Quello che conta nella protesta contro le discriminazioni razziali negli Stati Uniti

(di Massimo Gelmini)

L’uccisione di George Floyd, un cittadino nero di 46 anni, da parte di un agente di polizia a Minneapolis il 25 maggio scorso, ha scatenato una serie di forti proteste in tutti gli Stati Uniti, in Europa e nel mondo, portando in superficie questioni strutturali, mai risolte, della società americana, quali il rapporto tra le forze di polizia e la comunità afroamericana, e la percezione di un persistente razzismo istituzionalizzato nei confronti delle persone di colore. Nella complessità del problema, il razzismo non è tuttavia sufficiente a spiegare una così grande mobilitazione, per comprendere la quale è necessario considerare una più generale crisi di valori e identità che investe società anche molto progredite ma attraversate da profonde contraddizioni sociali e caratterizzate da crescenti livelli di disuguaglianza.

 

 

Il caso

Quello di George Floyd è solo uno tra i più recenti degli innumerevoli casi di uso della forza con conseguenze letali contro cittadini disarmati avvenuti negli Stati Uniti. Fermato da una pattuglia per un controllo all’uscita di un supermercato dove si ritiene avesse acquistato un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari contraffatta, Floyd ha subito l’assalto di un agente di polizia che lo ha ammanettato e immobilizzato a terra. Da un video ripreso da un passante e sulla base della dettagliata ricostruzione dei fatti, è emerso che Floyd abbia perso conoscenza dopo aver implorato invano per cinque minuti il poliziotto Derek Chauvin, bianco, che lo sovrastava premendogli un ginocchio sul collo e impedendogli di muoversi e di respirare. Al fatto di cronaca, che grazie ai social e alla mobilitazione ha avuto una grande risonanza non solo negli Stati Uniti, è seguita una sorprendentemente ampia campagna di proteste sotto lo slogan “Black Lives Matter” (le vite dei neri contano) che identifica un movimento non nuovo (manifestazioni di questo genere erano già avvenute nel 2019 a Memphis e in precedenza in altre città americane) ma che mai prima d’ora aveva avuto tanto seguito e una così grande eco anche fuori dagli USA.

Il razzismo sistemico nella società americana

Nonostante sia stata formalmente abolita con la legge sui diritti civili nel 1964, la discriminazione razziale negli Stati Uniti è stata un fenomeno talmente radicato e istituzionalizzato da resistere anche successivamente nella mentalità e nelle consuetudini delle persone, la cui vita sociale è stata per lungo tempo condizionata dagli effetti della sistematica e perdurante esclusione e separazione degli afroamericani da ambiti della vita civile. Questa pratica discriminatoria, a danno di un determinato gruppo di persone, che s’impone nella collettività come risultato di un pregiudizio istituzionale, senza che vi sia necessariamente un intento individuale esplicito, viene generalmente chiamata razzismo sistemico. Gli effetti della discriminazione sarebbero ancor’oggi evidenti nelle differenze riscontrate in molti settori, prevalentemente nel mondo del lavoro (opportunità professionali e posizioni lavorative occupate) e nella gestione della criminalità. Gli afroamericani svolgono in media lavori meno remunerativi e ricoprono ruoli meno qualificati. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio del censimento americano, il reddito mediano degli afroamericani è inferiore ai 2/3 di quello dei bianchi. Tra i neri si registra un tasso di povertà (più del 25%) che è superiore al doppio di quello riscontrato nella popolazione bianca (meno del 10%). Solo il 44% dei neri risulta infine proprietario di una casa. Osservando i dati sulla criminalità relativi al 2018 resi disponibili dal Dipartimento di Giustizia americano si nota che, a fronte di una continua diminuzione di nuove incarcerazioni, la percentuale di afroamericani detenuti è il 33%, non troppo elevata rispetto a quella registrata per i bianchi, che è il 30%, ma molto consistente se si considera quanti sono gli afroamericani nel complesso della popolazione americana (circa il 13%). Discrepanza questa che non sembra riguardare altre minoranze, come ad esempio quella ispanica. La probabilità di incarcerazione, sempre secondo i dati ufficiali del 2018, sarebbe più alta per gli afroamericani rispetto ai bianchi, soprattutto per gli uomini nella fascia giovanile. Il rapporto con le forze dell’ordine si rivela molto più conflittuale per i neri, che vengono arrestati o messi in libertà vigilata con maggior frequenza dei bianchi. Le uccisioni di civili da parte della polizia avvengono più spesso all’interno della comunità di colore, entro la quale le vittime sono 2.5 volte più numerose rispetto a quanto accade tra la popolazione bianca.

