Intervista a P. José Arcesio Escobar

(a cura di Alessandra Pellizzari)

Ci troviamo nella Città di Dio di Villa de Leyva, in Colombia, una realtà che ha in P. José Arcesio Escobar il proprio iniziatore. Dopo averlo già intervistato qualche anno fa, approfittiamo della sua disponibilità per farci raccontare i progressi e le novità della grande opera delle Città di Dio.

Dal 2003, anno in cui è nata la prima Città di Dio qui a Villa de Leyva, sono fiorite molte altre realtà, per un totale di 25 Città di Dio, ad oggi. Vuoi raccontarci cosa sta accadendo?

Nel 2003 ero maestro dei novizi e mi parve necessario che i ragazzi, per crescere nella loro vocazione, potessero fare un’esperienza viva di carità, a contatto con le persone povere della nostra città. Nella zona in cui ci troviamo ora c’era un ampio terreno libero, nel quale decidemmo di costruire la prima casetta, in cui accoglievamo i bimbi nel pomeriggio del sabato, per farli giocare e far loro un po’ di catechesi. Da questo primo nucleo, e sempre con l’aiuto provvidente di San Giuseppe, è sorta una realtà sempre più grande, senza che noi l’avessimo in alcun modo previsto. Un giorno incontrammo una persona anziana e poverissima e decidemmo di accoglierla: oggi abbiamo quindici ospiti e stiamo ultimando proprio adesso un’ala, che vorremmo inaugurare il prossimo 19 marzo, per poter accogliere altre trenta persone anziane. Oltre a questo abbiamo un asilo nido ed una scuola materna che accolgono ogni giorno 130 bimbi. È davvero bello vedere come gli ospiti anziani rifioriscano a contatto con i bimbi, e come siano diventati i nonni per tutti.

Ogni Città di Dio nasce con un percorso diverso. Ma cosa vuole essere una Città di Dio? È un luogo dello spirito, in cui persone diverse possono condividere le proprie vite, con le loro fatiche e le loro gioie, sotto lo sguardo benevolo della Trinità e dei fratelli in Cristo. Tre sono per noi i pilastri fondamentali: pregare, amare e servire.

La preghiera, intesa come contemplazione della presenza di Dio in mezzo a noi, con molti momenti di preghiera condivisa lungo la giornata, l’amore tra i componenti della comunità, persone  diverse ma unite come in una grande famiglia in cui ciascuno ha il suo posto e sa di essere caro a qualcuno, e il servizio come risposta al bisogno delle persone del luogo.

Il percorso di nascita di ogni Città di Dio è diverso, ma non manca mai la formazione di una comunità orante, accogliente e aperta al bisogno.

Vi faccio l’esempio di come è nata l’ultima Città di Dio, quella di Santa Isabel. Siamo venuti a conoscenza dell’esistenza di una comunità di profughi desplazados indigeni Katios che, costretti con la violenza a lasciare la loro zona di origine, nella regione del Chocò, si sono rifugiati in un pezzo di terra messo a disposizione dalla comunità locale. Avuta notizia di questo piccolo gruppo e delle terribili condizioni in cui vivevano, siamo partiti. Il percorso è di circa tre ore in macchina fino a Medellin, poi altre due ore di strade tortuose che si inerpicano per i monti, infine due ore e mezzo a cavallo o a piedi. Finalmente arrivati, la prima persona che abbiamo incontrato è stata una ragazza in procinto di partorire, in condizioni gravi. L’abbiamo subito caricata in macchina per portarla all’ospedale più  vicino, ma lungo il percorso ha partorito e il bimbo purtroppo è morto poco dopo. Questo perché vivono in condizioni davvero precarie, senza alcuna assistenza sanitaria né alcun sostegno. Che fare allora? È nata la Città di Dio, con la presenza di alcune suore. Gli indigeni sono molto aperti e ci hanno accolto bene e noi intendiamo rispettare la loro cultura e le loro tradizioni. Al centro sorgerà la casa di Dio, dove ciascuno potrà incontrare Dio, qualsiasi sia il suo credo. Stiamo costruendo inoltre un ambulatorio medico, un asilo per i bambini, una scuola, una casa d’accoglienza, e tutto intorno sorgeranno le case per gli indigeni.  

