Intervista a Giorgio Gandolfi (a cura di Stefania Giorgi)

 

Abbiamo intervistato Giorgio Gandolfi, presidente di The William Congdon Foundation, per entrare più a fondo nell’opera di questo autore americano che ha amato moltissimo l’Italia. Sempre alla ricerca della verità di sé, ha saputo tenere gli occhi aperti sulla realtà e sull’umano per giungere a scoprire quanto sono stupendamente divini.

 

 

Nella vita di W. Congdon l’impatto con l’orrore dei campi di concentramento segna il primo sconvolgimento della sua vita e l’irrompere di un tormento interiore, che durerà per molto tempo. I colori che dominano i suoi quadri hanno una relazione diretta con il dramma che scorre sotto i suoi occhi?

I colori usati da Congdon sono strettamente connessi all’esperienza della realtà che lo colpisce e che diventa il soggetto di ogni sua singola opera. Negli anni Cinquanta, quelli del suo più forte travaglio interiore, egli usa una tavolozza prevalentemente scura e talvolta caratterizzata da una atmosfera cupa. Non mancano però le eccezioni, che confermano la dinamica del suo “sentire” anche nei suoi momenti più felici; ne sono esempio i quadri di Napoli della fine degli anni Quaranta, la luce forte del deserto del Sahara, da cui si sentiva avvolto, quella limpida dell’aria in Grecia.

Negli anni successivi alla sua conversione, la tavolozza corre parallela al suo percorso di purificazione interiore, divenendo via via più decisa e chiara. Sebbene esistano vari soggetti notturni e tutta la serie dei crocefissi, in prevalenza di colore nero (talvolta dipinti in nero su fondo nero) alcuni riflessi, come i chiari di luna, esprimono una luminosità intensa e nitida.

La pienezza della luce però viene raggiunta negli ultimi vent’anni, nella produzione che raffigura i temi della Bassa Milanese, in cui si assiste a un’esplosione di colori, come a raccogliere il respiro della terra, della natura e della vita finalmente ritrovata.

 

Il viaggio per Congdon ha sempre assunto un significato molto importante, rivestendo di volta in volta il carattere di fuga, di stimolo o di rifugio. I luoghi dove ha abitato sono confluiti sempre nelle sue opere e rappresentano anche un viaggio interiore. Quale evoluzione testimoniano?

Nel percorso della sua vita, a partire dal dopoguerra, ci sono stati alcuni luoghi che Congdon ha scelto per fissare e stabilire lo studio dove lavorare: inizialmente New York, poi Venezia, Assisi e Gudo Gambaredo, alle porte di Milano.

Nel frattempo egli ha viaggiato molto in tutto il mondo e i luoghi in cui si è trovato sono stati sempre fonte della sua ispirazione: i soggetti dei suoi quadri, anche quelli in apparenza meno figurativi, rappresentano un punto di contatto con la realtà che vedeva e che sentiva. Talvolta, quando il soggiorno si prolungava per un tempo più lungo, ha lavorato in studi temporanei. Così è avvenuto a Parigi e a Santorini.

Non mi sentirei di affermare che i suoi viaggi ripetuti rappresentino una fuga da circostanze divenute troppo strette. Congdon non si è mai sottratto alla provocazione di luoghi e circostanze, anche quando queste erano caratterizzate dalla ferita e dal dolore di situazioni drammatiche. Anzi, la sua pittura, nata tra le mura del suo studio — non ha mai dipinto quadri a olio en–plein–air — scaturisce sempre dalla memoria dell’ispirazione avuta di fronte ad un soggetto o un luogo. Sul luogo prendeva appunti o realizzava schizzi, ma l’esecuzione del dipinto si svolgeva nello studio, come un nuovo vissuto, un evento rivissuto nel momento del dipingere.

Ecco perché mi sembra che il concetto del viaggio come fuga non sia appropriato e che riveli in lui una dinamica addirittura opposta. Ne sono esempi i viaggi in India, a Calcutta e Bombay, nella metà degli anni Settanta, con i ritratti di situazioni particolarmente dolorose di persone, di poveri giacenti sui marciapiedi, loro unico luogo di vita e di morte, oppure la serie nata dal disastro ferroviario del 1978 tra Bologna e Firenze in cui morirono decine di persone.

Nato a Providence, davanti all’Oceano, aveva connaturato il senso del viaggio e della navigazione. Fin da giovanissimo per lui erano abituali, quasi una consuetudine, le crociere in Europa con la mamma e parte della famiglia. Concepiva la sua vita come un viaggio e i suoi quadri hanno fissato le tappe del suo pellegrinare.

 

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Congdon, dopo un lungo peregrinare personale ed artistico, si è infine “arreso” all’amore di Cristo e ha riconosciuto in Dio l’origine e il senso di ogni cosa e di ogni vita. Come è cambiata la sua pittura (se è cambiata)? È mutato solo il soggetto dei suoi quadri? In che modo la sua può dirsi arte sacra?

La conversione di Congdon è avvenuta, anche se fu avvertita quasi inconsciamente, fin da quando ha percepito il suo dono artistico. Rispondendo alla chiamata di questo suo talento, ha intravisto il rapporto con Qualcuno che glielo stava donando.

