«Io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono la guerra» (Sal 119,7)
(di Marco La Loggia)

Sono 250, ad oggi, le vittime del terrorismo in Francia. Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza ed infine Saint–Étienne–du–Rouvray. I nomi dei terroristi si dimenticano, perché cresce il loro numero e la loro storia scandalizza per la banalità del loro male. Il lutto per la strage di Nizza era poi ancora sulla pelle quando la radio, la televisione e i social media si sono affollati a raccontare che un nuovo attentato era in corso… in una chiesa! In quel momento la violenza si stava imponendo laddove tutti avremmo voluto che non fosse mai stata presente, cioè nello spazio dell’incontro e del sacro. E grandi sono stati la confusione, le lacrime, il dolore tra coloro che cercavano di mettere delle parole su un atto violento compiuto nel luogo dell’annuncio della pace. Il presidente Hollande — scosso come tutti dallo sgozzamento di un sacerdote — ha addirittura osato ridefinire la laicità “alla francese” quando ha dichiarato, durante la conferenza stampa, che «attaccare una chiesa, uccidere un prete, vuol dire profanare la Repubblica, che garantisce la libertà di coscienza» (26 luglio 2016).
La trasformazione del terrorismo
Il terrorismo però è come un animale “vivo” e bisogna sapere da che lato provare ad afferrarlo per non farsi mordere. Secondo gli esperti, inoltre, gli ultimi attacchi hanno dimostrato un cambiamento di stile nel modo di operare dei terroristi, anche se non si sa bene fino a che punto ricercato oppure effetto nefasto di un veleno già in circolo. Si stratta infatti del passaggio dalla strategia del gruppo armato all’azione del singolo o, al massimo, di due. Il 2016 è stato fortemente segnato da questa evoluzione operativa. Oltre Nizza e il caso di padre Hamel, come dimenticare quello dell’islamista che ha attaccato dei poliziotti, indossando una falsa cintura di esplosivo ed un coltello (7 gennaio 2016)? Oppure quello del giovane turco che, «nel nome di Allah», ha aggredito a colpi di machete un insegnante ebreo (11 gennaio 2016)? O ancora quello del doppio omicidio, di una coppia, davanti al loro domicilio (13 giugno 2016)? E forse bisognerebbe chiedersi, in modo provocatorio: come controllare quelli, tra gli 8 milioni di musulmani (sui 66 milioni di cittadini francesi), che non appena “radicalizzati” poi passano all’atto terroristico in modo isolato ed imprevisto?
La paura si diffonde
Il governo Hollande si è trovato totalmente impreparato ad affrontare questa barbarie: perciò è stato necessario ricorrere allo “stato d’urgenza”, malgrado l’evidente riduzione delle libertà. Gli effetti degli attacchi hanno posto il problema della violenza portata nel cuore della democrazia moderna, delle grandi metropoli, al punto da aver intaccato il sentimento di sicurezza e la fiducia reciproca tra francesi, e in particolare tra quelli, all’interno della stessa comunità nazionale, di origine geografica o di religione diverse. Secondo il sociologo Le Goff (Malaise dans la démocratie, 2016) ormai l’angoscia si è diffusa. Nuove forme di ritualismo pubblico, che si svolgono sui luoghi degli attentati, mettono in luce sentimenti di solidarietà (accendere candele, deporre fiori, minuti di silenzio, giornate commemorative, ecc.) che lasciano trasparire, in molti casi, un’incapacità operativa di far fronte alla realtà del male. Le domande si moltiplicano, le risposte mancano. Anzi una domanda, forse la più drammatica, fa breccia, poiché riguarda tutti: come vivere pacificamente e insieme, quando “qualcuno” ci ha scelti come obiettivo? Per costruire la pace non è necessario che anche l’altro lo voglia?
Le difficoltà nel definire il male
La prima difficoltà è stata, ed è ancora, quella di riuscire a dare un nome ed un volto a questo “qualcuno”, seminatore di violenza e morte. Possiamo dire che sono dei terroristi, e su questo c’è unanimità. Ma poi non è facile aggiungere altri aggettivi, sia per rispettare il politically correct sia per evitare grossolane generalizzazioni. Tuttavia, i fatti guidano la nostra intelligenza e ci permettono di disegnare alcuni dei contorni della “malattia” di cui si tratta. Quindi è lecito dire che gli attentati sono stati effettuati da cittadini francesi contro altri cittadini francesi. Gli attentatori sono inoltre di origine araba, nati in Francia da genitori emigrati (con la sola eccezione del tunisino di Nizza). Come gli altri cittadini, sono stati educati e scolarizzati. Inoltre, costoro dicono di ispirarsi al Jihad di un certo Islam, quello di origine salafita, l’ideologia che ha dato vita all’Isis (nel 2014). È dunque possibile e necessario chiedersi: il fatto che tra le vittime del terrorismo nel mondo ci siano anche musulmani, diminuisce il dato che le stragi francesi siano state sempre rivendicate come islamiste? Da parte dei terroristi la morte, in particolare quella dei non–musulmani provocata attraverso il “martirio”, è perpetrata come sacrificio religioso offerto ad una divinità. Si tratta cioè di un vero culto della morte provocata, che è regressione e perversione di ogni forma di religione.