La discriminazione percepita

L’opinione dei cittadini americani sull’argomento è molto variegata ma, secondo recenti sondaggi, emerge una forte polarizzazione etnica tra coloro (in maggioranza afroamericani) che ritengono che il razzismo sia ancora tanto determinante e pervasivo nella società statunitense e coloro (prevalentemente bianchi) che non pensano che il divario e le differenze di opportunità siano conseguenza della discriminazione razziale. È maggioritaria la percentuale di chi percepisce il fenomeno come in crescita e addita le politiche di Trump come responsabili di questo andamento. Sul tema della criminalità, si è molto dibattuto negli USA sull’opportunità di riforma delle forze di polizia (vietando pratiche pericolose, introducendo maggiori controlli sull’operato degli agenti e limitando più efficacemente la loro discrezionalità), arrivando a ipotizzarne addirittura lo smantellamento e il dirottamento di risorse a favore della spesa sociale. Intervistata sul rapporto con l’autorità pubblica, la gran parte dei cittadini dei quartieri di maggioranza nera ha espresso una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni e in particolare delle forze dell’ordine, giudicate inflessibili su piccole infrazioni e assenti di fronte alle richieste di tutela e protezione. Questo sentimento è particolarmente avvertito nelle aree di maggior segregazione e marginalizzazione, dove il punto di contatto con le istituzioni è rappresentato dalla polizia e dal sistema carcerario, percepiti come espressione di uno Stato autoritario e repressivo. 

Per comprendere a fondo la portata e la natura delle proteste di queste settimane è tuttavia utile osservare che queste hanno ricevuto sostegno anche al di fuori del “ghetto”, venendo appoggiate anche dalla classe media afroamericana e raccogliendo non di rado consenso in modo trasversale da parte di diversi strati sociali, comprese le categorie più integrate e benestanti. Nelle grandi città si è stimato che almeno il 50% dei manifestanti sia bianco. Se da un lato sotto la bandiera “Black Lives Matter” si è mobilitata gran parte dell’opposizione politica in dissenso con la presidenza Trump, è altrettanto vero che un’adesione così ampia e diversificata costituisca un segnale di cambiamento importante nell’opinione pubblica americana, che reclama riforme radicali per ridefinire regole e competenze delle forze di polizia, ma soprattutto pone in discussione il rapporto tra autorità pubblica e popolazione civile, chiedendo che si adottino politiche di contrasto al disagio economico e di lotta alle disuguaglianze, potenziando il welfare e promuovendo un nuovo patto sociale, basato su un modello non repressivo e punitivo ma inclusivo e più equo.

Discriminazione razziale o discriminazione sociale?

Al di là dell’indiscutibile scenario che emerge dall’analisi delle statistiche di cui si è dato conto e senza voler banalizzare un quadro che appare da tutti i punti di vista estremamente complesso, il male che oggi affligge la società americana, a livello di fenomeno sistemico, non sembra tanto consistere nella discriminazione razziale quanto nelle molteplici discriminazioni su base economica. Per quanto la crisi sia stata raccontata da tutti i principali media come una reazione al razzismo istituzionale e così sia stata etichettata a livello internazionale, anche dagli stessi manifestanti con i loro slogan, il fattore maggiormente implicato non è, come la narrazione mainstream tende a far prevalere, il colore della pelle, quanto piuttosto la marginalità economica e la disuguaglianza sociale. Il divario di ricchezza tra le famiglie americane più ricche e più povere è più che raddoppiato tra il 1989 e il 2016, indipendentemente dall’etnia, portando gli Stati Uniti a detenere il primato della disuguaglianza economica tra i grandi del G7. In un Paese sempre più binario, dove la classe media tende a ridursi, mentre le percentuali di adulti nelle fasce di reddito estreme aumentano, e dove il tasso di povertà supera il 26% della popolazione afroamericana e il 23% dei latini, la pandemia COVID-19 si è abbattuta aggravando ulteriormente le condizioni delle aree più vulnerabili, paralizzando intere comunità e arrecando disagio e malessere. Se a questo si aggiunge l’aggravante, non trascurabile, della particolarmente alta circolazione di armi, e del consueto esercizio della forza da parte della polizia verso i cittadini di ogni etnia, si può comprendere come in questo clima così esasperato possano con molta facilità acuirsi i conflitti.