Un’altra Città di Dio è sorta qualche anno fa a Barbacoas. È una località nel sud della Colombia, cui si giunge dopo otto ore di viaggio attraverso la foresta. Vive qui una comunità di circa 5000 persone afro–colombiane, discendenti dagli schiavi. A causa dell’estremo isolamento in cui si trova, questa località fu scelta da tutti i diversi gruppi della guerriglia, dai paramilitari e dai narcos, come base per la lavorazione della coca ed è quindi un posto molto pericoloso, dove la violenza anche estrema, si sperimenta quotidianamente. La Città di Dio di Barbacoas è la Città dei figli della guerra, orfani dei vari gruppi ostili.

Ogni Città di Dio ha una dinamica diversa in base al bisogno cui tenta di rispondere. Sono comunque convinto che ad un certo punto la fase iniziale di costruzione e della novità si concluderà e che le Città di Dio entreranno nella vita ordinaria. A Bogotà sorge la Città di Dio della Gloria. Si tratta di un  grande condominio in cui sono accolte 120 famiglie povere, provenienti da tutte le parti della Colombia e con varie storie alle spalle: alcuni desplazados, ossia cacciati dalla guerriglia e costretti a fuggire, altri profughi, altri migranti in cerca di migliori condizioni di vita.

In un appartamento vive una comunità di quattro Carmelitane missionarie che fanno da punto di riferimento, di ascolto e di animazione. Ciascuna famiglia ha il proprio appartamento e poi ci sono le zone comuni: una mensa aperta anche alle persone del quartiere, dove ogni giorno si servono 140 pasti preparati da alcune mamme volontarie residenti nella Città di Dio; un salone per poter svolgere varie attività per i giovani, come danza, musica, e animazione spirituale. Lo stesso salone diventa poi cappella per le celebrazioni comuni. Si aprirà a breve anche una scuola materna per i bimbi della Città di Dio e del quartiere. Qui la particolarità è che si tratta di una comunità di famiglie e che le ferite che si cerca di sanare riguardano spesso la sfera della relazione all’interno della famiglia.

In ogni Città di Dio, quindi, si lavora con la consapevolezza della presenza di Dio in mezzo a noi, e con la forza speciale della comunione che ci unisce.

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Nelle Città di Dio si accoglie chiunque e vivono insieme comunità religiose appartenenti a congregazioni diverse. Come fare unità di questa diversità?

Si tratta di un dono dello Spirito molto speciale. Qui a Villa de Leyva abbiamo: i Carmelitani Scalzi, le Suore del Carmelo apostolico di Nostra Signora di Betlemme, i laici consacrati Carmelitani di S. Giuseppe, le Carmelitane di Nazareth (congregazione nata solo qualche mese fa), e tra poco arriveranno anche alcune Suore Carmelitane di S. Giuseppe: insomma un piccolo Vaticano!

L’unità si crea nella condivisione della vita, della preghiera, del lavoro nella quotidianità, non tanto dalla fede che diciamo di avere. Costruiamo così una grande famiglia, in cui c’è spazio per tutti. In questo momento vive e lavora con noi una famiglia ebrea. Anche loro pregano con noi, poi il sabato pregano secondo la loro tradizione, ma ci unisce la chiamata a stare con il Signore. Alla Città di Dio vengono anche musulmani, cristiani ortodossi, protestanti e credenti di religioni orientali: tutti vengono rispettati. L’unità si fa intorno all’essenziale: tutti sperimentiamo che Dio è in mezzo a noi e che Lui ci unisce e ci rende una  famiglia.

Come tenere in equilibrio preghiera e azione?

Per noi non c’è differenza. Tutto il giorno è una preghiera. Abbiamo momenti prestabiliti di preghiera in comune, ma poi, quando si esce dalla cappella, sappiamo che la preghiera continua nell’incontro con i nostri ospiti, con le persone che vengono a trovarci. Si tratta di una vita alla presenza di Gesù risorto, che è in noi e dappertutto. S. Teresa d’Avila riteneva ugualmente importante la preghiera, la ricreazione, il lavoro: l’unità di tutto. Allo stesso modo noi pensiamo che la Città di Dio sia un monastero, ma anche che ciascuno di noi sia un monastero: Gesù è nella Città di Dio e in ciascuno di noi.

Cerchiamo di vivere adorando la SS. Trinità sempre presente in noi. Sentiamo di essere un modo nuovo di vivere l’esperienza carmelitana: contemplazione e azione unite in una sola realtà di amore a Dio e al prossimo, come insegnano le monache carmelitane, ma incarnata in una realtà nuova e diversa.

