Nonostante l’assoluzione, l’incubo di Asia Bibi non è finito

(di Massimo Gelmini)

Cadute le false accuse di blasfemia, dopo 9 anni di carcere ingiusto e una condanna a morte già emessa e miracolosamente ribaltata, il 31 ottobre scorso è arrivata finalmente l’assoluzione in appello per Asia Bibi. Alla quale, tuttavia, non è concessa ancora la libertà, a causa delle proteste di estremisti islamici che, contrari all’esito del processo, si sono opposti alla sentenza della Corte Suprema di Islamabad invocando un ricorso, minacciando di morte i giudici e persistendo nella fissazione di voler eliminare la donna, anche pagando purché venga scovata e uccisa. In attesa che si possa ottenere per lei e per la sua famiglia un lasciapassare e l’asilo politico in Europa o in altro luogo sicuro, è importante che non cessino le manifestazioni di sostegno in tutto il mondo, per fare pressione sul governo del Pakistan affinché venga rimosso il divieto che impedisce ad Asia Bibi di lasciare il Paese e si restituisca alla sua famiglia la speranza di poter ricominciare a vivere e riconquistare la desiderata libertà.

 

 

Grata a Dio per la libertà

«Ringrazio Dio e prego il Signore. Sono libera». Sono le prime parole pronunciate da Asia Bibi non appena scarcerata dal penitenziario femminile di Multan, nel Punjab, dove ha vissuto gli ultimi anni. Tornata a rivedere il cielo, la donna — secondo fonti vicine ai familiari — ha trascorso il primo giorno di libertà, dopo più di 9 anni di prigione, «ringraziando in continuazione e senza tregua Dio, per aver ascoltato le sue preghiere». Dalla sentenza di assoluzione, ci sono voluti 7 giorni per il suo rilascio, che ha dovuto passare attraverso il riconoscimento dell’Alta Corte di Lahore, dove si è svolto il processo di appello, e della corte di Nankana, la cittadina del Punjab dove in prima istanza era stata giudicata colpevole di blasfemia e condannata a morte nel 2010. Solo il 7 novembre scorso, Asia Bibi è stata portata nella capitale e da qui, sotto costante protezione, trasferita in una località segreta dove ha potuto finalmente riunirsi con il marito Ashiq Masih. L’operazione è avvenuta con estrema riservatezza per non esporre la donna al rischio di ritorsioni da parte dei fondamentalisti islamici che vogliono la sua morte e che si ritiene abbiano più volte attentato alla sua vita, anche negli anni della sua prigionia. Non più di due mesi fa, secondo quanto riportato da fonti giudiziarie pakistane, due guardie del penitenziario di Multan sono state arrestate mentre tentavano di organizzare l’assassinio della detenuta cristiana. L’avvocato musulmano che ha salvato la donna dall’impiccagione, Saiful Malook, immediatamente dopo la conclusione del processo ha dovuto fuggire in Europa a causa delle ripetute minacce di morte ricevute da islamisti radicali. Nonostante Asia Bibi sia formalmente “un libero cittadino”, come ha dichiarato Mohamed Faisal, portavoce del Ministro per gli Affari Esteri, tuttora le viene impedito di lasciare il Paese fino a che la Corte Suprema non si sarà pronunciata sulla richiesta di ricorso inoltrata da esponenti del partito radicale Tehreek–e–Labbaik Pakistan (Tlp), che per giorni sono scesi in massa in strada (in 50 milioni!) protestando violentemente contro l’esito del processo e invocando che venga mantenuta la condanna a morte per quella che considerano una rea confessa di blasfemia contro l’Islam.

