(di Stefania Giorgi)
Oggi se qualcosa si rompe siamo pronti a buttarla via senza esitazione. Dobbiamo sbarazzarci di ciò che non funziona, poco importa che si tratti di un vaso regalato da un vecchio amico, di un amore, di un’amicizia o di una speranza. Dall’Oriente però ci arriva una lezione positiva per ricordarci che il dolore ci lascia feriti, cambiati, ma ancora più preziosi.



Oriente e Occidente
Ci separano migliaia di chilometri, ma non si tratta soltanto di una distanza geografica. È evidente come la cultura, la mentalità, gli usi, le tradizioni, la storia siano diversi, tanto da sembrare, a volte, perfino incomprensibili, come pianeti lontani. Non c’è esempio più lampante e istruttivo di questa grande differenza che quello della tecnica artistica di cui ora parliamo.
È capitato a tutti: un momento di distrazione, e l’oggetto in ceramica a cui teniamo tanto cade a terra, rompendosi. Ci rassegniamo a raccogliere i cocci e ad accomodarli nella spazzatura, seppure a malincuore, o a conservarli racchiusi in una scatola; l’idea di provare a ricomporlo magari ci sfiora, ma di norma la abbandoniamo, per pigrizia o per lo scarso valore economico dell’oggetto o semplicemente in quanto fermamente convinti che “un vaso rotto non potrà mai tornare come prima”.
Questo è quello che accade, in genere, in Occidente: in Oriente, o, per essere più precisi, in parte di esso, le cose vanno molto diversamente. In Giappone, quando un oggetto in ceramica (di norma il vasellame) si rompe, lo si ripara con l’oro, poiché si è convinti che un “vaso rotto possa divenire ancora più bello di quanto già non lo fosse in origine”. Tale tecnica di riparazione prende il nome di Kintsugi (pronuncia in italiano: chin-zu-ghi) o Kintsukuroi (letteralmente, “riparare con l’oro”), e consiste nell’incollare i frammenti dell’oggetto rotto con una lacca giallo rossastra naturale e nello spolverare le crepe che attraversano l’opera ricomposta con della polvere d’oro (più raramente d’argento o di rame).
Il risultato è strabiliante: il manufatto è striato d’oro, percorso da linee che lo rendono nuovo, diverso, bellissimo. La casualità determinata dalla rottura, rende gli oggetti redivivi grazie al kintsugi tutti differenti fra loro e dunque unici,oltre che pregevoli per via del metallo prezioso che li decora. Al giorno d’oggi, nella regione di Kyoto esistono ancora alcuni laboratori dedicati esclusivamente all’arte del kintsugi. Alla procedura tradizionale sono state aggiunte alcune varianti; se manca un intero frammento, l’oggetto può essere riparato integrandolo con pezzi di ceramiche differenti, giocando tra contrasti e armonie di colori o disegnando direttamente sulla lacca dorata. Sul mercato esiste anche un kit di riparazione fai-da-te per chi si vuole cimentare personalmente con questa tecnica.
Secondo la leggenda, essa ebbe origine nel Giappone del XV secolo, quando lo shogun Ashikaga Yoshimasa rispedì in Cina alcune teiere cinesi danneggiate perché fossero riparate. I cocci gli vennero restituiti malamente tenuti insieme da orribili cuciture di metallo. Si narra che, da quel momento, gli artigiani giapponesi fecero a gara per ricercare una nuova tecnica di saldatura che rendesse gli oggetti rotti più belli dei nuovi.
Ricorrere al Kintsugi, come facilmente immaginabile, ha un certo costo e richiede del tempo. Ma che questa tecnica non costituisca una pratica alla portata di tutti, appare, tuttavia, del tutto secondario: a contare, infatti, non è tanto la possibilità di riparare un oggetto accrescendone la bellezza e il pregio, quanto la filosofia che ne è alla base, secondo la quale la vita consta non soltanto d’integrità, ma anche di rottura e, come tale, va accolta.
Il dolore prezioso
La compostezza e la solenne dignità e pacatezza dei gesti, caratteristiche molto note del comportamento nipponico, di fronte a circostanze tragiche, sono spesso scambiate per incapacità di esternare i sentimenti. Ma non si tratta di negazione o repressione delle emozioni, quanto di rispetto verso il dolore altrui: i giapponesi sono portati a non mostrare i propri sentimenti non certo per una mancanza di emozione, ma perché la cultura insegna a mettere davanti a sé l’altro. Il dolore di uno vale tanto quello degli altri. Non c’è chi piange più forte, chi raccoglie maggiore cordoglio. Tutti si sostengono gli uni con gli altri e cercano di andare avanti.
Il dolore, per i giapponesi, non incarna un sentimento vergognoso, da estirpare o da occultare, semmai solo da contenere per rispetto, così come l’imperfezione estetica non rappresenta un elemento capace di rovinare l’armonia di una figura.
Per questo motivo le crepe dell’oggetto rotto non vanno nascoste né mimetizzate ma valorizzate, esattamente come le cicatrici, i difetti fisici e le ferite dell’anima non vanno celate perché fanno parte dell’uomo e della sua storia.
Una sensibilità assai distante da quella tipica delle società occidentali, nelle quali il valore affettivo è sempre più spesso sacrificato a quello materiale, la sofferenza è considerata un sentimento da espellere, nascondere e allontanare, anziché un moto dell’anima grazie al quale ciascuno ha la possibilità di comprendere più a fondo se stesso e di reinventarsi; dove i difetti fisici sono camuffati in nome dell’aderenza al modello di perfezione estetica irraggiungibile proposto dai mezzi di comunicazione, invece che valorizzati in quanto elementi di fascino e di unicità.
Il Kintsugi, attraverso, l’arte, ci dimostra che da una ferita risanata, dalla lenta riparazione conseguente a una rottura, può rinascere una forma di bellezza e di perfezione superiore, lasciandoci così intendere che i segni impressi dalla vita sulla nostra pelle e nella nostra mente hanno un valore e un significato, e che è da essi, dalla loro accettazione, dalla loro rimarginazione, che prendono il via i processi di rigenerazione e di rinascita interiore che ci rendono delle persone nuove e risolte.
Una volta Anna Magnani disse al suo truccatore: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. Ci ho messo una vita a farmele venire”. Se ci pensiamo, perfino le perle nascono dal dolore, dalla sofferenza di un’ostrica ferita da un predatore: altro non è, la perla, che una ferita cicatrizzata. Come per un guerriero le ferite erano la dimostrazione del suo valore in guerra, così per una ceramica rappresentano un momento della sua storia in cui ha sofferto ed è stata danneggiata, per poi rinascere e diventare ancora più bella. Al contrario del pensiero dualistico occidentale che si fonda sul contrasto degli opposti – il bello e il brutto, il buono e il cattivo, l’integro e il rotto – il pensiero giapponese ammette la complementarietà degli opposti e il fluido divenire dell’uno nell’altro.
“La vita è integrità e rottura insieme. Il dolore ti insegna che sei viva, il solco che lascia deve essere valorizzato”.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 2, Giugno 2016