Confidenze di un chirurgo pediatra

(Daniele Alberti)

 

Un anno fa come oggi, era quasi notte, era domenica.
Prendevo una boccata d’aria sullo scalone dell’ospedale, travolta dalla disperazione.
Vidi un uomo arrivare, dal passo lungo e svelto, indossava un loden verdone.
Non sapevo ancora che sarebbe stato lui ad operare la mia bambina, e a salvarle la vita.
Quell’uomo era Lei, Professore.
Non potremo mai sdebitarci per ciò che le sue mani sono state in grado di fare quella notte.
E quelle dei colleghi che hanno lavorato con Lei.
Ma non lo dimenticherò mai, perché salvando la vita della mia bambina, ha salvato inconsapevolmente anche la mia.

Con immensa stima e riconoscenza, 

Le auguro ogni bene.

 

 

È notte. Sul lungo scalone di pietra bianca che accompagna all’ingresso dell’ospedale, una donna, sola, cerca di costringere i polmoni a dilatarsi in un respiro forzato dell’aria notturna. Sua figlia è poco più in là, al piano di sopra, perchè deve affrontare un intervento chirurgico difficile. E lei, la mamma, deve opporsi ad una forza sconosciuta che la risucchia dal di dentro e le fa male, le toglie il respiro. Perché il dolore ha una decisa somiglianza fisica con la paura e affatica tutto il corpo e tutta l’anima, attanaglia il pensiero e l’umore, è difficilissimo da contrastare e neppure mani amiche possono alleviarlo. Rende terribilmente soli e ci fa sentire senza vie d’uscita.

Sono un chirurgo pediatra e di storie di dolore come questa ne ho viste molte. Il mio compito fondamentale, la prima domanda che mi è rivolta, è che io eserciti il meglio possibile la professione medica, con tutte le conoscenze, le competenze e la dedizione che essa implica: questo mi chiedono prima di tutto i bambini malati ed i loro genitori. Ma insieme mi vien chiesto di cercare, insieme a loro, un senso alla malattia che interferisce così pesantemente nella vita dell’intera famiglia. Perché, lo sanno tutti, quando un bambino si ammala tutta la famiglia si ammala.

Io non ho teorie sul dolore, ho invece una ben assortita esperienza del dolore degli altri e del mio, dei bambini affidati alle mie cure, che lo vivono in prima persona nell’ospedale, e dei loro genitori, che lo vivono di riflesso, ma in modo certamente più drammatico.

Nell’ambito dei legami familiari, la malattia delle persone cui vogliamo bene è sempre patita con un “di più” di sofferenza e di angoscia. È l’amore che fa avvertire quel “di più”. Questo vale certamente per il padre e la madre, per loro è più difficile sopportare il male di un figlio o di una figlia, che non il proprio. Ma anche i fratelli, più grandi o più piccoli del paziente non importa, subiscono uno stress emotivo che talvolta i genitori non riescono a vedere, o perché assorbiti dall’attenzione al malato, o perché i fratelli stessi non vogliono che i genitori stiano ancor più male e perciò cercano di proteggerli non manifestando le loro angosce.

Non posso dire che cosa sia il dolore, ma posso solo cercare di ragionare a voce alta sulla realtà in cui sono coinvolto quotidianamente e provare a dare voce ai protagonisti della malattia, siano essi i piccoli pazienti, i fratelli o i genitori.

L’esperienza mette in luce una prima evidenza: i cammini che la malattia suscita e gli esiti cui conduce sono sempre imprevedibili, ma una cosa è certa in ogni tipo di esperienza: dolore e sofferenza sono sempre uno scandalo. «C’è — scriveva Gabriel Marcel — una voce venuta dal profondo di noi stessi, una voce che non si lascia ridurre al silenzio e che ci grida che la sofferenza non dovrebbe essere»La sofferenza ed il dolore ripugnano al nostro essere e tanto il malato quanto chi lo assiste sentono dal profondo di sé che non dovrebbe essere. Molto spesso, infatti, la reazione si configura come rabbia o negazione: tutte strategie per lo più inconsce che hanno come esito una fuga dal dolore, una resa passiva che si arresta allo scandalo e che rimane sempre una reazione infeconda e pericolosa per la vita stessa. Il malato, anche se lattante o bambino, può arrivare a lasciarsi portare via dal dolore, a rinunciare a combattere, senza opporre più alcuna resistenza. Non dimenticherò mai una bambina di quattro anni, stesa nel suo lettino in terapia intensiva, dopo il secondo trapianto di fegato. Non si ribellava più alle pratiche terapeutiche che invece normalmente scatenano il pianto, rimaneva ferma in un’innaturale docilità, la stessa nella quale viveva quotidianamente da giorni e giorni, senza più lacrime né sorrisi. Questa apatia ben nota agli psicologi dell’infanzia, si presenta spesso nei bambini quando rimangono ospedalizzati per molto tempo e passano attraverso momenti critici che li espongono al pericolo di morte.                                                                                    