Dalla partecipazione alla seconda guerra mondiale come ambulanziere volontario con l’American Field Service, a diretto contatto con il dolore e la morte, egli ha percepito la sua prima conversione, quella che egli stesso ha chiamato conversione all’arte. La sua vita e il suo compito di artista sono stati elementi per lui sempre molto chiari e connessi tra di loro e costituiscono la sua vocazione, in quel momento laica.

In seguito, dopo un lungo periodo di travaglio interiore, nella conversione alla Chiesa Cattolica ha intravisto il volto, ha dato un nome a Chi lo aveva chiamato fin dall’origine.

Certamente anche il contesto di Chiesa che lo ha accolto è stato determinante e lo ha accompagnato fino alla fine della sua vita. Analogamente all’evoluzione della sua tavolozza, del mutamento dei colori nel corso degli anni, anche la sua pittura entra sempre più in profondità, talvolta dentro i dettagli della natura. Basti pensare alle colture, all’orzo, alla terra, descritti, trattati, quasi “pettinati” e “accarezzati”, o ispezionati nel profondo, seguendone tutte le fasi di crescita, come nella serie dell’orzo del 1991.

Durante i primi anni dalla conversione ha eseguito una serie di soggetti, in cui stranamente ha rappresentato la figura umana, abbandonata fin dagli anni della sua formazione, come una sorta di ingenuo approccio al tema e soggetto religioso. Ben presto però ha intrapreso una strada più libera, dove il sacro è stato espresso dal soggetto, in virtù dell’essere stato creato da un Altro e non necessariamente per il tema rappresentato. Si pensi all’evoluzione del soggetto “crocefisso”, che ha sviluppato in circa 180 opere.

Qui la figura umana ben identificabile (Gesù crocefisso, non la croce) nei primi quadri, viene sempre più a semplificarsi in una forma sintetica, talvolta una massa stiliforme, un elemento iconografico ricco del significato, spesso dato dalla luce, della morte e della resurrezione. In altre serie di soggetto differente, in cui si rappresenta la natura, la sacralità è data dall’elemento raffigurato, voluto e creato, che talvolta dona scorci di silenzio o altre volte vere esplosioni di luce, che parlano direttamente allo spirito.

Spesso ripeteva, come paradosso, come provocazione, un suo aforisma: «Sono piu sacre le mele di Cezanne, delle Madonne di Raffaello». Un invito al confronto con il sacro al di la di ogni dettame ideologico.

 

Dalla data della sua conversione nel 1959, Congdon ha certamente fatto del Crocifisso il centro delle sue opere, arrivando a dipingerne più di duecento. Cosa significa la serialità di questo soggetto? Da dove viene la necessità di questa continua ripetizione?

Come per molti artisti, spesso un tema e stato trattato dipingendo più quadri, creando così una serie con a tema quel singolo soggetto. È interessante in tal senso individuare proprio la dinamica dell’azione del dipingere. L’artista dal momento in cui viene colpito, attratto da un soggetto, lavora dentro di sè come provocato da un pungolo.

L’esecuzione ripetuta del soggetto spesso è un voler entrare “dentro” quel soggetto, fino ad esaurirne l’impulso. In questo senso torno alla domanda sui suoi viaggi e in particolare all’aspetto della ripetuta frequenza di essi, descritta come una fuga. Non parlerei di una fuga, ma proprio di un esaurirsi dell’impulso, inizialmente forte, emanato da un soggetto. Esauritosi tale impulso, l’artista sente l’immediata necessità di trovarne un altro.

Tornando alla serie dei crocefissi, mi sentirei di dire che, sebbene l’artista vi abbia dedicato, nel corso di circa 20 anni, più di una stagione, durante le quali ha concentrato l’esecuzione ravvicinata di vari quadri con a tema Cristo crocefisso, questo soggetto rappresenta una riflessione profonda e costante dell’artista. Basti pensare che il crocefisso, in Congdon, è stato l’unico tema da lui dipinto senza una provocazione

diretta, proveniente dal reale, da uno scorcio intravisto, una situazione vissuta o un monumento che gli si imponesse durante un viaggio. Nel tema del crocefisso ritengo che l’artista abbia visto la sua stessa vita nel suo aspetto più essenziale, ridotta quasi al nulla della morte, ma misteriosamente (o meglio misericordiosamente, proprio nel senso di “miracolo”) accolta da Dio e resuscitata. Evidentemente il punto di vista è colto ancora dal di qua, dal punto di vista della nostra vita mortale, ma già dentro la luce, talvolta un intenso riflesso ottenuto con l’uso della polvere dorata mescolata al colore a olio, una luce che è già resurrezione. Penso che nella rappresentazione del crocefisso abbia spesso intravisto la sua stessa vita destinata alla fine, ma già accolta in un nuovo inizio.

