(a cura di P. Fabio Silvestri ocd e Alessio Musio)

Il prossimo mese di dicembre gli italiani saranno chiamati a votare, con referendum popolare, per approvare o respingere le riforme della Costituzione promosse dal governo Renzi e poi approvate dal Parlamento (note con il nome di “legge Boschi”). Per votare in modo consapevole — per il Sì o per il No — è dunque necessario conoscere le ragioni dell’una e dell’altra scelta. Per questo, Dialoghi ha deciso di offrire ai propri lettori un contributo di qualità alla riflessione sui temi del referendum e di farlo attraverso un metodo chiaro. E cioè presentando le ragioni del Sì e del No, attraverso una duplice intervista, realizzata proponendo le medesime domande a due dei principali esperti impegnati nella campagna referendaria: il professor Carlo Fusaro, costituzionalista dell’Università di Firenze, autore di una “Guida alla Riforma” e tra i più attivi sostenitori del Sì; ed il professor Valerio Onida, dell’Università di Milano, già giudice e Presidente della Corte Costituzionale, che è promotore di un documento per il No firmato da altri 56 costituzionalisti.

Ma cosa si intende, innanzi tutto, per “referendum costituzionale”? L’art. 138 della Costituzione lo prevede per approvare o bocciare una legge costituzionale che non sia stata approvata con la maggioranza qualificata dei due terzi dal Parlamento. Deve essere indetto entro tre mesi dall’avvenuta approvazione e non prevede un quorum da raggiungere (ad es. del 50% dei votanti). Quello in programma sarà il terzo referendum costituzionale nella storia della Repubblica italiana, dopo quello del 2001 (che portò alla conferma delle modifiche proposte) e dopo quello del 2006 (che portò invece alla bocciatura della riforma). Prima del 2001, invece, tutte le altre modifiche alla Costituzione erano state già approvate con i voti dei due terzi delle Camere, senza dover essere quindi confermate con un referendum. Il testo attuale, approvato dal Parlamento lo scorso 12 aprile, titola «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione». La legge è divisa in 41 articoli, che modificano cinque dei sei “Titoli” in cui è divisa la seconda parte della Costituzione italiana.

Quali sono dunque le ragioni più serie per il Sì e quali invece quelle per il No? Le interviste al Prof. Fusaro e al Prof. Onida consentiranno di conoscerle e capirle meglio in vista del referendum.

 

LE RAGIONI DEL SÌ


Professor Carlo Fusaro. È nato in Svizzera nel 1950 e, dal 1999, è professore di Diritto elettorale e parlamentare presso la Scuola “C. Alfieri” dell’Università di Firenze. In precedenza è stato professore associato di Diritto pubblico ed è stato visiting professor presso le Università di Brema, di Hiroshima e presso l’UCL (University College London). È stato presidente del Collegio garante della costituzionalità delle norme di San Marino. È commentatore di questioni istituzionali per il “Corriere fiorentino” (Corriere della Sera) e per “l’Unità”. È autore con Augusto Barbera, di due manuali: Corso di diritto pubblico e Corso di diritto costituzionale, editi dal Mulino (Bologna). È membro del Comitato di direzione dei “Quaderni costituzionali”, rivista di diritto costituzionale pubblicata in Italia (dal Mulino, Bologna). È stato consulente di diversi comuni, Regioni, partiti (Lucca, Toscana, Friuli, Lombardia, Pri, Rinnovamento italiano, Pd, Psd della RSM). È stato presidente della Società Italiana di Studi Elettorali (SISE) dal 2007 al 2011. È stato deputato al Parlamento italiano per il Partito Repubblicano (1983-1984). È stato consigliere della provincia di Firenze per il Partito Repubblicano (1990-1993). Il professor Carlo Fusaro ha scritto una “Guida ragionata alla Riforma” ed è promotore di un documento per il Sì alla Riforma sottoscritto, tra gli altri, da costituzionalisti e giuristi come Paolo Urbani, Salvatore Vassallo, Michele Salvati, Stefano Ceccanti ed ex-ministri come Tiziano Treu e Franco Bassanini.

a) Ci può descrivere i contenuti principali della riforma costituzionale che è oggetto del quesito referendario? Dal punto di vista della sua disciplina, come valuta l’impianto generale della riforma e le novità che propone?

