(di Massimo Gelmini)

Stremato da anni di conflitti, il secondo Paese più vasto del continente africano, ex Zaire, è nuovamente investito da un’ondata di violenze che rischiano di farlo precipitare nell’incubo dell’ennesima guerra civile. La drammatica situazione politica e sociale, che vede la chiesa cattolica locale impegnata a difesa della popolazione civile e per questo nel mirino di una dura campagna di ritorsioni e diffamazione, potrebbe provocare l’implosione di un Paese da sempre lacerato da lotte inter-etniche e dalla contesa per il controllo delle immense riserve minerarie. Dove peraltro avviene l’estrazione, spesso in condizioni di sfruttamento e precarietà, della materia prima usata per la fabbricazione delle batterie dei nostri smartphone. La crisi mai risolta della Repubblica Democratica del Congo.

Una triste storia che si ripete

In Congo sta andando in scena l’ennesima riproposizione di una storia nota e purtroppo spesso ricorrente nel continente africano: il dramma di una crisi politica e umanitaria alimentata dalla prevaricazione di un presidente che, al termine del proprio mandato, sfruttando l’instabilità e l’incertezza del Paese, si rifi uta di favorire democraticamente l’avvicendamento al potere e — svelando la propria natura totalitaria — fi nisce con l’attuare una brutale repressione del suo popolo.

Joseph Kabila avrebbe dovuto lasciare la presidenza della Repubblica Democratica del Congo (RDC) il 19 dicembre 2016, al raggiungimento del limite di due mandati previsto dalla Costituzione, ma in un clima di scontri e proteste, sedate con grande dispiegamento di forze e spargimento di sangue, era riuscito a prorogare la scadenza grazie all’accordo, mediato dalla Chiesa cattolica e siglato alla fi ne dello stesso anno, che prevedeva un governo di transizione e l’impegno chiaro a indire elezioni presidenziali entro la fine del 2017. Nel corso dell’anno, tuttavia, la situazione è nuovamente precipitata in tutto il Paese quando, di fronte allo stallo nell’attuazione degli accordi e alla mancata assunzione di responsabilità dei leader di governo, sono riprese le violente misure repressive contro le opposizioni, i media e gruppi della società civile, e negli attacchi ad opera di gruppi armati e corpi di sicurezza governativi hanno perso la vita molte persone.

Ma i problemi del Congo non sono nati nel 2016. Dalla sua fondazione, il Paese non trova pace ed è ciclicamente investito da forti tensioni, disordini e confl itti, spesso originati dalle mire di élite locali o potentati stranieri interessati a mettere mano sulle notevoli ricchezze minerarie di cui è ricco il suo sottosuolo.

Uno scandalo geologico

La Repubblica Democratica del Congo è il quarto produttore di diamanti e nel suo sottosuolo si trovano grandi giacimenti di uranio, oro, coltan, rame e petrolio. Possiede soprattutto il 60 per cento del cobalto estratto a livello mondiale, impiegato per la realizzazione di fi bre ottiche ed essenziale per la produzione delle batterie agli ioni di litio che alimentano comunemente smartphone, computer e auto elettriche. Il fatto che da queste ricchezze il Congo abbia ricavato nella sua storia più sangue che benefi ci rappresenta una grande contraddizione, lo “scandalo geologico” — così lo ha defi nito il gesuita congolese Rigobert Minani — del vedere una potenziale risorsa consumarsi e divenire paradossalmente causa di drammatico impoverimento.

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Negli ultimi anni, la corsa frenetica globale all’approvvigionamento a basso costo del cobalto ha investito il Paese, nelle cui miniere lavorano a ritmi disumani, in condizioni spesso precarie e pericolose, i cosiddetti “minatori artigianali”, operai costretti per estrema povertà a scavare il suolo usando attrezzi manuali. In molti siti i lavoratori operano in assenza di tutele e regolamentazioni, sottopagati ed esposti ad elevato rischio di infortuni. L’incidenza di abusi dei diritti umani e il ricorso al lavoro minorile sono altissimi. Già nel 2012 Unicef stimava che 40 mila bambini lavorassero nelle miniere del sud. Secondo un’inchiesta del Washington Post del 2016, basata su testimonianze dirette e dati raccolti da organizzazioni umanitarie, emergerebbe una forte complicità dell’industria mineraria nel tacere le irregolarità e gli abusi che avvengono nell’estrazione artigianale del cobalto e nel nascondere l’origine di parte delle materie prime che alimentano la catena produttiva. Rapporti sanitari sostengono inoltre che l’attività mineraria è responsabile di malattie e difetti alla nascita dovuti all’inquinamento da metalli tossici disseminati nell’ambiente attorno alle grandi aree estrattive.

Anni di tribolazioni

Ottenuta l’indipendenza dal Belgio nel 1960, la RDC ha continuato a subire la pesante eredità del colonialismo, senza mai riuscire a liberarsi dalla confl ittualità tra faide interne, spesso sostenute da forze straniere. Nel 1997, dopo il rovesciamento del dittatore Mobutu Sese Seko al termine di una ribellione armata appoggiata da Rwanda e Uganda, scoppia in Congo una sanguinosa guerra che in sei anni coinvolge sette diversi Paesi (sarà ricordata come la Prima Guerra Mondiale Africana) provocando oltre 5 milioni di morti e milioni di sfollati che tuttora risiedono soprattutto nelle regioni orientali, le più povere e martoriate dagli effetti di scontri e violenze.

