(di Luca Sighel)
Si sta svolgendo a Venezia (fino al 26 novembre) la 57esima edizione della Biennale d’Arte che ha provocato pareri molto contrastanti tra chi denuncia la distanza tra il mondo degli artisti e il pubblico, chi vorrebbe mantenerla, chi ritiene i curatori invece troppo preoccupati di cercare un pubblico. Il tema quest’anno è proprio l’arte stessa.

L’intenzione e gli obiettivi dell’edizione di quest’anno della Biennale d’Arte, curata da Christine Macel, sono chiari: porre al centro della riflessione l’arte e l’artista significa interrogarsi sul significato, i linguaggi, il fine e le cause di ogni espressione artistica. E fa riflettere che, proprio in tempi così incerti come i nostri, in cui scricchiolano tanti riferimenti e certezze, il mondo dell’arte ragioni su di sé, sui propri statuti ed istituzioni, sui linguaggi e sugli stili.
Si tratta quindi di un’esposizione molto varia e che, se da un lato rischia l’autoreferenzialità, non dovendosi confrontare con un argomento esterno a sé, generando una conseguente maggior fatica per il pubblico nella comprensione di opere e temi molto diversi, tuttavia proprio la varietà offre parecchi spunti e occasioni di incontro straordinariamente interessanti a chi si dia tempo per capirne le articolazioni.
La Biennale è attraversata da domande fondanti e non eludibili: che cosa è e che cosa non è arte? Quale è la sua finalità, utilità, mission, se ne ha? Che relazione c’è tra l’arte ed i musei, tra le opere e il pubblico? Che cosa significa essere artisti sia simbolicamente che materialmente? E in che rapporto sta l’arte con la vita? Interrogativi che hanno accompagnato gli ultimi cento anni, sin dalle avanguardie del XX secolo, che sarebbe andato a morire nei campi delle guerre mondiali, quesiti che oggi si ripropongono, in una nuova epoca di nuovi conflitti, in cui è cruciale salvare la bellezza e affermare che l’arte è l’attività più preziosa dell’umanità, il luogo della riflessione, dell’espressione, della libertà, degli interrogativi fondamentali.
Questa edizione della Biennale vuole essere, come dichiarato nella presentazione dal presidente Paolo Baratta “fatta dagli artisti e con gli artisti”, in modo che possano essere mostrati i loro percorsi, le domande, le pratiche e i loro modi di vivere, le tecniche, gli stili, le sperimentazioni.
Gli artisti si raccontano
Veniamo da una cultura che ha assolutizzato la figura dell’artista, ponendo una distanza sempre più ampia tra l’espressione delle opere e i fruitori, portando, anche nell’immaginario collettivo, l’idea che l’essere artista, la sua ricerca e le sue sperimentazioni, siano sinonimo di stravaganza, estrosità, eccentricità o bizzarria, riducendo il sentimento dell’arte ad un piacere immediato quanto temporaneo e limitato a canoni estetici vulgati o obsoleti, che testimoniano tutta la lontananza tra il pubblico e i suoi artisti.
Viva l’arte viva vuole cercare di colmare il gap, vuole ridurre la distanza, intende avvicinare, o riavvicinare il grande pubblico agli artisti, in un dialogo per la comprensione reciproca. Così, accanto a padiglioni e installazioni, sono state pensate ed organizzate diverse iniziative che si muovono in questo senso. Ogni settimana, negli spazi della Biennale stessa, gli artisti, a turno, si mettono intorno ad un tavolo (Tavola aperta), all’ora di pranzo, per incontrare chiunque sia interessato a dialogare con loro, disponibili a narrare il proprio processo creativo, la propria formazione, le opere e le scelte stilistiche.
A tutti gli espositori in Biennale è stato chiesto quali siano stati i testi che maggiormente hanno influenzato il percorso personale ed artistico: ne è nata un’ampia bibliografia e biblioteca che è messa a disposizione, nel progetto Mia Biblioteca, a tutti i visitatori. Altrettanto interessante è il progetto Pratiche d’artista, per il quale ogni giorno viene pubblicato un filmato sul canale della Biennale, in cui il singolo artista spiega le proprie opere e il modo di lavorare, per far scoprire il proprio universo.
