IL DISASTRO DI UN PAESE CHE AVEVA UN SOGNO
(di M. Gelmini)
Non è facile comprendere e spiegare cosa stia accadendo in Venezuela. Il Paese è da mesi investito da una profonda e intricata crisi istituzionale e politica, strettamente legata alla pesantissima recessione che ha ridotto al collasso l’economia dello Stato latinoamericano. Mentre si infiamma lo scontro istituzionale tra governo e partiti della coalizione “antichavista”, crescono le contestazioni e la popolazione si organizza e invade le strade, dove le milizie governative si fanno prendere la mano e reprimono le proteste provocando violenza e morte.
Vivere in Venezuela è diventato un incubo. La stragrande maggioranza della popolazione si trova in condizioni di miseria, privata del minimo sostentamento e senza medicine. Quotidianamente si registrano casi di abusi e violazioni di diritti umani. L’emergenza umanitaria ha raggiunto livelli drammatici ma, nonostante le prese di posizione della comunità internazionale, all’orizzonte non si intravedono vie d’uscita praticabili o risolutive.

Un Paese che affonda con la propria ricchezza
Il Venezuela è lacerato da una crisi profonda le cui ragioni storiche sono primariamente di natura economica, e inevitabilmente anche di ordine politico e istituzionale. Pur detenendo una ricchezza petrolifera consistente e nonostante la collocazione geografica particolarmente privilegiata, il sistema economico e politico del Paese risente del modello di sviluppo di tipo “extractivista”, che si basa sulla sola estrazione delle risorse del sottosuolo, ricavando dalla rendita petrolifera tutti i beni e i servizi necessari per la sua sussistenza, con la conseguenza che allo Stato viene conferito il ruolo di arbitro unico della società. Questo modello, impostosi a partire dagli anni Venti del secolo scorso, ha caratterizzato la storia del Paese senza che neanche la “rivoluzione” bolivariana sia stata in grado di superarlo. La vulnerabilità economica e sociale che ne deriva, con il succedersi di governi la cui popolarità segue le fluttuazioni delle rendite — vitali per il sostentamento — può avere conseguenze devastanti in fasi come quella attuale in cui la produzione di greggio venezuelano risente del calo del prezzo del petrolio a livello internazionale e sconta gli effetti di debolezze strutturali.
Meriti ed errori di Chávez
Sulla storia recente del Venezuela esiste una doppia narrazione che non ha aiutato a comprendere cosa sia realmente avvenuto e quali possano essere ora le vie d’uscita da una crisi ormai insostenibile. Da un lato c’è la posizione un po’ romantica di chi ha voluto vedere nella particolare “rivoluzione” socialista bolivariana di Hugo Chávez la realizzazione esemplare di come le cose potrebbero essere in un mondo ordinato in modo migliore: un governo democratico inclusivo e attento alle esigenze delle basi sociali, con la partecipazione di lavoratori, contadini, sindacati, popolazioni indigene e intellettuali illuminati, sotto la guida di un leader benigno e carismatico. Dall’altro si è spesso sbrigativamente liquidato il “Chavismo” come un’esperienza fallimentare di stampo populista, un inganno ai danni proprio di quegli “ultimi” che avrebbe voluto sollevare, un’utopia bacata destinata a tradire coloro che in essa avevano convintamente riposto le proprie attese. La verità è che entrambi questi punti di vista sono parziali e semplicistici, mentre la realtà è più articolata e complessa. Chávez ha avuto effettivamente il grande merito di aver portato un messaggio di speranza a quei milioni di persone che prima del 1999 non avevano alcun accesso alle ricchezze (dicevamo considerevoli) del Paese e nessuna possibilità di far sentire la propria voce. Sbagliò tuttavia nell’istituzionalizzare la ridistribuzione della ricchezza e del potere. E se è indubbio che commise gravi errori — nel perseverare con testardaggine su una strategia economica perdente e nel cedere progressivamente verso misure autoritarie per conservare il controllo — si deve anche riconoscere che questi errori furono in parte anche una reazione alla pesante opposizione e al forte ostruzionismo dei grandi esponenti dell’industria petrolifera, degli ambienti economici della borghesia e del sistema giudiziario, i quali non accettarono mai la legittimità politica del Presidente — pur confermata in vittorie elettorali ripetute —, forti anche del sostegno degli Stati Uniti che arrivarono ad approvare il fallito colpo di stato militare del 2002.
Continua a leggere
Il fallimento del governo Maduro
Nicolás Maduro, forte sostenitore di Chávez e da lui designato come successore prima della sua morte nel 2013, non ha l’autorevolezza e il fascino del suo mentore, dal quale ha ereditato un Paese indebolito e vulnerabile. La situazione, divenuta nel frattempo sempre più grave a causa della recessione e dell’andamento del prezzo del petrolio, appare oggi ulteriormente peggiorata da scelte discutibili e pericolose. Mentre si moltiplicano le accuse di corruzione e di cattiva gestione che coinvolgono esponenti del partito di Maduro, i venezuelani dimostrano di non gradire la deriva autoritaria verso cui il Governo sembra voler far precipitare il Paese. Dopo mesi di proteste di strada, con contestazioni maldestramente sedate con il pugno di ferro, facendo ricorso a violenze e soprusi (sono più di 150 le vittime e oltre 20.000 i feriti, e molte centinaia gli arresti arbitrari effettuati), nulla di buono fa sperare la risoluzione di esautorare l’Assemblea Nazionale (il Parlamento venezuelano eletto, in maggioranza espressione dell’opposizione dal 2015) e di indire una fase costituente per la definizione di nuove regole che attribuiscano al Presidente più poteri. Nel vano tentativo di silenziare (con ogni mezzo) le critiche e di ripristinare un consenso popolare forse mai del tutto avuto, Maduro prosegue la linea dura sferrando quello che appare come un attacco sistematico e intempestivo al Parlamento (controllato dalla Mesa de la Unidad Democrática, la coalizione “antichavista” che gli è ostile) e agli altri organismi che garantiscono la protezione democratica. In questo modo non sembra curarsi del fatto che le vere cause della protesta e degli sconvolgimenti sono di ordine economico e umanitario.
