo o del più recente Floating Piers di Christo sul lago d’Iseo, ma un’attenzione maggiore nei confronti di un’esposizione che raccoglie, attorno ad un tema proposto dal curatore di ogni edizione, gli artisti, gli architetti, gli esperti dell’arte più autorevoli e innovativi del panorama culturale del mondo con più di 60 paesi rappresentati… dovrebbe essere ovvia.

Invece la manifestazione della Biennale è sentita, più per pregiudizio che per vera conoscenza, e soprattutto dagli italiani, lontana, astratta, solo per pochi adepti e, chissà perché, incomprensibile, spesso etichettando le opere artistiche come difficili, astruse, ermetiche, ritenendole distanti, strambe, se non addirittura impopolari, elitarie e snob.

Una non banale attenzione poi si dovrebbe porre a quanto poco ci si preoccupi di introdurre ed educare i piccoli al dialogo con le espressioni e le tendenze artistico–architettoniche contemporanee, non favorendo l’accettazione della fatica paziente del vedere, conoscere e comprendere le diverse forme e ricerche in atto, contribuendo, così, ad allargare quella distanza tra arte e pubblico.

Questa premessa è d’obbligo nel tentare di presentare la Biennale di Architettura del 2016, aperta fino a novembre, perché più di altre edizioni questa esposizione cerca di portare in luce quanto la riflessione sull’architettura sia legata alla realtà che tutti viviamo e al futuro che ci aspetta. È sostanzialmente impossibile riportare qui tutta la ricchezza delle idee, dei progetti e delle proposte in mostra ed è giusto, però, chiedersi quale interesse possa avere la mostra per chi non ha una competenza specifica in questo campo; la risposta sta nel sottolineare come le proposte e i progetti della Biennale allarghino la prospettiva, incrementino il pensiero, stimolino un approccio profondo e internazionale ai problemi del nostro tempo.

Il titolo Reporting from the Front (notizie dal fronte), scelto dal curatore, l’architetto cileno Alejandro Aravena, lancia una sfida all’architettura, perche si ponga sul confine e, da questo nuovo punto di vista, ripensi la realtà contemporanea, osservi le problematiche che ci attanagliano e mediti sulla sua funzione, partendo dal presupposto che «il progresso dell’architettura non è un obiettivo di per sè, ma un modo per migliorare la qualità della vita delle persone».

Lo stesso manifesto chiede un cambiamento di prospettiva: nella foto una donna sulla sommità di una scala guarda verso il deserto, apparentemente il nulla. In realtà Bruce Chatwin racconta che in uno dei suoi viaggi in Sud America vide, stupito, aggirarsi per il deserto un’anziana donna con una scala di alluminio, solo poi venne a sapere che si trattava di una delle piu importanti archeologhe tedesche (Maria Reiche) che stava studiando, dall’alto, gli enormi disegni di Nazca.

Ciascun Paese espositore ha declinato in modo diverso la provocazione del curatore Aravena a mettersi sui confini della nostra società e del nostro mondo e ne è risultata una Biennale che indaga sotto varie sfaccettature gli aspetti sociali legati alla concreta situazione storica che stiamo vivendo. Che cosa è il fronte, il confine, il limite? Dove si trova e che caratteristiche ha? Accenniamo qui ad alcune delle proposte più interessanti offerte al tema.

Il fronte della crisi

Ogni Biennale cerca di rispondere alla stessa domanda sul senso dell’architettura e dell’essere architetti, in particolare in un tempo (dal 2008 ad oggi) in cui il settore edilizio è piombato in un baratro, da cui non è facile nè scontato risalire. Così le notizie arrivano dal fronte della crisi del settore e i curatori del padiglione Spagna allestiscono una ricerca condotta sulle abitazioni mai finite, ma tuttavia divenute dimore effettive di molta gente, che, pur non riuscendo a completarle, ha deciso di stabilircisi: uno spaccato della crisi che ha colpito duramente, a cui si aggiungono opere pubbliche lasciate a metà per mancanza di fondi.

Ma la crisi è anche la ricerca e la mancanza di lavoro per una generazione di nuovi architetti che si sono ritrovati, in questi anni, persi nel mare dei tirocinii infiniti, delle tante promesse e delle opportunità ipotetiche, come rappresenta il padiglione della Serbia, quasi poeticamente, allestendo un enorme vascello in balia di e–mail, curriculum e domande di assunzione.

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Il fronte dell’immigrazione

L’immigrazione, con il suo grave carico di difficoltà e problematiche, pone interrogativi all’utilizzo degli edifici e alla creazione di spazi temporanei di accoglienza a media o lunga permanenza, con diversi livelli di emergenza. Molti paesi  hanno intravisto nel fenomeno immigratorio il vero fronte, soprattutto nel nostro continente, e lo hanno messo a tema. La Germania (Making Heimat. Germany Arrival Country) racconta, in un allestimento politicamente forte, l’esperienza delle città tedesche che han dovuto divenire spazi di assorbimento e integrazione, dato che lo scorso anno le frontiere tedesche hanno visto il passaggio, in ingresso, di oltre un milione di profughi. E, per rappresentare come in Europa c’è chi costruisce muri e chi li abbatte, nelle pareti perimetrali del padiglione tedesco sono stati creati quattro nuovi grandi passaggi, rimuovendo 48 tonnellate di mattoni e aprendo lo spazio verso l’esterno, rimodellando l’austero edificio in un’architettura accogliente e dinamica.

