Vivere e morire sotto il regime di Pyongyang
(di Massimo Gelmini)
La Corea del Nord, mentre si appresta a diventare potenza nucleare, rimane in cima alla lista dei Paesi retti da dittature autoritarie e liberticide. Da settant’anni la famiglia Kim e il Partito dei Lavoratori ne detengono il potere, che negli ultimi cinque anni è finito nelle mani dell’imperturbabile leader supremo Kim Jong–Un, il cui regime si è distinto per la durezza delle azioni di governo e l’implacabilità delle misure repressive. L’annullamento di ogni forma di dissenso e la garanzia di obbedienza da parte dei propri sudditi sono effetti di un clima di paura alimentato dal ricorso indiscriminato alla pena capitale, alla detenzione politica e ai lavori forzati, e procurato dalle numerose restrizioni a cui sono regolarmente sottoposti i cittadini coreani, ai quali non è concesso di uscire dal Paese o di esercitare diritti fondamentali come la libertà di espressione, di associazione e religiosa.

Sotto accusa per violazioni umanitarie
Già nel 2014 una Commissione d’Inchiesta delle Nazioni Unite denunciava gravi violazioni di diritti umani in Corea del Nord, riportando casi di omicidio, tortura, sequestro, riduzione in schiavitù, violenze sessuali e aborti forzati. Seguendo le raccomandazioni scaturite da questa inchiesta, il tema dei diritti umani nel Paese giunse all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, portando nel 2016 ad una risoluzione di condanna ufficiale.
Pur avendo la Corea del Nord ratificato quattro importanti trattati internazionali riguardanti i diritti umani e nonostante alcuni principi di protezione siano contenuti anche nella carta costituzionale del Paese, il governo di Pyongyang persevera nel ledere quotidianamente questi diritti fondamentali, proibendo qualsiasi opposizione politica, vietando le organizzazioni sindacali libere e qualsiasi iniziativa indipendente della società civile. Una storica suddivisione socio–politica (basata sul sistema detto Songbun) che separa la popolazione dalla nascita in classi, distinguendola tra “leali”, “incerti” e “ostili” — per quanto più volte oggetto di ristrutturazione — permette tuttora al potere di discriminare le persone e le famiglie privilegiando o ostacolando l’accesso in ambito lavorativo, scolastico o residenziale. Soltanto la pratica diffusa della corruzione e del pagamento di tangenti può aprire uno spazio di manovra per aggirare la rigida e arbitraria attribuzione ad una casta.
Libertà negate e lavoro forzato
L’accesso all’informazione è subordinato a forti limitazioni. Tutti i media sono rigidamente monopolizzati dallo Stato che esercita un controllo totale su tutta la dimensione sociale e permea, attraverso i propri apparati, la vita dei privati cittadini in modo invadente e ossessivo. La fruizione non autorizzata di giornali, programmi radio, canali televisivi non statali è punita severamente ed il livello di investigazione è talmente approfondito da sottoporre al vaglio i contenuti salvati nella memoria dei cellulari o di altri dispositivi personali. L’uso dei servizi telefonici e della rete è ovviamente soggetto a meticoloso monitoraggio. I tentativi dei nordcoreani di lasciare il Paese fuggendo verso la Cina o la Corea del Sud sono efficacemente “disincentivati” — mediante barriere e presidi militari — e aspramente puniti. La Cina del resto, pur avendo ratificato la Convenzione per i Rifugiati del 1951 e il suo protocollo del 1967, non concede asilo politico ai nordcoreani giunti sul suolo cinese, i quali pertanto rischiano di venire arrestati e, una volta rimpatriati, di affrontare — almeno secondo le testimonianze raccolte da Human Rights Watch e da altre organizzazioni non governative — interrogatori, torture, abusi sessuali e detenzione.
Si stima che centinaia di migliaia di persone — anche bambini — accusate di dissidenza e offesa contro lo Stato siano ad oggi detenute in condizioni di schiavitù dentro carceri e strutture di pena del Paese. Le condanne politiche si scontano nei campi di prigionia dedicati, detti kwanliso, gestiti direttamente dall’Agenzia Nazionale per la Sicurezza, dove maltrattamenti, malnutrizione e abusi di ogni genere sono all’ordine del giorno. Condanne meno pesanti, comminate per reati politici meno gravi, come a chi viene accusato di traffici commerciali illegali o sorpreso a guardare o distribuire film sudcoreani, comportano la detenzione in centri di correzione e rieducazione, noti come kyohwaso. Per reati minori esistono strutture per il lavoro forzato a breve termine (rodong danryeodae) dove la condanna si sconta nella inosservanza dei requisiti minimi di salute e sicurezza.
La pratica del lavoro forzato, non retribuito, è comune in Corea del Nord non solo come strumento coercitivo o correttivo, ma come forma di sostentamento e di finanziamento delle strutture governative e di controllo tipiche di uno Stato totalitario e di un’economia pianificata e centralizzata. L’obbligo di prestare lavoro manuale per lunghi periodi ogni anno può essere imposto dalla scuola agli studenti dai 10 anni. Il lavoro ordinario — svolto in imprese assegnate dal governo — non viene in genere pagato. A tutte le famiglie è richiesto un impegno quotidiano di due ore di lavoro per attività di interesse collettivo o pubblico. Per sovvenzionare il settimo Congresso del Partito Coreano dei Lavoratori, il più importante evento politico del Paese degli ultimi 36 anni, svoltosi per una settimana nel maggio 2016, ai lavoratori nordcoreani è stato “chiesto” un surplus di lavoro per incrementare la produzione di merci e colture.