  • DESCRIZIONE DELLA RIFORMA. La riforma costituzionale del 2016 poggia su due pilastri coerentemente collegati fra loro. Il primo è dato dal superamento del bicameralismo paritario e indifferenziato quale si è affermato — dopo la Costituente — ma ben presto: fondato su due Camere, entrambe espressione del corpo elettorale organizzato politicamente, che esprimono la sovranità popolare e fanno le stesse identiche cose (legislazione, indirizzo politico, informazione, controllo). Il secondo è dato dalla messa a punto del titolo V della Costituzione, riformato nel 2001 con modalità che — secondo opinioni largamente diffuse — hanno dato esito in parte insoddisfacente. Ciò vale in particolare per il riparto della competenza a legiferare, rispettivamente dello Stato e delle Regioni. Questa messa a punto viene tentata attraverso una via fortemente innovativa che trae spunto dall’esperienza concreta dell’elevata conflittualità Stato–Regioni. In particolare, si abolisce la competenza concorrente (in base alla quale lo Stato detta i principi fondamentali, la Regione vara la legislazione di dettaglio) e lo si fa ripartendo le materie prima assegnate ad essa (competenza concorrente) in gran parte allo Stato, in parte alle Regioni. Nel complesso non vi è alcun dubbio che si realizza un deciso spostamento di competenza legislativa verso il Parlamento. Questo spostamento è coronato, a scanso di conflittualità ulteriore, dalla previsione (art. 117.4 Cost. 2016) secondo la quale anche nelle materie regionali (che sono esemplificate nel comma 3, ma che sono tutte quelle residuali, cioè non attribuite in esclusiva allo Stato, comma 2), la legge del Parlamento, ove l’unità giuridica dell’ordinamento e l’interesse nazionale lo consiglino, può comunque intervenire.

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Nel mentre che si fa questa operazione di risistemazione della competenza legislativa Stato–Regioni, si dà seguito a impegni assunti in passato infinite volte (in ultimo dallo stesso art. 11 della riforma costituzionale del 2001) di dar voce agli interessi degli enti sub–statali (Regioni, Comuni) all’interno del Parlamento: questa infatti è la vocazione del nuovo Senato, che viene ora definito, camera di rappresentanza degli interessi delle istituzioni territoriali.

Questa scelta chiama le altre, con appropriata coordinazione: volendo fare del Senato la Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali (e non dei cittadini organizzati politicamente), si è stabilito l’elezione di secondo grado, da parte dei consigli regionali, dei senatori che restano anche consiglieri regionali e sindaci (per assicurare l’osmosi istituzionale centro–periferia). Ma proprio per questo (elezione di secondo grado), oltre che per la sua vocazione sopra indicata, la seconda Camera non rappresenta più il popolo sovrano e dunque: (A) perde il rapporto fiduciario col Governo (in cambio diventa un organo permanente non soggetto a scioglimento); (B) ha competenza legislativa limitata paritariamente ad alcune tipologie di leggi, mentre per la stragrande parte della legislazione è la Camera a varare la legge e il Senato mantiene solo un più o meno incisivo potere di proposta modificativa. Ciò assicura, ovviamente, una legislazione non soggetta a navette (su e giù fra le due Camere): dopo al massimo 40 giorni la legge votata dalla Camera può da questa essere confermata definitivamente.

  • VALUTAZIONE DELLA RIFORMA. Da costituzionalista comparatista vedo molto positivamente le novità introdotte dalla legge di revisione. Questa contiene punti che avrebbero potuto essere formulati con maggiore chiarezza o miglior qualità normativa: ma i processi legislativi parlamentari, in Italia come altrove, sono quelli che sono, e per di più alcuni compromessi si sono imposti. Per esempio in materia di elezione di secondo grado del Senato l’aggiunta di una mezza frase che fa riferimento al voto popolare in occasione delle elezioni regionali è solo fonte di discussioni e potenziale confusione. I difetti tecnici della riforma, però, sono a mio avviso limitati e marginali rispetto ai suoi notevoli meriti: non ultimo quello di por fine all’anomalia di due camere con gli stessi poteri ma eletti da corpi elettorali diversi (per il Senato non si vota a suffragio universale: gli elettori sono quasi quattro milioni meno di quelli della Camera). Si può aggiungere che la velocizzazione potenziale del processo legislativo va salutata con estremo favore. Da un lato essa riguarderà la gran parte delle leggi (ma non quelle indicate dall’art. 70 a partire dalle leggi costituzionali), dall’altro non può destare preoccupazione neanche in connessione con leggi elettorali maggioritarie. Infatti resta in vigore il regolamento della Camera, il quale, in materie eticamente sensibili e più in generale in relazione alle leggi di attuazione degli artt. da 13 a 22 da 24 a 27 Cost., nonché sui diritti della famiglia di cui agli artt. 29-31, nonché parte dell’art. 32, prevede che possa essere richiesto e debba essere assicurato il voto a scrutinio segreto (garanzia più che sufficiente contro limitazioni alla libera determinazione del singolo deputato).

