(di Gabriele Tomasoni)

 

A distanza di tempo dalla vicenda che ha riguardato il piccolo Alfie Evans — con il coinvolgimento dei suoi genitori, dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool e del sistema legislativo e giudiziale inglese — si può dare spazio ad un commento, il più possibile pacato ed oggettivo, su alcuni aspetti implicati. A proporlo per Dialoghi — con una particolare attenzione alla dimensione medica — è il Dott. Gabriele Tomasoni, che è Direttore del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione presso gli Spedali Civili di Brescia.

 

 

Trascorso ormai piu di un mese dalla morte del piccolo Alfie Evans, mi sembra opportuno tentare di svolgere alcune considerazioni, che siano esito dell’analisi di alcuni fatti accaduti nel corso della degenza del bambino presso l’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool. La professione di medico rianimatore che personalmente svolgo, infatti, mi impone di essere pragmatico ed oggettivo nell’analisi di ciò che è accaduto nel corso di questa vicenda; e in questo senso, partendo dalla concretezza dei fatti, più che da altri commenti, vorrei provare ad esprimere un giudizio e una valutazione su ciò che è stato realmente in gioco e sulle scelte operate dai diversi protagonisti.

 

L’ipotesi di una tracheostomia

Una prima considerazione riguarda la scelta di non aver voluto praticare la tracheostomia al bambino nel corso della degenza in Ospedale. Da un lato, il rifiuto da parte dei medici di non sottoporre il piccolo paziente a tale intervento negli ultimi giorni di ricovero poteva forse trovare una giustificazione nel rischio di una sua sproporzionalità, o nel rischio insito nella stessa procedura chirurgica, alla luce della gravità di Alfie. Dall’altro, il fatto di non averla attuata nei mesi precedenti, a mio parere, non trova una reale giustificazione.

Tale procedura, infatti, in ambito rianimatorio serve per facilitare la gestione delle vie respiratorie, per prevenire le polmoniti, per evitare traumi tracheali dovuti all’intubazione prolungata. Le nostre linee guida prevedono che, se un paziente deve rimanere a lungo con il tubo in gola (come nel caso di Alfie) per garantire l’assistenza alla respirazione vada praticata una tracheostomia.

Questi aspetti tecnici, se confermati senza una loro seria giustificazione, mi fanno riflettere sulla volontà da parte dei medici dell’Alder Hey di non mettere in atto tutte le procedure finalizzate ad un proseguimento della vita, e questo fin dall’inizio del ricovero.

Credo che in questo senso, un simile atteggiamento medico sottenda una rassegnazione alla volontà di cura. Più esplicitamente, credo sottenda una volontà eutanasica passiva.

 

I tempi e i modi della sospensione delle cure

Un secondo aspetto contraddittorio riguarda la decisione dell’Alta Corte di Giustizia Inglese (il cui giudizio è stato poi confermato dalla Corte d’Appello di Londra di fronte ai ricorsi), che ha autorizzato questo tipo di sospensione, compresa la respirazione assistita e, da un certo momento in poi, anche l’alimentazione e l’idratazione.

I giudici sono intervenuti a confermare la richiesta dei medici dell’Alder Hey Hospital e, quindi, si sono espressi contro il parere dei genitori che, fino a quel giorno, avevano sperato (non nella guarigione) almeno nel rispetto e nelle cure da proseguire per il proprio figlio.

La sentenza ha legittimato non solo la sospensione delle cure di Alfie ma, di fatto, la sua stessa morte. Inoltre, una sospensione graduale del ventilatore, che tecnicamente si definisce uno “svezzamento”, avrebbe concesso ai genitori almeno  la possibilità di un accompagnamento non traumatico di Alfie verso la stessa morte.

In ogni rianimazione si arriva infatti ad autonomizzare dal respiratore quei pazienti che, per giorni o mesi, hanno richiesto un’assistenza respiratoria. E cioè pazienti in coma o in stato neurovegetativo. Nel caso di Alfie, la brutalità della sospensione dal ventilatore in modo repentino ha inevitabilmente condannato il piccolo ad una rapida morte, se pur parzialmente mitigata dalla mascherina per l’ossigeno che il padre ha fatto arrivare in ospedale autonomamente negli ultimi giorni.

 

No all’accanimento terapeutico, sì alla cura della vita

Un terzo aspetto da valutare riguarda l’inquadramento dello stato di malattia del piccolo Alfie che non sembra giustificare le scelte successive dei medici dell’Alder Hey Hospital.

