(di Padre Aldino Cazzago ocd)
Qualche mese fa, colpiti più intensamente di altre volte dalle immagini televisive di alcune chiese distrutte dal terremoto dello scorso anno, abbiamo scritto una breve riflessione intitolata La bellezza che ci dovrebbe mancare. Con quelle considerazioni mettevamo in rilievo come il terremoto avesse distrutto anche un immenso e secolare patrimonio di arte e di bellezza di cui ora tutti e non solo gli addetti ai lavori, dovevamo sentire la mancanza. Tutto questo però a una condizione: che in precedenza si fosse imparato ad apprezzare e ad amare quella bellezza. È di tutta evidenza infatti che non si può rimpiangere ciò che non si sa di aver avuto.
Ora vorremmo soffermarci a considerare un secondo aspetto del nostro rapporto con la bellezza, o per meglio dire, con tutto ciò che è contrario alla bellezza ma che la bellezza invoca e che per semplicità riassumiamo con i termini di bruttura e bruttezza.
Il Cardinale Gianfranco Ravasi ha osservato che «bruttura» e «bruttezza», pur provenendo dalla stessa radice non sono sinonimi: «Noi siamo assediati dalla “bruttura”, che è una categoria di tipo etico, e dalla “bruttezza”, che è una categoria di tipo estetico».
Bruttura e bruttezza come realtà che anche grazie al nostro consenso, esplicito o implicito poco importa, occupano uno spazio che spetterebbe alla bellezza. Echi di questa bruttura e di questa bruttezza si trovano in vocaboli come laido, sconcio, ripugnante, incuria, trascuratezza, abbandono, squallore, desolazione e molti altri.

Epifanie della bruttura e della bruttezza
Se abbiamo occhi sufficientemente attenti, non costa molta fatica accorgersi di come ci stiamo sempre più abituando a convivere con la bruttezza nelle sue molteplici manifestazioni.
Anzitutto con quella dell’ambiente in cui normalmente viviamo: dalle strade perennemente invase da carte e rifiuti vari, alle piazzole di strade appena fuori dai centri abitati e costellate da sacchi di immondizia o scarti di altro genere; da certi trascurati e fatiscenti uffici pubblici, fino ai parchi giochi per bambini ridotti a ombre di se stessi. E cosa dire poi della mancata cura, per non dire dell’abbandono, di certe periferie? Come non restare meravigliati quando, spesso solo a poche centinaia di metri da queste, invece sussistono oasi di verde, di tranquillità e di bellezza urbana riservata però a pochi. Anche Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ ha scritto di questa contraddittoria situazione.
Un campo dove bruttezza e bruttura si alleano è quello dei rapporti sociali in ambienti particolarmente sfavoriti o degradati. A volte vien da pensare che le bruttezze dell’ambiente e la bruttura, spesso subita, della vita delle persone, si condizionino e si alimentino a vicenda. La violenza e la sopraffazione che feriscono e abbruttiscono tante esistenze trovano in ambienti degradati un fertile terreno e lo stato di abbandono di certi spazi pubblici è il presupposto, certo non l’unico, di vite in cui la bellezza non potrà che brillare solo per la sua assenza.
La bruttura però non segna solo esistenze degradate perché può essere anche l’esito della noia che alberga le «periferie esistenziali» di «ricchi sazi di beni e con il vuoto nel cuore» (Papa Francesco). «Il vuoto e la noia» — ha scritto il critico d’arte Francesco Bonami — «sono parte della nostra vita e forse è meglio degnarli di attenzione piuttosto che far finta che non esistano». A questa noia si può rispondere volgendo però lo sguardo non verso la bruttura e la bruttezza ma verso la bellezza. Lo scrittore rumeno Eugenio Ionesco lo ha espresso a mo’ di grido e di invocazione: «Attendo che la bellezza venga a illuminare un giorno i muri sordidi della mia esistenza quotidiana». Nel Messaggio agli artisti e prima di Ionesco, il concilio Vaticano II si era così espresso: «Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione».
Infine vi è la bruttezza che si allea con la bruttura, e non raramente con la volgarità, di non poche manifestazioni dell’arte contemporanea. Per colpire con più forza lo spettatore, la presunta opera d’arte usa la bruttezza come strumento di provocazione fine a se stessa e così, anziché attrarre e fermare su di sé lo sguardo dello spettatore, lo respinge violentemente verso il suo autore.
Spesso si è tentato di giustificare questa bruttezza, con il richiamo al carattere di contestazione e di rifiuto della società che queste manifestazioni vogliono essere e comunicare. Ne I sentieri della bellezza Paul Valadier ha scritto che «non basta proclamare il carattere protestatario dell’arte quando molto spesso la protesta è soltanto turpitudine esercitata con altri espedienti, ma pur sempre turpitudine».