Lo stesso tema è affrontato anche dalla Finlandia, che ha visto crescere, nel 2015, di dieci volte il numero dei richiedenti asilo (fatte le debite proporzioni, come se in Italia avessero chiesto asilo quasi il triplo di coloro che nel 2015 sono sbarcati sulle nostre coste cioe 120.000 persone). È stata l’occasione per il Paese, oltre che per proporre alcuni progetti abitativi di emergenza per i rifugiati, ideati attraverso un concorso, da giovani studi di architettura, anche per ripensare alla propria storia, quella del popolo finlandese, che è una storia di migrazioni successive, che hanno portato a vari e notevoli sconvolgimenti sociali e storici. Provocatoria è una delle riflessioni finali del padiglione: «Forse dovremmo smetterla di parlare di immigrazione e di accoglienza abitativa come problemi temporanei e considerare la pressione virtuosa del cambiamento come un mezzo per migliorare le nostre società. L’immigrazione è una pietra miliare della civilizzazione».

Il fronte dell’urbanizzazione

Una delle analisi più approfondite è stata condotta, in vari modi, sulla crescita delle cittè e la velocissima ed inarrestabile urbanizzazione, avvenuta spesso senza progettualità, permettendo la nascita di mostruose megalopoli, in particolare nei paesi extra–europei, con gravi conseguenze sociali, ambientali ed economiche. La ricerca, esposta all’Arsenale da Habitat III, comprende un arco di tempo di 25 anni (1990– 015) e ha analizzato 186 città.

Mostra come la popolazione urbana sia raddoppiata in metropoli, come Kinshasa, passata da 4 a 10 milioni, con una crescita di 50 abitanti all’ora, mentre le città occidentali hanno un ritmo minore (Chicago si e espansa del 22%) e sono contrapposte a citta come la cinese Guangzhou, di cui forse neppure conosciamo l’esistenza, che, nello stesso periodo, è passata da 2 a 24 milioni di abitanti con un incremento del 925%. Numeri spaventosi che generano conflitti e rendono incalzante la necessità di soluzioni abitative vivibili che garantiscano i servizi essenziali.

Invece stanno emergendo nuove forme urbane fragili e precarie, prive di pianificazione con conseguenze sociali pesanti. Da qui alcune delle parole chiave e delle opposizioni di concetti delle nostre società urbane, messi in evidenza in questa Biennale: la necessità di regolamentazione e la tendenza all’informalità, il dissidio tra integrazione e segregazione, la coesistenza di disuguaglianza e coesione, il sovrapporsi di spazio pubblico e di spazio privato, una forma urbana aperta all’evoluzione e alla crescita e una chiusa, che rischia di implodere su sè stessa.

Il fronte della qualità

Un altro fronte è la qualità degli ambienti in cui noi viviamo, quelli privati e pubblici, e l’esigenza in aumento di qualificare gli spazi dentro le città e non solo. Si tratta di esigenze che nascono in modi e per ragioni diversificate, ma che cercano di rispondere ad un crescente bisogno di contesti personali e collettivi di incontro, aggregazione e scambio. La riqualificazione passa da una nuova consapevolezza che, a livello sociale e politico, preannuncia una sorta di rivoluzione culturale nell’immaginare e vivere gli spazi.

In quest’ottica gli Stati Uniti presentano la situazione concreta della città di Detroit, fino a 10 anni fa uno dei motori dell’economia americana grazie al comparto meccanico–automobilistico, oggi completamente stravolta per le conseguenze della crisi, con intere zone non piu produttive abbandonate e un ampliarsi delle sacche di deterioramento e di disagio sociale ed ambientale. È sorta cosi la necessità di ripensare questi enormi spazi, sottraendoli al degrado. Alcuni studi di giovani architetti hanno cominciato a ripensare e riqualificare intere aree della città attraverso dodici progetti.

Anche nel padiglione Venezia è narrata una storia simile in riferimento a tutta l’ex area industriale di Marghera.

Ma è anche possibile trovare l’iniziativa di un gruppo di giovanissimi architetti ungheresi, che, decisi a trovare “il loro posto nella vita”, senza fondi, hanno convinto le autorità della cittadina ungherese di Eger a concedere loro un edificio inutilizzato con annesso terreno e, utilizzando i materiali trovati in loco, hanno realizzato un centro per attività ricreative, facendo leva sulla partecipazione della comunita e sulla loro idea di creare “un’architettura localmente attiva”.

Visitare la Biennale di Architettura è un viaggio ed un confronto con quei protagonisti presenti e futuri che progetteranno gli scenari delle nostre città e, dato che la vita oscilla tra le necessità fisiche più essenziali e le dimensioni più immateriali della condizione umana, ne consegue che l’impegno per migliorare la qualità dell’ambiente edificato deve agire su molti fronti: dalla garanzia di standard di vita molto pratici e concreti, all’interpretazione e alla soddisfazione dei desideri umani, dal rispetto dell’individuo alla cura del bene comune, dall’efficienza nell’accogliere le attività quotidiane all’espansione dei confini della civiltà.

Il padiglione Olandese con il progetto Blue ne offre una significativa esemplificazione, raccontando i luoghi delle missioni Onu in Africa, che in molti Paesi continuano da decine di anni. Viene analizzata, in particolare, la vicenda del Mali, dove i caschi blu olandesi sono venuti in contatto con la popolazione blu dei Tuareg.

Da qui il titolo, ma anche la crescita di un rapporto che dalla diffidenza iniziale è riuscito a dar vita, nel duro, difficile e, talvolta, disperato tentativo di risoluzione dei problemi quotidiani, ad un contesto di collaborazione e di edificazione comune, non solo architettonica.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 3,  Settembre 2016