Come rimanere attenti ai bisogni che vi circondano?

Come dice Papa Francesco, siamo una Chiesa in uscita, verso le persone e le situazioni più bisognose. Le persone che incontriamo sono per noi la voce del Signore, con le loro richieste e le loro sofferenze. Ci accompagnano la pace interiore ed il silenzio interiore, che ci permettono di incontrare anche realtà molto difficili, come quelle della prostituzione e della droga.

Qualche volta è bello stare in silenzio, leggere e pregare in tranquillità, ma ciò che poi ci fa uscire di nuovo è proprio il grido delle persone che soffrono, attraverso cui il Signore ci chiama. Ed è bello donare la vita, lasciare tutto e trovare Gesù.

Per la realizzazione delle tue opere ti affidi alla provvidenza, per il tramite di S. Giuseppe. Non ti ha mai deluso?

Per prima cosa devo precisare che non si tratta di un’opera mia. Io ci lavoro, ma è opera del Signore. Dal 2003 S. Giuseppe non ci ha mai abbandonato. Confesso di non avere alcuna preoccupazione economica. Non ci è mai mancato nulla. Arriva sempre ciò che ci serve al momento giusto: niente di più, niente di meno. Certo, abbiamo l’essenziale, non tutto, però la nostra unica preoccupazione rimane l’esperienza di Dio, la persona con i suoi bisogni: tutto il resto lo lasciamo in mano a S. Giuseppe.

Il MEC è una famiglia di famiglie. Come pensi potrebbe accadere la collaborazione tra le famiglie delle Città di Dio e quelle del MEC?

Quando sono stato agli esercizi del MEC, qualche anno fa, ho visto proprio il seme di molte Città di Dio! Ho sentito una bellissima amicizia spirituale tra di voi e incontrato famiglie mosse da forti ideali. Ma io sento che vi manca l’abitare insieme. Creare una Città di Dio, con alcune famiglie che abitino insieme e condividano l’esperienza di vita comune, nella quotidianità. Credo che le famiglie oggi abbiano bisogno di sentirsi sostenute, circondate da altre famiglie con cui condividere la vita e le preoccupazioni. In Colombia noi lo facciamo già e credo che anche le famiglie del MEC, che hanno una spiritualità ricca e ben formata, possano un giorno fare questo passo e che, anzi, potremo farlo insieme. Può essere difficile? Tutto lo è, ma con la fede possiamo provare!

Credi possibile una convivenza anche tra stati di vita diversi? Esempio laici, famiglie e religiosi? Nelle Città di Dio accade. È stata una sfida o un dono ricevuto?

È stato un dono. Ho sempre sognato una Chiesa in cui tutti abitino alla presenza del Signore. Nelle Città di Dio è facile abitare insieme perché abbiamo compreso che ciascuno è chiamato alla stessa cosa: l’esperienza di Dio. Si tratta di una vita simile a quella della famiglia di Nazareth, cioè con le occupazioni ordinarie, ma vissute adorando il Signore presente in ciascuno. E questa vita insieme, pregando, amando e servendo è per tutti, senza alcuna distinzione di carisma o di stato di vita.

Nella Città di Dio di Norcasia vengono accolti i ragazzi delle zone montane che scendono in città a studiare. Alcuni di loro stanno terminando il ciclo degli studi superiori e non hanno la possibilità di accedere all’università. È nata l’idea di creare delle borse di studio per aiutarli. Vuoi parlarci di questo progetto?

Questo progetto è stato un’ispirazione dello Spirito. Siamo partiti senza pensarci troppo. Abbiamo fatto un accordo con varie realtà universitarie, con il MEC, con la Fondazione Construímos. La borsa di studio per ciascun ragazzo viene finanziata per il 25% dall’Università, per il 25% dal MEC, per il 25% dalla Fondazione Construímos e per il 25% dal ragazzo stesso o dalla sua famiglia.

Nella Città di Dio della Gloria a Bogotà abbiamo ora due appartamenti, uno femminile ed uno maschile, dove gli universitari, provenienti dalle varie Città di Dio abitano insieme.

Non si tratta di un’opportunità mirata solo alla crescita personale ma, ancora, di un’esperienza di vita comunitaria. I ragazzi infatti pregano, studiano, lavorano e collaborano alle attività della Città di Dio che li ospita. Questi giovani saranno come il seme gettato nel campo e il regno di Dio potrà continuare a crescere anche attraverso di loro.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 1, Aprilee 2017