Quasi mezzo secolo fa, riflettendo sull’arte moderna, il teologo russo Pavel Evdokimov, ha scritto parole che, pensando anche all’esistenza tragicamente conclusa di certi artisti, sono più che mai attuali: «Per la coscienza moderna “frantumata”, l’oggetto non esiste nella sua forma unica ma riveste molteplici aspetti. Prima di scomparire, l’oggetto s’impenna in un’ultima agonia, sembra contorto e convulso. Il contenuto delle cose e l’epidermide dei volti si decompongono, tutto è fatto a pezzi, atomizzato, disintegrato. La realtà così percepita riflette una coscienza anch’essa lacerata e a sua volta se ne penetra».
Davanti a questa avanzata di bruttura e di bruttezza e alla parallela diminuzione del nostro fastidio verso di esse torna alla memoria il giudizio, per qualcuno forse troppo categorico, del grande regista russo Andrej Tarkovskij morto nel 1986: «A mio avviso, una delle cose più tristi tra quelle che accadono nel nostro tempo è la definitiva distruzione nella coscienza dell’uomo di ciò che è collegato con una comprensione cosciente del bello».
Alla domanda se «la scomparsa della bellezza» abbia «delle conseguenze, per così dire sociali», il critico d’arte Vittorio Sgarbi ha così risposto: «Ovviamente sì. Ormai siamo abituati al brutto. E questo soffoca la felicità e anche il Paradiso».
La nostalgia del bello
La storia ha più volte dimostrato come non la bruttezza ma la struggente nostalgia della bellezza sia stata decisiva per la vita dell’uomo in particolare quando questo si è trovato in condizioni di violenza, di abbruttimento e di sofferenza.
Nella sua prima enciclica, Giovanni Paolo II ha scritto che «la nostalgia del bello» è uno degli elementi fondamentali di quell’«inquietudine creativa» in cui «batte e pulsa ciò che è più profondamente umano» e più recentemente Papa Francesco ha ricordato che «non esistono sistemi che annullino completamente l’apertura al bene, alla verità e alla bellezza, né la capacità di reagire, che Dio continua ad incoraggiare dal profondo dei nostri cuori». Due episodi mostrano questo con assoluta evidenza.
Quando nel 2014 i miliziani dell’Isis occuparono la città di Mosul, la prima cosa che fecero fu di proibire la musica perché considerata fonte di peccato. Ora in internet è possibile vedere un breve filmato girato nella parte di Mosul da poco liberata. Qui, in cima alla scalinata che porta alla moschea di Giona quasi totalmente rasa al suolo, un giovane violinista improvvisa un breve concerto. Ai piedi della scalinata alcune giovani ascoltano l’improvvisato concerto. In una breve intervista egli si è così espresso: «Voglio mandare un messaggio al mondo. Contro il terrorismo e tutte le ideologie che limitano la libertà. La musica è una cosa bellissima. Chiunque si opponga ad essa è una brutta persona. La musica è sempre piaciuta a tutti ma erano spaventati dall’Isis. Ci siamo opposti a loro e abbiamo rischiato la vita». Non è superfluo ricordare qui che durante una irruzione nella propria casa, a questo musicista i miliziani dell’Isis avevano sequestrato tutti gli strumenti musicali.
Il secondo episodio ci porta ad uno spaccato della inumana quotidianità della vita nei lager nazisti vissuto e poi raccontato da Viktor E. Frankl. Ecco le sue parole: «L’internato in un campo di concentramento è respinto a un livello primitivo, non solo esteriormente, ma anche nella sua vita intima: ciò non impedisce comunque che affiorino i sintomi, sia pure sporadici, d’una inconfondibile tendenza alla interiorizzazione. […] Per far comprendere, almeno in parte, siffatte esperienze, sono costretto a rievocare […] ciò che ho personalmente vissuto. Che cosa succedeva, dunque, quando dovevamo marciare di primo mattino, dal Lager al terreno fabbricabile, al «cantiere»? Risuona un ordine: «Arbeitskommando Weingut, in cadenza, marsch!! Sinist’ 2-3-4 sinist’ 2-3-4 sinist’ 2-3-4 sinist’ 2-3-4! Capo fila, allineamento laterale! Sinist’ – sinist’ – sinist’ – giù i berretti!». […] Chi ha i piedi coperti da troppe ferite, si appoggia al braccio del vicino, i cui piedi sono meno dolenti. Non parliamo, quasi; il gelido vento dell’alba lo sconsiglia. La bocca nascosta dal bavero rialzato della giacca, il compagno che cammina accanto a me, sussurra d’un tratto: «Tu, se le nostre mogli ci vedessero ora…! Spero che nei loro Lager stiano meglio di noi. Vorrei che non sospettassero neppure che cosa ci succede». Improvvisamente, ho di fronte l’immagine di mia moglie. Mentre inciampiamo per chilometri, guardiamo la neve o scivoliamo su lastre ghiacciate, sempre sorreggendoci a vicenda, aiutandoci gli uni gli altri e trascinandoci avanti, nessuno parla più, ma sappiamo bene che in questi momenti ognuno di noi pensa a sua moglie. Di tanto in tanto guardo il cielo, dove impallidiscono le stelle, o là, dove comincia l’alba, dietro una scura cortina di nubi: ma il mio spirito è ora tutto preso dalla figura che si racchiude nella mia fantasia straordinariamente accesa, e della quale non ho mai avuto sentore prima, nella vita normale. Parlo con mia moglie. La sento rispondere, la vedo sorridere