Di fronte a questi casi mi diventa ancor più chiaro che il mio compito non è solo quello di curare la malattia e portar via il dolore al paziente‒bambino, ma quello di aiutare lui e la sua famiglia ad assumerselo, ad affrontarlo il più possibile consapevolmente, a dargli un senso e quindi a reagire. Un collega oncologo pediatra ha fatto lo stesso con me, quando, di fronte al tentativo mio e di mia moglie di mascherare con qualche pietosa bugia la diagnosi di cancro a mio figlio di 14 anni, ci ha rimproverati amorevolmente, costringendoci a stare in piedi noi due, lui e le sorelle di fronte alla realtà così come si presentava. Se si permette al paziente, anche giovane o addirittura piccolo, di soccombere di fronte alla paura e alla ripugnanza del dolore, non lo si avrà mai come collaboratore nella pratica terapeutica, non si potrà mai esigere la sua approvazione alle pratiche di cura, facili o difficili che siano. Attenzione: non sto dicendo che il medico debba trasformarsi in psicologo clinico, o in uno zio bonaccione che dispensa manate sulle spalle, o in un “naso rosso” che deve far ridere il piccolino. Il mio compito è favorire la guarigione di quel meraviglioso piccolo corpo che non può più assolvere ad alcune sue funzioni. Quel piccolo corpo che è un tutt’uno con la sua anima e con l’ambiente affettivo che lo ha generato. 

Ma torniamo al dolore. Il dolore è uno strappo che anche il bambino malato avverte come un attentato all’io. Esso provoca, come nell’adulto, una presa di coscienza di sé straordinariamente viva. Lo abbiamo sperimentato tutti. Se in situazione di salute noi viviamo normalmente il nostro corpo senza nemmeno accorgercene, nella malattia il dolore ci avverte violentemente della presenza del corpo e del suo indissolubile legame con la nostra interiorità: ravviva la coscienza della vita in noi e della sua precarietà, suona campanelli di allarme fondamentali per consentire la vita. Il dolore quindi, di per sé, non è negativo. Senza di esso non verremmo avvertiti che stiamo correndo un pericolo, che dobbiamo correre ai ripari. Il problema è imparare a “portare” il dolore, a sopportarlo, cioè imparare la “sofferenza”.

Ma come può un bambino passare dal provare/subire un dolore al sopportarlo, portarlo, come può trasformarlo in una sofferenza?                                                                                 

C’è una condizione necessaria: che siano gli adulti che si prendono cura di lui a documentargli la possibilità di accettare quel dolore. Rimane dolore e continuerà a far male. Ma portato con papà e mamma, con il medico e le infermiere, con le maestre e le psicologhe diventerà, appunto, sopportabile. Sembra lapalissiano, no? Ma quante volte i genitori, sopraffatti dall’angoscia, incapaci di accettare loro per primi la malattia del figlio, non sanno reagire e farsi carico delle sue paure. Quante volte davanti alla progressione inarrestabile della malattia che, come nei bambini in attesa di trapianto o colpiti dal cancro, devasta il loro corpicino, i genitori istintivamente sono come paralizzati, sconfitti, incapaci di avere e dare speranza… Non si tratta mai di “fare finta” che tutto vada bene, di non avere paura per il proprio figlio e nemmeno di sminuire falsamente l’entità del pericolo e del dolore. Si tratta di lavorare su di sé e accettare la sfida dello scandalo. Lo stesso vale per tutti gli altri adulti che accompagnano il bambino nella malattia: medici, infermieri, psicologi, zii e nonni… La tentazione del personale ospedaliero che si prende cura del bambino è talvolta quella di usare un po’ di “sano” cinismo come schermo di protezione dalla compromissione affettiva, con la scusa che renderebbe più efficace l’azione di cura. Io invece penso che il medico possa o addirittura debba, con misura, osare di soffrire insieme al suo piccolo malato e contemporaneamente fare da argine, con la sua competenza, alla sofferenza dei genitori.