La vicenda

Asia Noreen Bibi, che oggi ha 47 anni, è una contadina Pakistana madre di cinque figli. Nel giugno del 2009 fu accusata di blasfemia da alcune compagne di lavoro di fede musulmana in seguito ad un diverbio nato con loro sulla condivisione dell’acqua (secondo le colleghe, Asia avrebbe contaminato l’acqua immergendo la propria tazza nella brocca comune). Secondo le accuse, nella lite che seguì, a chi le disse che avrebbe dovuto convertirsi all’Islam, la donna rispose pronunciando tre gravi offese contro Maometto. Denunciata ad un predicatore per essersi in questo modo macchiata del reato di bestemmia, fu arrestata dalla polizia dopo una breve indagine e messa immediatamente in carcere (a Sheikhupura), non prima di essere stata selvaggiamente picchiata, probabilmente anche stuprata, ed avere sotto coercizione ammesso — sempre secondo la versione degli accusatori — la propria colpa. In realtà, Asia Bibi ha sempre negato le accuse e contestato l’autenticità della confessione, estorta con la violenza, dichiarando invece di essere discriminata e perseguitata a causa del suo credo religioso. 

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Verso la fine del 2010, il tribunale di Nankana Sahib emise la sentenza di condanna a morte, nella quale veniva esclusa qualsiasi attenuante per l’accusata. Contro questo giudizio si appellarono i famigliari che presentarono un ricorso davanti alla Corte di Lahore. Gli anni di detenzione nel carcere di Sheikhupura furono estremamente duri: quando, nel dicembre 2011, una delegazione della Ong Masihi Foundation, che tutela i diritti dei cristiani in Pakistan, visitò la donna in isolamento, la trovò in terribili condizioni di igiene e in uno stato drammatico di salute, sia fisica che psichica. In quell’occasione, Asia Bibi espresse il desiderio di tornare dalla famiglia e, interpellata sul perdono, si espresse con queste parole: «In primo luogo vivevo frustrazione, rabbia, aggressività. Poi, grazie alla fede, dopo aver digiunato e pregato, le cose sono cambiate in me: ho già perdonato chi mi ha accusato di blasfemia. Questo è un capitolo della mia vita che voglio dimenticare».

L’anno successivo, secondo alcune fonti, Qari Salam, colui che formalmente aveva accusato Asia Bibi di blasfemia, avrebbe dichiarato di essersi pentito della sua denuncia, indotta da pregiudizi personali e incoraggiata dall’esasperazione religiosa di altre persone, e di aver anche esitato a portare avanti l’accusa ma di aver subito forti pressioni da parte di organizzazioni fondamentaliste islamiche.

Nel 2013, la detenuta fu trasferita per questioni di sicurezza più lontano, nel carcere di Multan, dove è rimasta fino a poche settimane fa. Nel frattempo, dopo una riconferma nel 2014 della pena capitale da parte dell’Alta Corte di Lahore, a cui i familiari avevano presentato ricorso contro la sentenza di primo grado, nel giugno 2015 la Corte Suprema di Islamabad si pronunciò a favore della sospensione della condanna a morte, accogliendo il ricorso dei legali della donna e rimandando il processo ad un tribunale. La vicenda giudiziaria è giunta a compimento solo il 31 ottobre scorso, quando la Corte Suprema ha accolto la richiesta di assoluzione e ordinato l’immediata scarcerazione.

Un simbolo della persecuzione contro i cristiani

Asia Bibi è stata assolta perché innocente, ma tuttora è costretta a vivere in isolamento coatto, a causa del clima di odio e intolleranza che attraversa il suo Paese, di cui da tempo sono vittime le minoranze religiose, quella cristiana in particolare. Contro questa persecuzione, e contro l’oscenità di una legge come quella sulla blasfemia, si erano espressi anche il governatore del Punjab, Salman Taseer, musulmano, e Shahbaz Bhatti, l’allora ministro per le minoranze, cattolico, entrambi assassinati alcuni mesi dopo l’arresto di Asia Bibi.