b) Esistono delle motivazioni o delle circostanze politiche — ad esempio il fatto che la riforma sia alla fine sostenuta da una sola parte del Parlamento, la previsione di una nuova legge elettorale, etc. — che possono spingere ad una valutazione diversa da quella che lei dà dal punto di vista tecnico–scientifico?

Se me lo si chiede dal punto di vista strettamente tecnico–scientifico, la risposta non può che essere un “no” risoluto: la riforma è stata votata da circa il 57–58% dei parlamentari nel pieno rispetto dell’art. 138; la riforma è stata a lungo approvata da una parte importante dell’opposizione che poi dopo averla votata (insieme alla legge elettorale) ha cambiato posizione per ragioni esclusivamente dettate da opportunità partitica (questione delle modalità di scelta del presidente Mattarella); la legislatura era vocata alle riforme come unica ragione di sopravvivenza e non si potevano accettare veti; la legge elettorale è coerente e valida, ma anche a pensarne le cose peggiori essa è una legge ordinaria, NON è sottoposta a referendum e può essere cambiata a maggioranza semplice in qualunque momento. La riforma migliora le nostre istituzioni politiche con qualsiasi legge elettorale, incluso il sorteggio.

c) Secondo lei il voto referendario presenta anche un legame con la tenuta complessiva del sistema del nostro Paese e con lo scenario internazionale?

Non vedo come si possa dubitarne. Non vorremmo fare come gli inglesi che prima votano Brexit e poi non sanno come cavarsi dai guai dopo: avendo ignorato tutti gli avvertimenti che pure erano stati lanciati. La capacità del Paese di difendere i propri interessi e concorrere a un necessario rilancio dell’Europa nel rispetto dei valori che ci stanno a cuore (diritti umani e sociali) è strettamente legata a questa riforma.

LE RAGIONI DEL NO


Professor Valerio Onida. Nato a Milano nel 1936 ha conseguito la docenza in diritto costituzionale nel 1965. Ha insegnato, prima come professore incaricato, poi come titolare di cattedra, diritto pubblico, diritto parlamentare, diritto regionale, diritto costituzionale, giustizia costituzionale nelle Università di Padova, Sassari, Pavia, Bologna e Milano, dal 1966 al 1996 e dal 2005 al 2009. Attualmente è professore emerito della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università statale di Milano. Il 24 gennaio 1996 è stato eletto dal Parlamento Giudice della Corte Costituzionale, di cui poi è stato eletto Presidente il 22 settembre 2004. È stato Presidente dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti. È Presidente dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. È Presidente della Scuola Superiore della Magistratura. È Presidente della Fondazione per le scienze religiose “Giovanni XXIII” di Bologna ed ha ricevuto il titolo di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. Il 30 marzo 2013 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha nominato nel “Gruppo dei Dieci saggi” per la proposta di nuove leggi nel campo economico–sociale. È commentatore di questioni istituzionali per il Sole 24 ore e collabora con il Corriere della Sera e con La Repubblica. Il professor Valerio Onida è promotore di un documento per il No alla Riforma sottoscritto da costituzionalisti e giuristi come Francesco Paolo Casavola ed Enzo Cheli, come gli ex Presidenti della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, Antonio Baldassarre, Franco Gallo, Ugo De Siervo ed ex ministri come Gianmaria Flick.

a) Ci può descrivere i contenuti principali della riforma costituzionale che è oggetto del quesito referendario? Dal punto di vista della sua disciplina, come valuta l’impianto generale della riforma e le novità che propone?