Ecco alcuni dati: il PIL del Paese si è contratto di oltre il 20% negli ultimi tre anni; l’inflazione è oltre il 1000%; è tornato a crescere il tasso di disoccupazione (attorno al 7%); oltre l’82% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre ogni giorno si affrontano gravissime carenze di cibo e medicinali.
Per molte persone è estremamente difficile avere una nutrizione adeguata. Secondo un’indagine condotta nel 2015 da gruppi della società civile insieme a due università venezuelane, l’87% degli intervistati a livello nazionale ha dichiarato di avere difficoltà nell’acquisto di cibo. Tra questi, il 12% consuma due pasti o meno al giorno.
L’assistenza sanitaria essenziale non è garantita. Nell’ultimo anno sarebbero 11.466 i neonati morti alla nascita per malattie curabili e 756 le mamme decedute durante il parto per mancanza di cure e accorgimenti adeguati. I dati evidenziano una netta controtendenza rispetto al resto del mondo: la mortalità infantile registrata nei primi cinque mesi del 2016 è stata di 18,61 casi su 1.000 (il 45% in più del 2013); nello stesso periodo il tasso di mortalità materna è stato di 130,70 morti ogni 100.000 nascite (il 79% in più rispetto ai dati del 2009).
Il dramma degli abusi e dei diritti violati
A questo scenario disastroso si aggiungono le misure repressive di impronta dittatoriale che sono state progressivamente messe in atto per contenere il dissenso. Le organizzazioni umanitarie segnalano da tempo l’aggravarsi, a cominciare dal 2014, delle condizioni di vita della popolazione e denunciano gli abusi perpetrati dalle forze di sicurezza ai danni di chi protesta, soprattutto se appartenente alla fascia meno abbiente o se immigrato. Molti attivisti e avversari politici (tra cui il leader dell’opposizione Leopoldo López), arrestati arbitrariamente per il loro coinvolgimento in dimostrazioni anti−governative, anche se pacifiche, si trovano tuttora in carcere o agli arresti domiciliari in attesa di giudizio, spesso in assenza di un’imputazione precisa. Parecchi lamentano di avere subito maltrattamenti e torture. Medici e infermieri che operano in strutture pubbliche hanno subito minacce per aver parlato delle ferite riscontrate sui pazienti.
Un corpo speciale denominato OLP (Operación de Liberación del Pueblo), istituito per esigenze di sicurezza nazionale nel luglio 2015 dal Presidente Maduro e composto da circa 80 mila uomini, è accusato di aver ucciso più di 250 persone nel corso di raid condotti da miliziani organizzati come veri e propri “squadroni della morte”.
Senza via d’uscita
Infranto e ormai lontano il sogno che aveva portato Chávez al potere, il Paese rischia di sprofondare in un gorgo spaventoso, nel quale vediamo vacillare le ultime garanzie democratiche e delinearsi lo spettro di una dittatura. Al punto attuale è difficile prevedere una via d’uscita che possa evitare il collasso. Non sembra che vi siano ad oggi i presupposti per una transizione negoziata, con Maduro che si fa da parte rimanendo temporaneamente al potere ma con diverse concessioni alle opposizioni (ipotesi questa già vagliata in precedenza, quando lo scontro politico era meno acceso di oggi).
La comunità internazionale ha reagito in modo concorde contro Maduro chiedendo che si faccia pressione contro il suo Governo per il superamento della crisi, evitando la degenerazione in una guerra civile, ma nell’immediato non ci sono idee chiare e concrete su come procedere. La soluzione di un embargo petrolifero non appare praticabile per gli effetti ancora più devastanti che potrebbe avere sulla popolazione venezuelana: se si pensa che la vendita di petrolio costituisce il 95% delle esportazioni del Venezuela (un terzo delle quali dirette verso gli Stati Uniti) e che anche la dipendenza dalle importazioni americane è oggi molto alta, un embargo priverebbe il Paese dell’unica fonte di reddito e provocherebbe una catastrofe. Un’opzione percorribile pare quella di intervenire con sanzioni individuali contro Maduro e i suoi alleati, ma si tratta molto probabilmente di misure non abbastanza efficaci e risolutive.
Come ha auspicato Papa Francesco, bisognerebbe che, accanto al superamento delle divergenze sul controllo del potere, si avviasse un processo di radicale cambiamento, che la Chiesa cattolica si è impegnata ad accompagnare. Questo processo dovrebbe favorire la nascita di un nuovo patto sociale su cui porre le basi per un nuovo modello di sviluppo (non limitato alla sola economia estrattiva), in grado di promuovere la crescita delle persone e l’iniziativa dei cittadini, in un tessuto sociale più forte e realmente democratico.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 3, sETTEMBRE 2017