Leggi che riguardano i reati contro la religione sono in vigore in Pakistan da quando nel 1947 il Paese si è reso autonomo dall’India, da cui in origine queste norme sono state ereditate. Ma nel corso degli anni ‘80, durante il governo militare del Generale Zia–ul Haq, con la progressiva islamizzazione e la separazione della maggioranza musulmana dalla comunità minoritaria degli Ahmadi, numerose clausole molto restrittive sono state aggiunte quali l’imposizione dell’ergastolo per la profanazione “intenzionale” del Corano o la punizione della blasfemia contro il Profeta Maometto, per la quale la sanzione raccomandata è “morte o reclusione a vita”, in quest’ordine. La forte incidenza delle condanne eseguite negli anni a carico di esponenti delle minoranze ahmadi, cristiana e indù, ma anche musulmana, dimostra come sia strumentale il ricorso a queste leggi, frequentemente invocate per lo più per regolazioni di conti, vendette personali e per vicende che spesso hanno poco a che fare con la religione. Vari tentativi di emendare e riformare questi regolamenti, all’ordine del giorno dei partiti politici laici, sono sempre stati fortemente osteggiati dai gruppi più radicali e fanatici, oltre che da una potentissima opposizione pubblica, mentre coloro che hanno avuto il coraggio di criticare apertamente la legge sulla blasfemia hanno subito minacce o, come è accaduto ai “due giusti” Salman Taseer e Shahbaz Bhatti, sono stati uccisi.

Di loro scriveva Asia Bibi dalla prigione nel 2011: «Tutti e due sapevano che stavano rischiando la vita, perché i fanatici religiosi avevano minacciato di ucciderli. Malgrado ciò, questi uomini pieni di virtù e di umanità non hanno rinunciato a battersi per la libertà religiosa, affinché in terra islamica cristiani, musulmani e indù possano vivere in pace, mano nella mano. Un musulmano e un cristiano che versano il loro sangue per la stessa causa: forse in questo c’è un messaggio di speranza».

La comunità cristiana ha subito molti attacchi negli ultimi anni, molti dei quali legati a denunce di blasfemia, ma anche riconducibili al sentimento anti–occidentale cresciuto a causa della guerra che gli Stati Uniti hanno combattuto in Afghanistan. Finora nessuno è mai stato giustiziato per legge (Asia Bibi è stata la prima donna a rischiare la morte in seguito ad un procedimento giudiziario), tuttavia diversi sono stati i casi di esecuzioni sommarie e linciaggi. E questa ancora più spaventosa condanna, invocata dall’odio — quello sì blasfemo e ignobile — e dal fanatismo di una folla inferocita, è quanto rischia concretamente ancora oggi Asia Bibi, dopo l’annullamento di quella condanna insensata e durissima, emessa e confermata, alla quale è stata destinata per anni nell’attesa del giudizio dentro la sua cella.

E mentre sale la preoccupazione e si moltiplicano le iniziative in suo favore perché venga tratta definitivamente in salvo con la sua famiglia, fuori da quell’incubo che è tuttora il Pakistan, non possono lasciare indifferenti le sue parole di speranza e carità, la sua testimonianza di fede salda e profonda, la sua capacità di perdono. Guardando alla sua storia viene naturale domandarsi, come con commozione ci invitava a fare Marco Tarquinio in un suo editoriale apparso su Avvenire il giorno dei Santi: «Ma in questa parte di mondo sazia e arrabbiata chi di noi messo a una simile prova, posto sotto il peso di una condanna a morte due volte ribadita, chi di noi — ripeto — riuscirebbe a fare altrettanto? Chi di noi saprebbe sfidare con il puro e semplice e disarmato restare ciò che è, una persona cristiana, un potere nutrito e drogato dal consenso degli “arrabbiati” di turno? Chi di noi, paladini di una libertà ricevuta in eredità, mantenuta senza spese, praticata soprattutto a parole? Chi di noi, credenti inclini a catalogare la fede altrui piuttosto che a interrogarci sulla nostra? Chi di noi, abitanti di un pezzo di pianeta nel quale ci si appende al collo per moda il Rosario, quello stesso che Asia, grazie al dono di papa Francesco, in queste ultime settimane ha invece pregato nell’ombra ostile della sua cella?».

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 4, Dicembre 2018