dolcemente, vedo il suo sguardo, e — corporeo o meno — il suo sguardo brilla più del sole che si leva in questo momento. D’un tratto, un pensiero mi fa sussultare: per la prima volta nella mia vita, provo la verità di ciò che per molti pensatori è stato il culmine della saggezza, di ciò che molti poeti hanno cantato; sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. Comprendo ora il senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano ed anche la fede possono offrire: la salvezza delle creature attraverso l’amore e nell’amore! Capisco che l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può sperimentare la beatitudine suprema — sia pure solo per qualche attimo — nella contemplazione interiore dell’essere amato. Nella situazione esterna più misera che si possa immaginare, nella condizione di non potersi esprimere attraverso l’azione, quando la sola cosa che si possa fare è sopportare il dolore con dirittura, sopportarlo a testa alta, ebbene, anche allora, l’uomo può realizzarsi in una contemplazione amorosa, nella contemplazione dell’immagine spirituale della persona amata, che porta in sé. Per la prima volta nella mia vita, sono in grado di capire ciò che si intende, quando si dice: gli angeli sono beati nell’infinita, amorevole contemplazione di uno splendore infinito… […]. I cervelli non si sgelano ancora, i compagni tacciono: il mio spirito è preso ancora dall’immagine della persona amata. Io parlo con lei, lei parla con me. In quell’attimo mi turba un pensiero: non so affatto se mia moglie vive! E capisco una cosa — l’ho imparata in questo momento: l’amore non si riferisce affatto all’esistenza corporea di una persona, ma intende con profondità straordinaria l’essere spirituale della creatura amata: il suo “essere così” (come dicono i filosofi). […] Se avessi saputo che mia moglie era morta, credo che questa consapevolezza non m’avrebbe affatto turbato: avrei continuato nell’amorosa contemplazione, i miei dialoghi spirituali sarebbero stati ugualmente intensi, m’avrebbero dato la stessa pienezza. In quell’attimo scoprii la verità di quelle parole del Cantico dei cantici: Mettimi come sigillo sopra il tuo cuore […] poiché forte come la morte è l’amore (8,6)». Conclusione Se nemmeno le oppressioni più crudeli hanno potuto soffocare la nostalgia del bello che arte e amore umano portano in sé, resta pur vero che, in normali condizioni di vita, questa nostalgia deve essere alimentata da continue, e anche nuove, esperienze di incontro con la bellezza. Tanto per cominciare si potrebbe far tesoro di alcuni consigli della Sacra Scrittura: «Osserva l’arcobaleno e benedici Colui che lo ha fatto: quanto è bello nel suo splendore!» (Sir 43, 11), «Dolce è la luce e bello è per gli occhi vedere il sole» (Qo 11,7) e «L’occhio desidera grazia e bellezza» (Sir 40,22). Il primo modo per educarsi alla bellezza sta allora nel non assuefarsi alla bruttezza che spesso circonda e invade la nostra vita e occupa i nostri ambienti. Se su quella pellicola fotografica che è il nostro occhio e nostri sensi in generale si depositano solo comportamenti, immagini e sensazioni di bruttura e di bruttezza, sarà difficile che la nostra immaginazione e la nostra esistenza quotidiana si nutrano di bellezza. «Sono fatto di tutto quello che ho visto» ha detto un giorno Henri Matisse. Bastano queste parole per capire l’importanza della bellezza e dell’educazione ad essa. Poiché la scuola e l’università sono ancora due luoghi, certo non unici, dove questa educazione avviene o dovrebbe avvenire, è difficile non convenire con quanto ha scritto a questo proposito l’economista Luigino Bruni: «La bellezza è poi essenziale, sebbene oggi meno evidente, per una buona scuola e buone università, che sperimentano carestie non solo di risorse economiche e finanziarie, ma anche di bellezza. Per la formazione del carattere dei bambini e dei giovani dovremmo usare i luoghi più belli della città, oggi catturati dalle banche e dalle rendite, mentre gli studenti sono confinati in edifici sempre meno curati, spesso in un vero stato di degrado. Non so come si possa insegnare, incontrare e conoscere Socrate, Pitagora e Leopardi in luoghi brutti». L’educazione alla bellezza non è una questione di “addetti ai lavori” ma riguarda tutti. Per incontrare e fare esperienza di bellezza non è necessario essere artisti, come per apprezzare un buon cibo non serve essere cuochi, basta essere uomini. Nei confronti della bellezza vale quanto ha scritto Francesco Bonami nei riguardi dell’arte: «L’arte è come il cibo, nessuno dice “non me ne intendo” quando va al ristorante. È il cibo dell’anima e della mente: dopotutto si mangia anche per piacere, non solo per sopravvivere». «La bellezza — ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi — ci libera da questo duplice peso [della bruttura e della bruttezza] e ci fa tendere verso quella bellezza assoluta che per il credente è Dio e che per il non credente è l’assoluto, forse anche il grande mistero che ci avvolge».Continua a leggere
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 2, Giugno 2017