  • UN “PACCHETTO” DI RIFORME DIVERSE. Per la seconda volta in dieci anni — dopo la legge costituzionale approvata nel 2005 dalla maggioranza di centro–destra e poi respinta nel referendum del 2006 — viene sottoposta al voto popolare non una singola proposta di emendamento ad una norma o a un gruppo di norme strettamente connesse della Costituzione (come ne sono state approvate, dal 1963 ad oggi, ben sedici), ma un “pacchetto” di riforme variegate (ciò che è reso evidente già dal lungo titolo della legge, scritto sulla scheda). Tanto che si è fatto giustamente osservare che il voto richiesto agli elettori, essendo unico (la legge sul referendum non prevede oggi la scomposizione del quesito in più parti), avrà un oggetto non omogeneo, in tal modo comprimendo la libertà di voto dell’elettore, che potrebbe approvare una modifica e non un’altra fra le molte proposte. E già questo dato potrebbe indurre a dire “no”, per indicare ai partiti un metodo più corretto per modificare la Costituzione.
  • DESCRIZIONE E VALUTAZIONE DELLA RIFORMA. Nel merito, le due scelte principali della riforma riguardano da un lato l’impianto bicamerale del Parlamento, dall’altro i rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali.
  1. Sul bicameralismo del Parlamento. Sul primo punto la riforma muove, a mio giudizio, da una scelta giusta, ma poi la attua male. La scelta è quella di trasformare il Senato (oggi Camera “politica” nazionale a tutti gli effetti, composta in modo simile e parificata a quella dei deputati) in una assemblea rappresentativa delle istituzioni territoriali e in particolare delle Regioni. Scelta attuata male, però, perché il nuovo Senato sarebbe un’assemblea composta da 74 senatori eletti dai singoli consigli regionali, in modo proporzionale fra i loro componenti, da 21 sindaci eletti (uno per Regione) anch’essi dai consigli regionali (che quindi non rappresenterebbero i Comuni), e da 5 senatori nominati per sette anni, e non rinnovabili, dal Presidente della Repubblica fra cittadini benemeriti (e destinati a sostituire solo in futuro gli attuali senatori a vita di nomina presidenziale). Il nuovo Senato non voterebbe più la fiducia al Governo (e questo è logico), e collaborerebbe alla legislazione, in pochi casi su un piano di parità con la Camera, mentre per il resto potendo solo, entro un breve termine, proporre modifiche ai testi approvati dalla Camera, che su di esse delibererebbe definitivamente. Il punto più dolente è che i senatori così eletti dai consigli regionali non porterebbero in Senato la “voce” unitaria delle rispettive Regioni, ma le rispettive posizioni di partito; e avrebbero poteri estremamente ridotti anche sulla legislazione nazionale, che pure riguarda più da vicino, disciplinandole e vincolandole, le autonomie territoriali. In più, lo squilibrio numerico tra le due Camere (i deputati resterebbero 630) aumenterebbe il peso della Camera dei deputati nel Parlamento in seduta comune, chiamato a funzioni delicate come l’elezione del Presidente della Repubblica e di una parte dei membri dell’organo di governo della Magistratura. E a questo proposito va considerata anche la nuova legge elettorale per la Camera (il cosiddetto “Italicum”) — di per sé estranea alla Costituzione — che configura un forte “premio di maggioranza” a favore della sola lista che ottenga il 40% dei voti o vinca il “ballottaggio” fra le sole due liste più votate al primo turno: con ciò aprendo la strada ad un eccessivo potere del partito vincitore (anche se scelto al primo turno solo da una minoranza degli elettori) in tutte le funzioni parlamentari, anche le più solenni e delicate.

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2. Sui rapporti fra Stato e Regioni. Su questo punto la riforma fa una scelta radicalmente opposta a quella compiuta nel 2001. Allora si parlò (esagerando) di un regionalismo ai limiti del federalismo, e in alcuni campi si aprirono eccessivi spazi alla legge regionale anche in settori (come le grandi reti di trasporto o di distribuzione dell’energia) di per sé necessariamente di livello nazionale. Oggi, al contrario, invece di limitarsi a correggere alcuni errori allora compiuti (e da tutti riconosciuti), si riducono drasticamente le competenze legislative delle Regioni. Anche nelle materie più tipiche delle autonomie (come il governo del territorio, la sanità, l’assistenza sociale) si eliminano le competenze delle Regioni — esercitabili, oggi, nell’ambito dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato — e a quest’ultimo si attribuisce la competenza esclusiva a dettare “disposizioni generali e comuni” (non solo principi, dunque): dopo di che lo spazio per la legislazione regionale sarà solo quello che lo Stato, discrezionalmente, vorrà ad essa lasciare. Si aggiunga che, paradossalmente, mentre da tempo si affermava l’esigenza di ricondurre a maggiore armonia le autonomie delle Regioni a statuto ordinario (anche differenziandole fra loro) e di quelle a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino–Alto Adige e Friuli–Venezia Giulia), pur rispettando le ragioni della specialità, questa riforma invece riduce drasticamente le competenze delle Regioni ordinarie, ma esclude dichiaratamente di applicarsi alle Regioni speciali fino alla futura revisione, d’intesa con le stesse, dei rispettivi statuti: così che la disarmonia aumenterebbe. Ancora, invece di favorire un processo di revisione territoriale delle Province (cresciute troppo di numero negli ultimi anni), la riforma le cancella del tutto dalla Costituzione, lasciando per il futuro solo le “Città metropolitane” (magari anche dove le rispettive aree hanno poco di “metropolitano”) e per il resto l’ipotesi di nuovi non definiti “enti di area vasta”: come se nelle grandi Regioni la cura di territori ampi, comprensivi di centinaia di Comuni, non esigesse enti di governo democratici intermedi fra Comune e Regione.