Ho un ricordo vivo, a questo proposito. Mi trovavo nell’ospedale St Luc di Bruxelles, dove avevo operato nell’équipe di trapianto di fegato su un bambino italiano (lo chiamerò T). Tutto era andato bene e si stava concludendo la degenza in ospedale. Il trapianto era riuscito bene, ma dopo pochi giorni una febbre preoccupante aveva stremato le già debolissime forze di T. e la mamma, da sola, aveva dovuto affrontare, dopo la grande gioia della riuscita dell’intervento, il terrore che tutto potesse precipitare nel vuoto, portandosi dietro T. e le sue sofferenze. Le chiesi come stava. Lei, con una naturalezza che mi disorientava, cominciò a rispondere usando un soggetto plurale: «Ora stiamo meglio, ma i giorni addietro eravamo veramente spaventati e ci sentivamo molto stanchi…». Si fermò perché si era accorta del mio sguardo interrogativo. Interruppe il racconto e, abbassando la testa soggiunse: «Sì, perché quello che soffrono loro lo soffriamo anche noi uguale, ogni minuto. Oggi lui sta bene e allora sto bene anch’io». Era lì a farmi capire l’unico modo per aiutare a vivere il dolore: portarselo addosso e farlo entrare nella nostra pelle senza risparmiarci il male che fa a noi. Per i bambini è naturale lasciare che qualcuno prenda il loro dolore. Sono il più delle volte consapevoli del rischio che corrono, quando la malattia si aggrava. Lo si capisce dai loro sguardi e dalle loro reazioni. Ma non si chiedono rabbiosi “perché?”. Si lasciano abbracciare, anche nel dolore. Forse è proprio questo che rende possibile a chi li ama non solo condividere parte del loro dolore, ma assumerselo consapevolmente. Il prezzo di questo transfert lo conosce solo chi lo vive. Certo, questa è l’azione per eccellenza, questo patire con e patire per rende grandi. 

Me ne andai: «arrivederci e… grazie», col cuore pieno. La mamma e il suo piccolino avrebbero lasciato di lì a pochi giorni l’ospedale e stava succedendo quello che succede a tutti: quell’ospedale da cui hanno tanta voglia di fuggire è stato però un rifugio sicuro. Lì il grande evento del trapianto è accaduto come una seconda nascita, in un travaglio di fortissime emozioni, paure e speranze molto più temibili del primo parto. Ma si sa benissimo che l’avventura anche fuori continua, anzi un’altra ne inizia i cui protagonisti non sono più i medici e gli infermieri, ma i genitori con i loro bambini, in un mondo che non rende certo facile la vita a chi non è sano, a chi è fragile e, proprio per aver visto la morte da vicino, ama ancor di più la vita e sa quanto poco questa sia in suo potere.

Vorrei concludere con una piccola riflessione sul contenuto delle mie esperienze che qui ho accennato. Mi chiedo: “Come può un genitore accettare la malattia e a volte la morte di un figlio, condividendo fino in fondo con lui il suo dolore?”. Nelle storie di alcuni genitori sembra naturale, o quasi. Per altri è molto, troppo difficile, così il rapporto di coppia, in conseguenza a malattie gravi dei figli, si logora fino a spezzarsi. Succede abbastanza spesso che un figlio malato seriamente porti la coppia genitoriale a frantumarsi. E non dipende da fattori economici: ricchi o poveri non conta. E neanche sociologici o psicologici: non c’entra il carattere o il luogo sociale/geografico di provenienza. È sempre più facile oggi, per tutti, franare nella disperazione. Che è sempre lì in agguato. Perché siamo fragili tutti noi, tanto più in una cultura che ci pretende sempre performanti e perfetti. L’imperativo dell’efficienza e dell’azione ci fa sentire dei falliti e degli inutili perdenti quando ci troviamo unicamente costretti al patire. Quello che ci manca sempre più oggi è una “speranza fondata”, un’ultima speranza solida, giustificata da una fede e/o da una ragione buona, che possa sorreggere i genitori, il personale ospedaliero e dunque il bambino malato. Il senso della malattia non è mai già dato. Occorre renderlo possibile dentro una speranza capace di generare, con fatica e pazienza, vie di senso. Neanche i credenti sono risparmiati da questa fatica e soffrono come tutti. Anche il cristiano non ha corsie preferenziali nella malattia, ma piuttosto una strada che attraversa il dolore (E. Bianchi). È una strada nella grande compagnia di Dio, ma non è garantita a priori e non può risparmiarci, né tanto meno rendere desiderabile il dolore.

Quello che mi pacifica è credere che la massa di dolore dei bambini che curo non sia un inutile rifiuto, ma parte del prezzo che Cristo ha già pagato per la salvezza del mondo intero.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 24, NUMERO 1, Aprile 2023

 

Daniele AlbertiDaniele Alberti è Professore Ordinario di Chirurgia Pediatrica, Università degli Studi di Brescia. Direttore Clinica Chirurgica Pediatrica – Ospedale dei Bambini, ASST–Spedali  Civili di Brescia. Direttore del Dipartimento Gestionale Area della Donna e Materno–Infantile ASST–Spedali Civili di Brescia. Direttore della Scuola di Specializzazione in Chirurgia Pediatrica, Università degli Studi di Brescia.