 

«Mai l’uomo si è trovato così solo, artificialmente e pericolosamente sostenuto dall’illusione, dalla superficialità, dalle cose che passano, dai rapporti umani che non durano. E mai l’arte si è rivelata così angosciosamente e nello stesso tempo così autenticamente ricerca dell’uomo, dell’artista, verso la sua origine. Diviso dalla sua vera realtà, l’artista dipinge con una visione fratturata di verità parziali che semplicemente riflettono e proiettano il suo proprio isolamento; una visione zoppicante, che per giustificarsi si assolutizza e diventa per l’artista fine, tanto da imporsi come verità sul mondo, ma che non è né accettata né rigettata come tale, perché nessuno, neanche l’artista stesso, veramente crede più nella verità». Queste parole risalgono ad un discorso tenuto nel 1964 all’Università dell’Idaho, ma descrivono con assoluta attualità la realtà odierna. Secondo Congdon è possibile ricomporre la frattura tra l’arte contemporanea e la dimensione del sacro, e come?

La domanda, così posta, non è forse adeguata alla realtà di Congdon. Lui non ha dato nessuna risposta di ordine teoretico alla questione. O, comunque, non una risposta in termini generali. Se ci ha tentato, o se vi è stato tentato, sono state talvolta come delle forzature. In ogni caso, sebbene con una certa prudenza, sono interessanti le sue, a volte anche “geniali”, affermazioni circa la condizione dell’artista contemporaneo. Alla fine, comunque, sempre si correggeva dicendo che, quando un artista crea un’opera d’arte autentica, questa, al di là della sua consapevolezza, va al di là di una semplice isolata e individualistica protesta. Così, in fondo, egli vedeva la propria arte pre–conversione.

La sua vera risposta, se vogliamo dire così, e stata invece “soggettiva”, o nell’ordine della “testimonianza”, nel senso che egli ha sempre vissuto e operato come artista dentro tale tensione, via via riformulandola attraverso le svolte anche clamorose della sua lunga carriera artistica.

Questa è stata la sua “risposta”. E sta a noi cercare di comprenderla e valutarla. In un suo intervento a Ferrara del 1981, nel corso di una tavola rotonda in occasione della sua mostra personale allestita presso il Palazzo dei Diamanti, così risponde alla domanda postagli:

«Che cosa rimane oggi del tuo originale impulso del ’49, nei Campi silenziosi della Bassa Milanese dell’81?».

«Io so soltanto che, perché qualsiasi vero quadro nasca da me, io devo rituffarmi in quell’originale vortice, rifarmi al ceppo, o soggettivismo dell’action painting, ora — dopo trenta anni — in me purificato dalla sua rabbia. E allo stesso tempo so che dall’oggettivazione mi è venuta la libertà dal febbrile individualismo, cioè dalla rabbia — individualismo e rabbia che per la sua pretesa è sempre, e non meno, moralistico di quella pretesa sulla mia vita del mio ambiente familiare. Se non oggettivata — o ristrutturata —, quella iniziale rabbia contro finisce col diventare una rabbia per ciò contro il quale ci si è ribellati. La rabbia doveva diventare Amore che è sempre il fondo di ogni verità e, perciò, di ogni bellezza. È stato questo Amore che ha compiuto la profezia, nascosta nella “Città nera” del ’49, nei quadri dell’81».

 

La fondazione intitolata a Congdon nasce per sua espressa volontà nel 1980. Oltre a valorizzare l’esperienza artistica del pittore e a tutelare le sue opere, di cosa si occupa e che finalità si propone?

La fondazione no–profit che oggi porta il nome all’artista (The William G.Congdon Foundation) rispecchia la vocazione che Congdon ha riconosciuto e alla quale ha risposto dedicando tutta la sua vita: la vocazione alla vita, datagli da Dio, attraverso l’arte. Per questo motivo, ancora in vita, ha voluto conferire ad essa gran parte del suo patrimonio artistico e letterario. In tal senso era significativo il nome che la fondazione possedeva, prima della morte di Congdon: Fondazione per migliorare la comprensione delle arti (The Foundation for improving understanding of the Arts). Tra le sue finalità cito la promozione del progresso professionale ed educativo di persone interessate alle arti, compresa la raccolta e la distribuzione di materiale educativo e informativo; la preparazione di programmi educativi che coltivino la comprensione delle arti; assistere artisti, aspiranti e affermati, nella loro ricerca individuale per una maggiore conoscenza e comprensione delle arti. Ultimo — ma non troppo — accettare donazioni di somme di denaro, beni o lasciti di collezioni artistiche, al fine di realizzare gli scopi sopra citati.

Dopo la morte di Congdon la principale attività della Fondazione e consistita nella valorizzazione di questo importante e quasi sconosciuto patrimonio. In effetti, di pochi artisti contemporanei esiste una collezione tanto completa di opere, che coprono un periodo di tempo tanto vasto (50 anni), e inoltre una mole così ingente e capillare di documenti che permettono di ricostruire le circostanze, le istanze e le motivazioni profonde del fenomeno creativo. Pertanto, si e scelto di fare di tutto questo patrimonio una sorta di “laboratorio” per lo studio del processo creativo nelle sue valenze molteplici, secondo una prospettiva multidisciplinare.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 2, Giugno 2018