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9 Padiglioni
Nel tentativo di essere maggiormente comprensibile l’esposizione è stata sviluppata, al suo interno, in 9 capitoli, 9 temi, o trans–padiglioni, distribuiti tra l’esposizione nelle due sedi classiche ai Giardini e all’Arsenale: il Padiglione dei Libri e degli Artisti, delle Gioie e delle Paure, dello Spazio Comune, della Terra, delle Tradizioni, degli Sciamani, il Padiglione Dionisiaco, dei Colori e del Tempo. Si tratta di un percorso e un racconto discorsivi alla scoperta dei diversi modi di riflettere, leggere e fare arte contemporanea, lontana dalle scelte delle Biennali precedenti dei grandi nomi.
Non sempre le opere esposte sono di facile lettura e, come in realtà sempre accade nell’ambito di mostre contemporanee, si percepisce il rischio di una autocelebrazione dell’artista e del suo gesto, ma il tentativo della curatrice è di suggerire alcuni punti attorno ai quali si aggregano diverse espressioni e l’operare artisticamente del panorama contemporaneo, per diventare chiavi di lettura e metafore e favorire l’accesso al mondo dell’arte.
La prima idea esposta è antica, l’otium contrapposto al negotium, lo spazio e il tempo che è inoperosità secondo la società consumistica e industriale, non efficienza, perdita di tempo, perché non monetizzabile, non spendibile, ma che per l’artista è invece inerzia laboriosa, pensiero, lavoro dello spirito, in cui nascono l’ispirazione e l’azione artistica.
Il secondo tema che emerge, in particolare nelle sale dell’Arsenale, è l’importanza delle trame, dei legami che legano e collegano: in molte opere la tessitura, l’uso del filo, del tessuto vengono usati metaforicamente come nesso, relazione, simbolo dei rapporti che uniscono le persone tra loro agli oggetti, alla memoria, alle tradizioni, al sacro, come nell’opera‒evento Luogo sacro di Ernest Neto, che ha portato in Biennale la cultura di una delle ultime tribù indigene del suo Brasile, Huni Kui, delimitando e rivendicando uno spazio sacro, e denunciando come la distruzione dell’Amazzonia è anche, e soprattutto, la devastazione della cultura e l’umiliazione della spiritualità, vero patrimonio di quelle terre.
Un terzo spunto è la riflessione sugli aspetti magici dell’arte, forse la suggestione più personale della curatrice, che non solo nel Padiglione degli Sciamani, ma in più punti pare suggerire il potere spirituale e taumaturgico dell’artista, che sa trasformare materiali, luoghi, situazioni, che, in un mondo di incertezze e fragilità, possono portare equilibrio, speranza e libertà, proponendo punti di vista diversi e nuovi o impedendo di dimenticare storie e tradizioni.
Padiglioni nazionali
Non poche sono le critiche piovute sulla curatrice per non avere coinvolto personaggi di primo piano, ma aver dato spazio ad artisti poco noti o un po’ dimenticati dal mercato che conta ed aver lasciato a loro decidere il contenuto della propria partecipazione. La scelta non sempre paga, ma alcuni dei padiglioni nazionali offrono opere, performance ed installazioni da non perdere.
A cominciare dal Padiglione Italia, che, in questa edizione, decide di lasciare i suoi grandi spazi a solo tre artisti, come da molto tempo fanno tutti i padiglioni nazionali, mentre la politica fino a questa edizione dei curatori italiani era stata di dare spazio a molti, a volte moltissimi artisti, per cercare di non scontentare nessuno.
