Dove ci porterà l’onda travolgente del nuovo populismo autoritario?
(di Massimo Gelmini)

Un’ondata populista sta investendo l’Europa e l’Occidente, dove la crisi delle forze politiche tradizionali si accompagna al rafforzamento del consenso a favore di gruppi e movimenti che fanno del populismo autoritario la propria bandiera. Diversi ma con posizioni comuni su molti temi — l’avversione alla globalizzazione, l’opposizione all’establishment, l’ostilità verso l’immigrazione, il protezionismo in campo economico, la chiusura nazionalistica — questi soggetti raccolgono e veicolano il disagio cresciuto nella società civile, provata da una recessione che sembra non finire, delusa da politici distanti e impotenti, ossessionata da paure e preoccupazioni, alla ricerca di capri espiatori per i propri fallimenti e di improbabili soluzioni semplici a problemi complessi. Un processo che va osservato, compreso e affrontato, piuttosto che sminuito o trattato con sufficienza. Solo interpretando la richiesta di cambiamento che alimenta questo fenomeno si eviterà la deriva autoritaria e la disintegrazione della società aperta, solidale e accogliente che dal dopoguerra ad oggi si è cercato di costruire.
L’Europa al capolinea?
Questo numero di Dialoghi viene chiuso per andare in stampa pochi giorni prima che a Roma si tenga la celebrazione del sessantesimo anniversario dell’Europa comunitaria, un evento che nelle aspettative di molti avrebbe dovuto essere l’occasione per rilanciare con determinazione una nuova fase, riaffermare la validità dell’ideale europeo e annunciare la rifondazione di una rinnovata Europa più forte e coesa, prospera e accogliente. Il presentimento è che non sarà così, e temiamo che — al di là delle immancabili parole di circostanza — l’appuntamento di Roma possa finire per essere ricordato come l’annuncio di una resa imminente, la rinuncia a tentare di salvare un’unione ormai in inarrestabile declino, forse addirittura la commemorazione della sua prima amputazione ufficiale (la prima di una serie?), quella deliberata dalla Gran Bretagna del dopo Brexit. Abbiamo già detto altrove quanto fragile, miope e incompiuto sia stato il processo di realizzazione dell’Europa comune e quanto debole sia stata la volontà, quanto timorosa la convinzione degli Stati membri nel promuovere la costruzione di una casa comune, anche rinunciando all’esercizio di una parte della propria sovranità nazionale. Fatta l’Europa, bisognava fare gli Europei. Definiti i confini geografici e stabilite le regole di partenza, serviva che venisse plasmato un popolo, fatto di una pluralità di genti, tradizioni e lingue, ma capace di riconoscersi dentro una comunità, un’appartenenza, per vivere in pace e prosperità. Come sappiamo, sessant’anni non sono stati sufficienti per conseguire, se non parzialmente, questi obiettivi. Se da un lato questo periodo storico è stato per l’Europa caratterizzato dall’assenza di conflitti e quindi la pace appare effettivamente conseguita, altrettanto non può dirsi per la promessa di prosperità, mai così lontana come ora, in un tempo di grave crisi economica come quella che dal 2008 si è abbattuta sul continente e sul mondo intero.
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Un anno elettorale
Senza particolare entusiasmo, gli scenari possibili e le proposte rinnovatrici per l’Europa di domani si moltiplicano — con la previsione di aree a diverse velocità o cerchi concentrici, soluzioni che fino a qualche tempo fa venivano escluse in modo categorico e giudicate inammissibili. Così, mentre il sogno europeista sembra svanire e il futuro immaginato dai padri fondatori pare infrangersi per incapacità o impossibilità di realizzazione del programma, il mantenimento stesso dell’Europa appare a rischio, destabilizzato dal continuo smottamento innescato dalla guerra anti‒unione e alimentato dal dissenso crescente e dalla sovversione democratica di cittadini che, nella fascinazione per una contro‒rivoluzione di impronta autoritaria, progressivamente da anti‒europei stanno diventando sempre più a‒europei. Nei prossimi mesi ci attendono importanti appuntamenti elettorali in Europa. Dopo le elezioni in Olanda, dove la temuta vittoria dello xenofobo partito per la Libertà di Geert Wilders è stata sventata il 15 marzo, sarà la volta delle presidenziali francesi per le quali i sondaggi danno per favorito al primo turno il Front National di Marine Le Pen, la cui campagna di rottura — contro l’Europa, l’euro, gli immigrati, la Nato — riscuote successo in una parte crescente di cittadini che si rifiutano di individuare negli altri candidati — quasi tutti travolti da inchieste giudiziarie e in evidente difficoltà nella corsa all’inseguimento del consenso — una proposta credibile. Abile nel trasformismo e nell’omologazione da marginale partito di estrema destra ad agguerrito movimento in opposizione al sistema, il partito lepenista si trova ad un passo dal conseguire un risultato storico che assesterebbe all’Unione Europea un colpo dagli effetti devastanti e probabilmente letali, ben più grave dello shock provocato dalla Brexit. Incerta è poi la situazione per la Germania, che in autunno andrà al voto per scegliere la composizione della coalizione destinata a guidare il Paese e a influenzare la politica europea negli anni a venire. Infine non mancano segnali di una volontà di destabilizzazione europea anche in Italia, dove da tempo si considera probabile un successo elettorale del Movimento 5 Stelle in occasione di un eventuale appuntamento anticipato con le urne.