  • ALTRE MODIFICHE. Ci sono poi una serie di modifiche “minori” — alcune di per sé apprezzabili, altre molto meno — sui rapporti fra Governo e Camera nel procedimento legislativo, sui decreti legge, sulle modalità di elezione del Presidente della Repubblica e di una parte dei giudici costituzionali, sul potere presidenziale di rinvio delle leggi al Parlamento, sul controllo di costituzionalità delle leggi elettorali, sul referendum, sulla iniziativa legislativa popolare, sull’abolizione del Cnel: come si è detto, si tratta di un “pacchetto” variegato di riforme.

b) Esistono delle motivazioni o delle circostanze politiche — ad esempio il fatto che la riforma sia alla fine sostenuta da una sola parte del Parlamento, la previsione di una nuova legge elettorale, etc. — che possono spingere ad una valutazione diversa da quella che lei dà dal punto di vista tecnico–scientifico?

  • VALUTAZIONI POLITICHE. Una riforma come questa avrebbe dovuto comunque risultare da un processo di convergenza fra le forze politiche, per salvaguardare e mantenere al massimo grado il senso della Costituzione come terreno comune e non luogo di affermazione di una maggioranza di governo. Invece, benché all’inizio della legislatura fosse stato proprio questo il senso delle prime iniziative del Presidente della Repubblica e dello stesso Governo Letta, quando la maggioranza di “larghe intese” si è dissolta, la nuova maggioranza — imperniata sul Partito Democratico — ha preteso di andare avanti lo stesso fidando sulla sua sola forza e presentando la riforma come un “suo” prodotto politico. Di qui, un eventuale voto negativo nel referendum non avrebbe l’effetto di sancire una “incapacità riformatrice” del sistema (su altro del resto, non sulla Costituzione, è infatti richiesto al nostro Paese uno sforzo di innovazione), ma solo quello di ricondurre il tema costituzionale sul terreno più corretto di scelte di merito che siano condivise e meditate.
  • LA QUESTIONE DEI COSTI. Quanto al “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, promesso dal titolo della legge, occorre dire che la Costituzione non si cambia “per risparmiare”, ma semmai solo per migliorare il modo di funzionamento delle istituzioni. Anche effettuare delle elezioni di organi democratici, o tenere un referendum, ha dei costi (modesti): ma non per questo possiamo pensare di “risparmiare” su di essi (se non nel senso, come sempre, di contenere la relativa spesa nello strettamente necessario). Egualmente, il numero dei componenti di un’assemblea parlamentare va scelto in base a una giusta proporzione con la popolazione, per ottenere una rappresentanza effettiva di questa, non in base ad un astratto criterio di “costi”. Dove invece è il caso di contenere costi che appaiono sproporzionati allo scopo (per esempio riportando le indennità parlamentari alla loro vera funzione, che è solo quella di consentire a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche, di svolgere funzioni pubbliche), lo si può e lo si deve fare intervenendo non sulla Costituzione (che appunto si limita a fissare quel principio), ma sulle leggi ordinarie che disciplinano la materia.

c) Secondo lei il voto referendario presenta anche un legame con la tenuta complessiva del sistema del nostro Paese e con lo scenario internazionale?

La credibilità anche internazionale dell’Italia non si misura dal fatto che cambi la Costituzione (che, anzi, è di per sé chiamata a fissare ciò che è destinato a durare, e non ciò che muta con le contingenze dei tempi), ma dal fatto che il Paese e il suo sistema politico si rivelino capaci di affrontare, in spirito di eguaglianza e di solidarietà — e col concorso di tutti secondo le proprie forze e i propri compiti — i problemi vecchi e nuovi posti dall’assetto della società e dalle vicende dell’economia nazionale e mondiale.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 3, Settembre 2016