A partire dal 2016, le instabilità si estendono al Kasai, una regione molto ricca di diamanti nel sud−ovest del Paese, vicino al confi ne con l’Angola. Il confl itto, scatenato dall’uccisione di un leader locale oppositore di Kabila da parte dell’esercito governativo e dalla successiva reazione della popolazione insorta e mobilitata da gruppi di ribelli, si allarga rapidamente assumendo anche la connotazione di scontro inter−etnico tra le fazioni Luba, Tuhokue e Penda. Le pesanti ritorsioni messe in atto dalle forze armate governative (FARDC) e gli abusi commessi dalle milizie dei rivoltosi, spesso accusate di fare largo uso del reclutamento di bambini, aggravano la crisi, le cui dimensioni si intuiscono da questi numeri: circa 1 milione e mezzo di profughi, almeno 3000 morti, migliaia di abitazioni distrutte, centinaia di scuole e ospedali colpiti o saccheggiati, 62 fosse comuni rinvenute. Complessivamente, a fi ne 2017, in Repubblica Democratica del Congo si contavano 4,25 milioni di sfollati interni, di cui quasi 2 milioni provocati nell’ultimo anno, a cui si devono aggiungere circa 600 mila congolesi fuggiti verso altri Paesi africani.

Secondo le stime dell’UNHCR (l’Agenzia Onu per i Rifugiati), ci sarebbe poi anche più di mezzo milione di africani provenienti da altri Paesi, soprattutto dal Burundi, dalla Repubblica Centrafricana e dal Sud Sudan, che chiedono protezione e cercano rifugio in RDC.

La crisi attuale

In questo scenario così devastato si inserisce l’attuale crisi politica generalizzata, legata alla persistenza al potere della famiglia Kabila, che coinvolge in modo particolare la Chiesa cattolica e tutte le altre Chiese presenti in Congo, insieme alle Associazioni dei laici, che da qualche tempo giocano un ruolo rilevante a sostegno della popolazione.

Disposto ad ogni mezzo pur di non rinunciare al potere, Joseph Kabila è a capo della Repubblica dal 2006, dopo essere stato alla guida di un governo di transizione iniziato nel 2001, in seguito alla morte del padre Laurent Désiré, suo predecessore e vittima di un tentativo di colpo di Stato avvenuto nello stesso anno. Di fronte a questa impasse politica, è stato dapprima decisivo il ruolo di mediazione svolto dal Centro interdiocesano della Conferenza Episcopale Congolese (CENCO), vero promotore del processo di dialogo tra le forze politiche che ha portato al cosiddetto Accordo di San Silvestro, fi rmato il 31 dicembre 2016 e successivamente disatteso dal Presidente, più che riluttante a farsi da parte.

Negli ultimi mesi poi, in seguito all’acuirsi delle tensioni e alla violenta repressione delle proteste sorte nella capitale Kinshasa e in tutte le principali città del Paese — dove diversi partecipanti sono stati arrestati, feriti o uccisi —, la Chiesa congolese ha preso nettamente posizione contro Kabila, facendosi promotrice di manifestazioni pacifi che come quelle svolte il 31 dicembre 2017 e il 21 gennaio 2018, nelle quali si è chiesto apertamente al Presidente di andarsene. Le ritorsioni non si sono fatte attendere, gettando le comunità cristiane in un clima di terrore, dopo che molte parrocchie sono state accerchiate dall’esercito, alcuni centri di culto profanati, le celebrazioni interrotte o impedite dalla polizia, vari uffi ci e centri delle diocesi saccheggiati mentre numerosi esponenti del clero sono vittime di sequestri o denunciano di subire quotidianamente minacce e intimidazioni.

L’appello del Papa

Considerata la scarsa attenzione internazionale suscitata da questi tragici fatti, è stata appropriata la scelta di Papa Francesco di indire una giornata di digiuno e preghiera lo scorso 23 febbraio. Ci auguriamo che la richiesta di pace per il Congo, oltre a dare speranza e a far sentire una presenza vicina al popolo congolese che soffre e lotta, non sia passata inosservata e abbia contribuito a sensibilizzare il mondo e ad amplifi care il grido di denuncia che si alza dal “cuore di tenebra” dell’Africa. Già nel 2016, incontrando Kabila a Roma, il pontefi ce aveva sottolineato «l’importanza della collaborazione tra gli attori politici e i rappresentanti della società civile e delle comunità religiose, in favore del bene comune, attraverso un dialogo rispettoso e inclusivo per la stabilità e la pace nel Paese».

Mai come oggi, prima che la nuova spirale di violenza faccia ricadere il Congo dentro l’ennesima guerra civile, è attuale «l’urgenza di una cooperazione a livello nazionale e internazionale per prestare l’assistenza necessaria e ristabilire la convivenza civile». La comunità internazionale e le cancellerie europee non possono limitarsi a condannare quanto accaduto, ma devono esercitare sul governo congolese la necessaria pressione per indurlo ad agevolare l’avvicendamento politico senza procrastinare ulteriormente le consultazioni elettorali. È altrettanto fondamentale che si prenda coscienza delle responsabilità nazionali e internazionali sulla crisi mai risolta del Paese subsahariano — oggi pericolosamente lacerato da divisioni intestine e ridotto ad una grande polveriera a rischio di esplosione — in gran parte riconducibile alle contese per il controllo delle sue immense riserve minerarie, per lo più sfruttate da parte di aziende straniere.

A noi, disattenti e occasionali osservatori di quanto accade lontano dal nostro mondo progredito, entusiasti consumatori di beni tecnologici la cui produzione passa anche attraverso distorsioni socio-politiche e logiche di sfruttamento, si chiede uno sforzo di rifl essione e una maggiore consapevolezza del dramma vissuto dal popolo congolese.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 1, Marzo 2018