Un dono ricevuto

 

(di Angelo Bonera)

 

«È ovvio che ogni matrimonio è imprudente; così come è imprudente ogni nascita. Se il vostro principale interesse è la prudenza, o se (in altre parole) siete un codardo, è senz’altro meglio non sposarsi; e sarebbe ancor meglio non essere nati» (G.K. Chesterton).

 

 

Procreazione e progresso

Ogni enciclica (o quasi) prende titolo dalle parole iniziali, che sono dunque poste ad emblema del significato più profondo della lettera pontificia. L’ultima enciclica di Paolo VI afferma anzitutto che «il gravissimo dovere di trasmettere la vita umana — (nel testo latino, humanae vitae tradendae munus gravissimum) — per il quale gli sposi sono liberi e responsabili collaboratori di Dio, è sempre stato per essi fonte di grandi gioie, le quali, tuttavia, sono talvolta accompagnate da non poche difficoltà e angustie». Subito dopo, il paragrafo iniziale dell’enciclica prende altresì atto che «[…] col recente evolversi della società, si sono prodotti mutamenti tali da far sorgere nuove questioni, che la chiesa non può ignorare, trattandosi di materia che tanto da vicino tocca la vita e la felicità degli uomini». Ho ritenuto che questa riflessione, che riguarda il significato della Humanae Vitae nella mia esperienza di sposo e di padre, potesse essere guidata proprio da tali prime parole, di premura pastorale ed al contempo di grande forza veritativa. Ed infatti l’enciclica afferma sin da subito che anche le difficoltà della vita matrimoniale impongono doveri di estrema importanza, ed in particolare quello di trasmettere la vita; tuttavia quel che in fondo conta è la felicità dell’uomo, sicché la Chiesa non si esime dal vagliare in ogni circostanza, secondo Verità e secondo il mandato ricevuto da Gesù Cristo, in che effettivamente consista il vero bene della persona e della società. In questa prospettiva, la Humanae Vitae indica sin da subito che tanto i doveri inerenti la vita coniugale, quanto la reale felicità dei coniugi e della famiglia, non dipendono essenzialmente da valori astratti o da ricette per il “buon matrimonio” o per la “buona famiglia”, ma dipendono invece, gli uni e gli altri inscindibilmente, dalla integrale obbedienza alla realtà naturale per cui matrimonio e famiglia esistono ed alla quale sono ordinati: ossia l’essere luogo privilegiato per la trasmissione della vita umana. In altre parole, il magistero della Chiesa non assume ad immediato criterio di valutazione il “benessere” del matrimonio, ma bensì l’“essere conforme alla verità” della vita coniugale, anche se in certi casi tale conformità può richiedere grandi sacrifici. Solo in tale obbedienza alle leggi inscritte nella natura umana si potrà salvaguardare la dignità della persona, nel matrimonio e nella società, e pertanto, con l’aiuto di Dio, conseguire la vera felicità alla quale l’uomo «aspira con tutto il suo essere» (Humanae Vitae, par. 31).

Il vero amore

Ed infatti, come ben noto, la Humanae Vitae risolve il confronto del magistero ecclesiale con i profondi cambiamenti sociali ed antropologici dell’era industriale ribadendo l’assoluto divieto di ogni forma di contraccezione, in quanto sempre e comunque contraria alla legge naturale e divina, oltre che alla costante dottrina della Chiesa. In ragione dei medesimi principi morali, l’enciclica affida le esigenze della «paternità responsabile», della manifestazione dell’affetto coniugale e della «salvaguardia della mutua fedeltà» al ricorso ai periodi infecondi (i cosiddetti metodi naturali). È parimenti noto che il magistero della Chiesa fonda tale dottrina sul dato di realtà che l’atto coniugale, per sua «intima struttura», è essenzialmente unitivo e procreativo, per cui la contraccezione (ben diversamente dai metodi naturali) viene a mutilarne il vero significato d’amore in quanto contraddice «alla natura dell’uomo come della donna e del loro più intimo rapporto»: infatti la scissione del piacere sessuale dall’ordine naturale della procreazione (ossia dai ritmi già disposti dalla natura per distanziare le nascite) imprime nella relazione fra i coniugi il segno dell’egoismo. A tale riguardo, la Humanae Vitae avvertiva del pericolo che l’uomo «finisca per perdere il rispetto della donna» ed «arrivi a considerarla come semplice strumento di godimento egoistico e non più come sua compagna, rispettata e amata” (par. 17), e che in tale prospettiva si aprisse altresì una «via larga e facile […] all’infedeltà coniugale ed all’abbassamento generale della moralità». A tale riguardo, l’odierna situazione morale è di estrema evidenza, ed è ugualmente evidente, anche nei casi di cronaca, come la pretesa liberazione della sessualità abbia in realtà moltiplicato l’insoddisfazione e generato situazioni davvero disperanti.