Ai lavoratori sono sistematicamente negate le libertà di associazione ed espressione, e in generale non sono contemplate le tutele fondamentali previste dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a cui la Corea del Nord non ha aderito.
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Contro i Cristiani
Tra le violazioni più gravi si registra quella della libertà religiosa e di culto, con la particolare avversione verso il Cristianesimo, la cui diffusione viene ritenuta dallo Stato una seria minaccia perché rappresenta una sfida alla dottrina del pensiero unico e della leadership suprema del presidente. Per il 15° anno di fila, la Corea del Nord è risultata il luogo peggiore al mondo dove essere cristiani (secondo la World Watch List 2017 di Porte Aperte). Al di fuori di alcune chiese controllate dallo Stato — tra cui una cattolica dove non opera alcun sacerdote ma vi si svolge solo una preghiera collettiva settimanale — vige il divieto di praticare la religione cristiana. La Chiesa è interamente clandestina e scollegata dal resto del mondo. Semplici manifestazioni di fede come possedere una Bibbia sono considerate reati perseguibili e duramente puniti. Il terrore del regime sconfina anche in Cina, dove attivisti cristiani, missionari e pastori hanno subìto ritorsioni ed espulsioni a causa della loro attività a sostegno dei profughi nordcoreani. Clamorosa, nel maggio 2016, la vicenda del pastore coreano−cinese Han Choong Yeol che fu brutalmente assassinato dopo essere stato raggiunto in territorio cinese dai servizi segreti di Pyongyang. La gravità della persecuzione contro i Cristiani traspare tutta da queste parole di un contatto nordcoreano anonimo, registrate da Porte Aperte: «Molti profughi nordcoreani portano con sé delle Bibbie quando rimpatriano. In Corea del Nord puoi farla franca pur avendo commesso un omicidio se hai dei buoni contatti nel governo. Tuttavia, se ti prendono con una Bibbia, non c’è modo di salvare la tua vita».
La guerra sospesa
Il campionario di violazioni e repressioni sopra descritte rappresenta la consuetudine di un Paese nelle mani di una dittatura dinastico−militare che nel frattempo si è dotata di arsenali e tecnologia utile per divenire vera e propria potenza nucleare. La determinazione di «costruirsi la bomba», una sorta di assicurazione sulla vita per la dinastia Kim, genera comprensibilmente continue tensioni diplomatiche tra le massime potenze mondiali (tutte direttamente o indirettamente schierate attorno a quell’area: Cina, Stati Uniti, Russia e Giappone) e finisce con risultare una seria minaccia per gli equilibri globali. Negli ultimi tempi le relazioni tra Cina e Corea del Sud sono state particolarmente tese a causa del dispiegamento dell’avanzato sistema missilistico di difesa (THAAD) degli Stati Uniti, che la Cina sostiene ostacolare i propri interessi strategici nell’area, mentre USA e Corea del Sud sostengono sia in difesa da potenziali attacchi della Corea del Nord. Il regime di Pyongyang non si trattiene dal mostrare i muscoli destabilizzando i rapporti e proseguendo imperterrito una campagna di test atomici che mettono in agitazione gli osservatori internazionali, sostenendo di avere tutti i diritti di operare per rafforzare il proprio deterrente nucleare per l’autodifesa e la pace. Nel maggio scorso si è conclusa una serie di lanci di missili balistici in violazione delle regole delle Nazioni Unite che ha mostrato un’evoluzione delle prestazioni tecniche e della portata dei razzi che potrebbero essere armati con testate nucleari di grandi dimensioni. In particolare, dopo il test — svolto il 21 maggio — del missile a medio raggio Pukguksong−2 (Mrbm) con portata fino a 2500 km, non sembrerebbe lontano l’obiettivo di sviluppo di missili capaci di rientrare in atmosfera e di avere portata intercontinentale (Icbm). Secondo gli allarmisti, entro il 2020 la Repubblica Democratica Popolare di Corea potrebbe dotarsi di questa tecnologia che le permetterebbe di minacciare un attacco nucleare contro gli Stati Uniti e di far scoppiare la Terza Guerra Mondiale. Nonostante i segnali di distensione e di apertura del nuovo leader del Sud, la situazione nella penisola coreana è in continuo fermento. E dopo più di 60 anni di tregua, sancita con l’armistizio che pose fine alla guerra di Corea nel 1953, la sospensione non è mai sembrata così fragile come oggi. Sicuramente il superamento della crisi passa attraverso l’individuazione di un’intesa da parte degli interlocutori globali, Cina e Stati Uniti soprattutto, per un nuovo ordine asiatico di cui la questione coreana è parte integrante. È auspicio che questo accada privilegiando la via del dialogo e la soluzione diplomatica con un’assunzione di responsabilità autorevole anche da parte delle Nazioni Unite. Purtroppo, qualunque cosa accada, anche escludendo l’esito militare e ipotizzando la più probabile opzione dell’inasprimento delle sanzioni, il processo verso la democratizzazione del Paese è tutto da costruire. A breve non si preannunciano tempi migliori per la popolazione nordcoreana.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 2, Giugno 2017