La rivolta populista
L’affermazione di raggruppamenti politici etichettabili come populisti autoritari non è un fenomeno esclusivamente europeo, piuttosto l’espressione di un movimento globale che sta cambiando il volto delle democrazie liberali in Occidente. Al di là delle indiscutibili specificità e differenze, questi partiti hanno in comune alcuni tratti fondamentali che permettono di sintetizzarne la peculiarità, che non consiste più tanto, come in passato, nell’adesione ad un apparato ideologico o nell’orientamento tra le categorie politiche tradizionali — ormai decadute — di destra e sinistra, quanto nell’attitudine ad affrontare problemi anche molto complessi proponendo soluzioni in apparenza semplici e immediate, ma che nella migliore delle ipotesi sono il frutto di un’analisi di corto respiro e limitati orizzonti, che trascura di valutare i costi a lungo termine. Nella peggiore delle ipotesi si tratta di soluzioni sbagliate perché elaborate in un contesto di falsificazione e manipolazione della realtà o perché banalmente prodotto di ignoranza, incompetenza e improvvisazione. Difetti, questi, da cui purtroppo non sono esenti nemmeno i partiti tradizionali più moderati o assimilati al sistema, i quali anzi (è dimostrato chiaramente da studi recenti) subiscono la condizione di inferiorità e tentano di riavvicinare l’elettorato spostandosi su posizioni populiste in un tentativo di imitazione che non può che rivelarsi scellerato.
Nell’irrituale e contraddittoria ascesa di Donald Trump — sorprendentemente eletto alla guida degli Stati Uniti al termine di una campagna elettorale dai toni mai così agguerriti —, nell’aggressività di Nigel Farage (ex leader del partito euroscettico Ukip, grande sostenitore della Brexit e alleato del Movimento 5 Stelle al Parlamento Europeo), così come nei proclami con cui la Le Pen ha inaugurato la sua campagna elettorale in Francia o anche, con opportune distinzioni, nelle stravaganti uscite nostrane di Beppe Grillo, si riconoscono sentimenti comuni e medesime fissazioni, un’identica vocazione totalitaria e un insieme coerente di convinzioni. Tra queste spiccano l’ostilità verso i migranti, una certa disinvoltura nel trattare i diritti umani, l’adozione di misure protezionistiche in economia, la tendenza al nazionalismo e all’egoismo in politica estera e infine, curiosamente, l’avversione ai giornali e la preferenza per l’uso di internet, a cui contribuiscono diffondendo notizie non sempre verificate e alimentando teorie cospirazioniste.
Come si sconfigge il populismo?
Il successo dei nuovi estremismi nasce da un rigetto verso l’ordine costituito, ritenuto responsabile delle peggiorate condizioni di vita in seguito all’insorgere della crisi, e verso le élites politiche, eccessivamente sbilanciate a favore del settore bancario e finanziario. Alla radice vi è un rifiuto del “liberalismo cosmopolita”, cioè delle politiche economiche adottate nell’era della globalizzazione, da quando le multinazionali hanno delocalizzato verso le economie emergenti, provocando alla lunga una perdita di posti di lavoro in Occidente e l’impoverimento dei lavoratori e della classe media, a fronte di un arricchimento delle classi più agiate. Questo ha progressivamente portato all’aumento delle disuguaglianze e ha causato un maggiore divario nella distribuzione della ricchezza, fino a determinare la rottura del patto sociale.
Dietro all’ascesa populista c’è quindi un miscuglio di rabbia e paura, una ritorsione livorosa contro la politica elitaria, i poteri forti, e un pervasivo senso di insicurezza economica e sociale che inducono a un’adesione, non tanto nei contenuti quanto per reazione repulsiva, all’unica proposta che, non provenendo dalla politica tradizionale, viene percepita come espressione di cambiamento e discontinuità.
Una volta innescato, il processo, in assenza di antidoti, si ingrossa e si propaga come un’onda travolgente. E arriva a investire assetti consolidati e conquiste storiche che credevamo acquisiti e irreversibili. La risposta delle democrazie parlamentari non può essere quella demagogica di provare ad inseguire i populisti sul loro terreno, né tantomeno quella di chiudersi dentro la roccaforte del sistema difendendo una presunta superiorità distintiva. Limitarsi ad assistere sottovalutando il fenomeno, magari liquidandolo come espressione di ignoranza o manipolazione propagandistica, è altrettanto inutile e dannoso. Servono impegno e lungimiranza per indicare una strada alternativa che porti definitivamente fuori dalla recessione, evitando facili scorciatoie e soluzioni miracolistiche, alla lunga autolesioniste. Ci vogliono passione e competenza per iniziare a proporre idee buone e riuscire a spiegare perché quelle populiste non lo sono.
Il populismo si vince se si sradica il malessere che l’ha generato. E questo richiede che si adottino le misure appropriate di stampo produttivistico per fare in modo che l’economia torni a crescere, ma necessita anche di una politica seria, onesta, con un sguardo alto e capace di vedere lontano.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 1, Aprile 2017