Un poco di memoria
A questo punto ogni teoria circa un astratto pacifismo appare, sotto i colpi dei violenti, pericoloso idealismo. Non è lecito qui far memoria del fatto che, sotto il tornado nazista, gli adepti delle teorie della non–violenza fallirono? Anche le teorie moderne del contratto sociale, da Hobbes fino a Rousseau, appaiono svuotate di contenuti quando accade che, nel medesimo spazio dei cittadini, alcuni si organizzano per ucciderne altri. Secondo il sociologo S. Trigano (Le Figaro, 28 luglio 2016), inoltre, il terrorismo salafita non sarebbe solo una deriva politico– religiosa, ma rappresenta soprattutto un’organizzazione criminale basata sul fondamentalismo islamico. Del resto Küntzel (Jihad et Haine Des Juifs, 2015, Jihad e odio degli ebrei) ha dimostrato i legami ideologici riconoscibili tra i fascismi europei e quell’islam fondamentalista: si pensi, ad esempio, alla strana figura di Amin al-Husseini, quel gran mufti di Gerusalemme che sostenne sia Mussolini che Hitler, sino al punto da creare delle truppe nazi–musulmane (Waffen–SS). Come non ricordare inoltre, come aveva scritto Hanna Arendt, la filiazione tra il gran mufti e quel nazionalismo palestinese che ha come progetto politico la distruzione di Israele attraverso la lotta armata (Carta Nazionale OLP, §9)? Se non si tratta certamente di una pura e semplice guerra di religione, tuttavia sarebbe ingenuo scartare dal fenomeno terroristico ogni ispirazione religiosa: potremmo capire in fondo il Terzo Reich senza far riferimento alla religione pagana che lo ispirava?
Un vuoto giuridico
«C’est la guerre!», ha dichiarato dunque la classe politica francese, in modo quasi unanime. Ne sono seguite due operazioni: l’ordine di chiusura delle moschee salafite finanziate dal Qatar e la creazione di “centri di sradicamento”, per tutti coloro che si sono “radicalizzati” oppure che sono stati tentati dal farlo. Dicono che sarà una guerra lunga. Quello che invece nessuno dice è che la violenza, in un certo modo, ha in realtà già vinto: tali decisioni il governo le aveva prese già prima della strage di Nizza. Il sentire quotidiano lascia pensare, allora, che siamo cullati da una demagogia politica che non riesce più a proteggere i cittadini. In altri termini, domandiamoci: com’è possibile che gli assassini del prete fossero già schedati? Perché non si è intervenuti prima del passaggio all’azione violenta, per prevenirla? Qui sta il paradosso! Il diritto è sospeso dallo “stato d’urgenza”. Ma lo stesso diritto impedisce poi di intervenire in tempo, spesso nel nome della nuova retorica dell’islamofobia. Una presunta fobia, in effetti, che si è installata nel discorso pubblico e impedisce un dibattito libero.
Le critiche pertinenti sulle possibili degenerazioni di una religione sono derubricate a questioni di psicosi oppure a vittimismo degli innocenti che soffrono…
Il vangelo della pace
In realtà tutto ciò che abbiamo descritto è come un albero che nasconde la foresta. Non è facile comprendere gli eventi, soprattutto se li separiamo dalla cronaca precedente. Tra il 2000 ed il 2002, per esempio, in Francia sono stati denunciati oltre 500 atti antisemiti e gli ebrei che lasciano “l’Esagono” (il territorio francese) sono ogni anno più numerosi. I governi hanno taciuto sul fatto che alcuni cittadini musulmani si scagliassero contro cittadini ebrei. Non si è voluto ammettere che nella Francia del Terzo millennio potesse rinascere il mostro del XX secolo, e cioè l’antisemitismo. E adesso che dire, quando non sono più solo gli ebrei ad essere in pericolo? Forse bisognerà imparare a resistere. Forse si resisterà davvero vivendo la vita come dono e compito responsabile, come servizio agli altri, e non solo come volgare consumo. Resistere significa inoltre, per i cristiani, prolungare quella liturgia di Padre Jacques Hamel, interrotta dal sangue. Nonostante tutto, ci sarà sempre qualcuno pronto ad inginocchiarsi, come nel finale del film Mission, in mezzo alle fiamme del villaggio, ai colpi di fucile dei soldati, all’uccisione dei gesuiti e degli indios disarmati per tirar fuori, anche dalla polvere, quel messaggio di pace che noi stessi abbiamo contribuito a distruggere.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 3, Settembre 2016