Amare Dio

Ma soprattutto, con intuizione davvero profetica, l’ultima enciclica di Paolo VI ha ben chiarito che usufruire del dono dell’amore coniugale senza rispettare le leggi del processo generativo significa affermarsi «arbitri delle sorgenti della vita umana», invece che «ministri del disegno stabilito dal creatore» (par. 13). Ed infatti, a partire dalla contraccezione, anche in materia di vita umana il fattibile tecnico diviene diritto, e così via per il piano inclinato che oggi, con i progressi della bioingegneria, ha reso la vita umana un bene assolutamente disponibile al suo inizio (aborto, eugenetica, fecondazione assistita o utero in affitto), e con lo sviluppo di questa cultura di arbitrio sulla vita umana, anche al suo termine ed anche ben prima (eutanasia più o meno mascherata). È infatti evidente che una volta che il senso comune ha smarrito l’idea che un figlio sia una creatura ricevuta in dono da un ordine “altro” rispetto alla nostra pura volontà, poi lo si è potuto legalmente abortire ed ora lo si può rendere oggetto di produzione artificiale. Dunque ricevere l’insegnamento della Humanae Vitae significa accogliere l’ordine creato, nel matrimonio, nell’intera propria vita e nella società, e quindi amare veramente Dio accettando la Sua volontà.

I frutti della Humanae Vitae

La stessa Humanae Vitae indica gli abbondanti frutti spirituali che possono scaturire per la vita matrimoniale dall’osservanza della «continenza periodica». In particolare, tale sforzo conferisce all’amore coniugale «un più alto valore umano» e quindi «favorisce l’attenzione verso l’altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, e approfondisce il senso di responsabilità nel compimento dei loro doveri» (par. 21). A ciò si potrebbe aggiungere, trascorsi quarant’anni dall’enciclica e con il successivo progresso delle conoscenze sui metodi naturali, che tale continenza può anche non risultare sempre così eroica ove considerata la breve durata del periodo fertile; è anzi senz’altro vero che l’attesa contribuisce a sottrarre la vita coniugale alla meccanica ordinarietà, e che la partecipazione al mistero della vita propria del rispetto dei ritmi naturali ne conserva il senso di sacralità. Tuttavia, come accennato in apertura di questa riflessione, quel che risulta più essenziale nella mia personale prospettiva è che la Humanae Vitae non mette a tema di offrire soluzioni per una buona vita matrimoniale o per una buona famiglia, ma anzitutto indica cosa sono il matrimonio e la famiglia, cioè vita umana, e quindi un dono misterioso non costruito da noi e non una serie di problemi di cui programmare la soluzione.

Infatti per quanti sforzi morali, educativi o economici (più o meno efficaci) possiamo fare, possiamo nondimeno doverci confrontare con ogni tipo di dramma familiare; e peraltro diveniamo padri e madri senza alcuna preventiva (e spesso nemmeno successiva) certezza delle nostre capacità e competenze di genitori, né delle qualità o della sorte dei nostri figli. In questa prospettiva, l’enciclica di Paolo VI ci ricorda che il matrimonio è il luogo della generazione («dovere gravissimo di trasmettere la vita umana») prima che di un astratto “amore” o dell’educazione della prole, che in teoria potrebbero anche essere forniti da altre strutture o istituzioni. Ci ricorda che un figlio è anzitutto un essere generato da una sorgente che ci trascende ed è quindi un “altro” da noi e dai nostri progetti. E che dunque è un bene di per sé, al di là di quel che noi possiamo intendere o desiderare come suo o nostro bene.

Una vita umana

Con quest’ultima considerazione mia moglie ed io dobbiamo confrontarci ogni giorno, da quando nostra figlia, poco dopo la nascita, ha rivelato una rara malformazione con relativa gravissima disabilità. A quel tempo, io ero pervaso da un grande senso di orgoglio per i frutti del mio progetto matrimoniale: due fi gli in breve tempo, un maschio e la femmina, il pensiero rivolto ad organizzare gli spazi per i giochi e a tante altre gioie future. Sin dai primi momenti, il pensiero che ho ritenuto di respingere e poi di cancellare è stato “quanto bello sarebbe potuto essere se lei fosse nata sana”, perché tale pensiero avrebbe potuto finire per sottintendere anche “quanto bene saremmo stati tutti quanti senza di lei”. E così la padronanza di sé, il senso di responsabilità, l’attenzione all’altro e l’altruismo fino al dono integrale di sé senza riserve, ossia le virtù della Humanae vitae, hanno dovuto misurarsi su un terreno ben più arduo del previsto, ed hanno rivelato tutta la loro estrema importanza. Per questa via dobbiamo ogni giorno cercare di amare nostra figlia anche semplicemente perché è una bambina, la nostra bambina. Negli ultimi mesi, con il mettere a tema di giudizio il “bene del bambino” e con il voler dimenticare che si trattava di un bambino, i Tribunali inglesi hanno finito per decretare la morte, per soffocamento, di (almeno) tre piccole creature. Questo è il “bene” separato dall’essere, cioè il nemico della vita umana.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 3, Settembre 2018