Tutti gli specialisti hanno concordato sulla progressività della patologia neurodegenerativa. La gravità del quadro elettroencefalografico, la risonanza magnetica, la refrattarietà ad ogni trattamento non lasciavano dubbi sulla prognosi della malattia. Tuttavia, nonostante la gravità del quadro clinico, non era possibile stabilire la temporalita dell’evento della morte.

In questa situazione, se da un lato era giusto non prolungare la sofferenza di questo bambino con cure straordinarie non proporzionate alla sua gravità, dall’altro era doveroso adottare quelle cure palliative che avrebbero accompagnato con dignità il piccolo fino all’ultimo istante della sua vita.

Sostenere l’applicazione rigida dei protocolli adottati dalla Clinica significa affermare che, non solo per Alfie, ma anche per tutti quei piccoli pazienti che si trovano o si troveranno nelle sue stesse condizioni cliniche, i medici dell’Alder Hey potranno applicare il “protocollo”, sospendendo ogni tipo di cura palliativa e finalizzando di fatto i loro intenti alla morte rapida dei pazienti.

Ritengo quindi che — nella sentenza data il 20 febbraio 2018 dal giudice Hayden — sia stata una scelta meschina quella di aver travisato ed usato in modo pretestuoso le parole della Lettera di Papa Francesco alla Pontificia Accademia per la Vita (novembre 2017), per poter dire che «non adottare o sospendere misure sproporzionate può evitare un trattamento eccessivamente scrupoloso». Nella Lettera del Papa, infatti, come anche nel Catechismo, ci si riferisce più in generale ai casi di un possibile accanimento terapeutico, che va evitato, ma non ad un’interruzione delle cure (o dei supporti vitali) che intenzionalmente provoca la morte del paziente. Nel caso di Alfie, certamente non si chiedeva di adottare trattamenti eccezionali ma, quanto meno, che vi fosse ancora la semplice applicazione dei sostegni vitali e delle cure palliative, per alleviare la sofferenza del piccolo ed accompagnarlo verso il termine della vita.

 

La possibilità di scegliere un altro ospedale

Un quarto aspetto che ha fatto discutere l’opinione pubblica riguarda la privazione della libera scelta dei genitori di portare il piccolo in altri centri che si erano resi disponibili all’assistenza del piccolo. Questo aspetto coinvolge un problema sia medico che giuridico. Da un punto di vista giuridico è interessato il principio della libertà di movimento — come diritto fondamentale della persona — e quello della libertà di circolazione interna all’UE.

Da un punto di vista medico, il principio della libertà di scelta delle proprie cure mediche è sancito sia a livello Nazionale che dall’OMS. Nessun medico, nessuna Istituzione possono impedire alla persona la scelta libera per questo o quell’Istituto di cura. Quanti pazienti vengono trasferiti da una città all’altra, o dall’estero in Italia, anche su richiesta del singolo interessato?

Questo vale come principio medico di fondo salvo che l’impedimento non sia giustificato da rischi aggiuntivi per la vita del paziente. Ma qui sorge, secondo logica, la domanda di quale fosse il rischio maggiore che poteva riguardare Alfie, dato che intanto gli stessi medici — e la stessa Corte — stavano comunque confermando la scelta di sospendergli ogni apporto vitale. Ed infatti il criterio etico–giuridico a cui si è fatto riferimento nella sentenza è stato piuttosto quello del “best interest” di Alfie (cioè del suo “miglior interesse”) che — essendo la sua vita giudicata come “futile” (“his life is futile”) — coincideva ormai con il fatto di morire.

Come precisato all’inizio, tutta la vicenda Alfie manifesta dunque una serie di contraddizioni mediche, giuridiche, umane ed etiche che sottendono una concezione pragmatica e utilitaristica della persona. Da un lato, va ribadito che la vita dell’individuo non deve essere considerata come un bene eterno ed assoluto, perché abbiamo un tempo che va dalla nascita alla morte. Ma dall’altro, la vita deve essere rispettata e salvaguardata, non solo per le capacità espressive o produttive che può esprimere, ma anche per quel mistero imprescindibile che è insito nell’individualità di ciascun essere umano.

 

Conclusione

Alfie non sarebbe probabilmente vissuto molto piu a lungo. I medici avevano quindi il dovere di non creare false illusioni ai genitori; ma, nello stesso tempo, avrebbero dovuto accompagnare il piccolo paziente, nel rispetto di una vita destinata inevitabilmente ad interrompersi, ma che non poteva e non doveva trovare la complicità di medici e di giudici per un’anticipazione intenzionale di tale esito. E forse una modalità di cura più rispettosa dei bisogni e della oggettiva condizione del piccolo Alfie ci avrebbe resi tutti più vicini a quel Mistero che oggi il piccolo paziente puo contemplare.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 2, Giugno 2018