Piuttosto che contro il razzismo di sistema, è per la difesa dei poveri e degli svantaggiati che dovrebbe forse più appropriatamente essere indirizzata la denuncia di “Black Lives Matter”. In un ambiente sociale multietnico e multiculturale, con persone di colore presenti in ogni ambito e ad ogni livello della vita, anche ai vertici di grandi aziende e sistemi di potere, in una società in cui l’impoverimento di molti può anche essere causato dallo smodato arricchimento di pochi, il pregiudizio più diffuso subìto dagli afroamericani residenti nei quartieri poveri e nelle periferie è quello che di fatto impedisce ai loro figli di frequentare scuole decenti e di accedere a opportunità professionali equiparabili a quelle di coloro che invece se lo possono permettere. Pregiudizio, questo, che riguarda anche una parte della popolazione bianca.

Il rischio della deriva nel politicamente corretto

La rappresentazione del problema solo sul piano della discriminazione razziale in definitiva, a parte l’incidenza di casi specifici — non certamente isolati e comprensibilmente forti sul piano dell’emozione e dell’impatto comunicativo, oltre che umanamente inaccettabili —, è senz’altro riduttiva e finisce con l’assecondare una narrazione non esente da convenienze e strumentalizzazioni. A giudicare dalla sollecitudine con cui le multinazionali statunitensi, non certo nuove ad iniziative filantropiche interessate, si sono schierate a favore delle manifestazioni sostenendo le associazioni afroamericane e appoggiando proposte discutibili di revisione storica e di riscrittura e ripulitura semantica per edulcorare in chiave antirazzista tutta un’identità culturale, viene il sospetto che i grandi soggetti economici e finanziari abbiano tentato di appropriarsi della protesta, scaturita dall’indignazione popolare di fronte all’uccisione di Floyd, per confinarla entro i limiti, per loro inoffensivi, della sensibilizzazione antirazzista. 

Se così fosse, avrebbero dato un forte impulso a quel processo di normalizzazione che, nella società post-liberista, punta ad affermare un nuovo sistema di pensiero, una sorta di ideologia dei diritti, all’insegna del conformismo e del politicamente corretto, per meri scopi di interesse politico ed economico. Tutto il colorito repertorio di gesti simbolici — l’abbattimento delle statue, l’assegnazione di nuovi nomi alle strade, la plateale espressione di pentimento — che le manifestazioni di “Black Lives Matter” hanno spontaneamente prodotto, acquisterebbe così il senso di una ritualità, sostanzialmente innocua per il “sistema”, ma simbolicamente necessaria al nuovo ordine emergente per potersi insediare su una base valoriale condivisa e assai promettente.

Alla causa, eticamente e umanamente condivisibile, per cui si batte il movimento “Black Lives Matter” chiedendo la fine del razzismo e delle brutalità commesse dalla polizia, possono evidentemente giovare la visibilità e il sostegno morale ed economico ampiamente ricevuti. Ma la sconfitta del razzismo non può avvenire senza un’azione della politica, che — uscendo dall’ipocrisia del gesto simbolico e dell’adesione estemporanea in una logica di vantaggio elettorale — sappia concretamente farsi carico dei problemi degli emarginati e delle richieste degli ultimi, evitando di intrappolare le rivendicazioni dentro un approccio identitario che rischia di rivelarsi controproducente. Solo un profondo scardinamento dell’attuale modello di sviluppo e una sua riforma radicale in chiave di maggior equità e inclusività potrebbero ridurre il divario economico e creare le condizioni per una società più giusta e capace di offrire a tutti pari opportunità, dove non sia necessario protestare per ribadire l’ovvietà che le vite umane contano.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 2, Ottobre 2020