La proposta più impressionante è quella di Roberto Cuoghi, che allestisce una fabbrica/laboratorio, dove con materiale organico vengono forgiate immagini del Crocifisso, fedeli a rappresentazioni dell’arte del passato. Tali sculture vengono lasciate all’aria, determinandone il deperimento progressivo con tutti i danni dovuti alla propria consumazione e disgregazione. L’allestimento dal titolo Imitazione di Cristo ha diversi piani di lettura e tocca tutti gli interrogativi posti da questa Biennale sul senso dell’arte, sul rapporto con la tradizione e con il sacro, costringendo ad interrogarsi sulla rappresentazione e rappresentabilità di Cristo.
Il Padiglione U.S.A. si è affidato a Mark Bradford: nella prima sala si è accolti da un’enorme massa, simile ad un meteorite, simbolo del potere, che costringe a camminare lungo i lati della stanza, così come mette ai margini della società chi non è ad esso funzionale. Gli altri spazi, secondo la sua tecnica con carta e vernici incollate e modellate, ospitano rappresentazioni di miti e figure mitologiche (particolarmente suggestiva è la rappresentazione dell’oracolo). Protagonista di questo percorso, intitolato Tomorrow is another day (domani è un altro giorno), è la massa dei diseredati che lottano per sopravvivere ad un potere che li sfrutta, ma che hanno sempre bisogno di miti e di rivelazione.
Israele invece propone un’installazione di Gal Weinstein intitolata Sole fermati che si riferisce all’episodio biblico di Giosuè, quando cercò di fermare il tempo per poter concludere la battaglia contro il re di Canaan. All’interno del padiglione, nel primo piano, il pavimento e le pareti sono state trattate in modo che si generi uno strato di progressiva muffa, mentre al piano superiore viene fermato il tempo nel momento in cui un missile parte dalla sua rampa per colpire: l’artista pone al proprio popolo feroci interrogativi sul rapporto di Israele con una guerra, che pare non avere mai fine, con la propria storia, fatta di miracoli e di distruzione, ma soprattutto con la propria memoria, che rischia di ammuffire dalle fondamenta.
E fortemente politiche sono anche le sculture proposte dal Padiglione Russia: nel Theatrum orbi tre artisti (Grisha Bruskin, Recycle Group e Sasha Pirogova) rappresentano i peccati del mondo contemporaneo, il nuovo ordine mondiale, dove dominano terrore, aggressione, vita irrazionale delle persone sempre più controllate e sorvegliate. Così nella prima sala un’aquila svetta poggiando le sue ali e i suoi stivali su un tappeto di omuncoli tutti nella stessa posizione, mentre, al piano inferiore, figure umane cercano di liberarsi da una sorta di massi di roccia che, come in una pena infernale della Divina Commedia a cui gli autori si ispirano esplicitamente, li hanno imprigionati, figura di un’umanità che, passando da un potere all’altro, sente sempre e comunque la necessità di urlare il suo bisogno di libertà.
Premiato dalla giuria è stato il Padiglione Germania, che immerge il pubblico nella rappresentazione del Faust, ad opera di Anne Imhof, in una serie di performance corporee degli attori dai toni cupi ed inquietanti. L’allestimento ha trasformato il padiglione in una struttura di acciaio e vetro, in cui entra il pubblico, sorvegliata all’entrata da due feroci cani dobermann, nuovi cerberi della tragedia che si sta svolgendo.
Una menzione va data al Padiglione Egitto, che, attraverso il video La Montagna, racconta e riflette sulla storia di una ragazza che fugge dal proprio villaggio, cercando di liberarsi dei propri demoni e da una tradizione che la imprigiona: molto coinvolgente il filmato che viene proiettato in multicanale su cinque grandi schermi, ciascuno dei quali contemporaneamente mostra il momento da cinque punti di vista diversi.
Come da non trascurare nel Padiglione Grecia, Il laboratorio dei dilemmi, claustrofobica metafora dei dubbi dei nostri tempi, che, prendendo spunto dalle Supplici di Eschilo, in particolare riflette sui doveri dell’accoglienza.
Provocazioni e occasioni per riaprire un dialogo fecondo tra gli artisti e con gli artisti.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 3, Settembre 2017