Nei tempi lontani, anzi lontanissimi, agli inizi della creazione, il buon Dio volle popolare la terra di tante creature, per preparare una reggia viva e allegra al suo preferito, l’uomo.
Cominciò a riempire i mari con tante specie di pesci, di ogni dimensione, tante da perderne quasi il conto. Poi passò alla terra emersa, ben asciutta e rassodata, ricca di erbe, piante di ogni genere.
Fece animali giganteschi e altri piccolissimi, poi, tra i due estremi, esseri di tutte le misure e qualità, perché — si sa — la varietà è sempre divertente: colli lunghi e corti, teste enormi e minuscole, gambe dritte e storte, due, quattro, otto, nessuna zampa e, in qualche caso, tante di quelle gambe, che ne perse il conto. Quindi guardò quello che aveva fatto e trovò che si era proprio divertito e che quel lavoro valeva la pena.
Dovette affrontare allora un problema: se voleva parlare con qualcuna di quelle innumerevoli creature non gli bastava dire «Ehi tu, con due gambe!», perché ne arrivavano molti.
Li mise quindi tutti in fila per dare loro un nome che li distinguesse bene uno ad uno:
– Tu… ti chiamerai cammello, perché hai due gobbe e non patirai la sete;
– Tu… ragno, perché hai otto zampe lunghe e sottili e farai meravigliose tele che brilleranno di rugiada al mattino;
– Tu… ti chiamerai ippopotamo… mamma quanto sei grosso! Danzerai leggero nelle acque del fiume;
– Tu invece cavallo e correrai potente e libero nelle praterie;
– Vediamo… tu con quelle orecchie e il muso lungo… ti chiamerai asino.
Poco dopo quell’animale tornò dal Signore perché già si era scordato il suo nome. Gli venne ripetuto e andò scalpitando e urlando: «Io mi chiamo… a… acino, abito… no!… aristide!».
Ritornò ancora altre volte a farsi ripetere il nome, ma proprio non gli rimaneva in testa.
«Asino… ti ho detto che sei un asino!» alzò la voce quasi spazientito il Signore, che finì quell’opera, inventando nomi molto complessi: armadillo, pangolino, emù, ornitorinco e molti altri.
La terra era ben popolata!
Alzò lo sguardo al cielo e si accorse solo allora che l’immensità azzurra e serena era completamente vuota e muta.
Così iniziò a creare moltissimi tipi di ali di dimensioni, colori e forme diverse, le depose a terra e convocò gli animali, chiedendo loro il favore di provarle.
Molti animali guardarono, pensarono, ciondolarono ma poi sparirono.
Ma altri generosi e coraggiosi accettarono e così indossate le ali, appena girato l’angolo, esse si attaccavano dietro la schiena, frullavano un poco e poi via nello spazio senza limiti del cielo.
Il più piccolo brillava di colori meravigliosi, tanto che venne chiamato “uccello del Paradiso”, il più grande fu il condor, che lento volava più in alto e più veloce di tutti gli altri.
A dire il vero anche l’elefante volle provare, ma, in quel caso, non vi erano ali abbastanza grandi da sollevarlo da terra, così il Signore decise di consolarlo con due enormi orecchie a forma di ali.
Nel caso dei maiali fu Dio a tentare invano di convincerli, ma loro preferirono rimanere a terra a grufolare con il loro muso, rigirarsi nel fango e mangiare, mangiare, mangiare… il volo poteva aspettare, anche se Dio un po’ si dispiacque per questa loro scelta.
E proprio mentre li guardava andar via confabulando e con il loro piatto muso a terra, lieve un uccellino leggero, timidamente gli si posò su una spalla e Gli disse:
«Signore mi hai dato nome pettirosso… ma… mi sono specchiato nella fonte e ho visto che non ho il petto rosso, né la testa, né le zampe… niente sono tutto grigio. Perchè?».
«Il tuo nome — gli rispose Dio — è una promessa. Avrai il petto rosso, un giorno quando lo meriterai. Le mie promesse — ricorda — sono sicure!».
E l’uccellino volò via un po’ confuso.
Da allora, di padre in figlio, ogni pettirosso conosceva questa storia e questa promessa e si impegnava per ottenere quella macchia rossa, profetizzata da Dio stesso.
È vero che ci fu anche chi cercò di trovare altre strade: qualcuno si dipinse il petto, ma la pioggia lavò tutto via, qualcun altro cantava con tanta forza e calore, sperando di incendiare il petto, un altro ancora si lanciò in un incendio, si gettò tra le fiamme per salvare gli altri, ma neppure il fuoco arrossì il suo petto. Così passarono gli anni, tanti, centinaia, migliaia…
Molto tempo dopo, su una collinetta, nei pressi di una grande città, un pettirosso aveva posto il suo nido e allevava i suoi piccoli, raccontando loro storie di virtù, speranza e bontà.
Un pomeriggio tornò affaticato e raccomandò ai suoi piccoli di rimanere nel nido, perché fuori stava avvenendo una tragedia: soldati, cavalli, gente che urlava e malediceva, donne che piangevano.
«Restate qui, piccoli miei, in silenzio. Gli uomini sono cattivi! Stanno uccidendo tre poveretti. Oh se fossi forte e possente come l’aquila, potrei aiutarli!».
Volò fuori e vide che i tre uomini venivano issati e inchiodati a delle croci.
Gli batteva forte il cuore e non sapeva cosa fare, quando notò che l’uomo al centro aveva una corona di spine sul capo che lo faceva soffriva terribilmente. Non ci pensò due volte e scese rapido fino a posarsi sulla croce stessa, si accostò al capo e con il becco tentò di togliere una delle spine. Tirò coraggiosamente con tutte le sue forze, ma la spina era troppo grande, era conficcata profondamente e lui non riusciva ad estrarla. Stanco e sfiduciato stava per volare via, quando vide più in basso una spina più piccola, si accostò al groviglio di rovi, pungendosi qua e là, e con il becco, puntandosi sulle zampe, tirò e tirò… finché cadde all’indietro. La spina era nel becco.
«Non ho potuto fare di più!» diceva tra sé e tristemente ai suoi piccoli.
Furono loro che, pigolando con tutta la loro voce, gli fecero, solo allora, notare che una goccia di sangue lo aveva sporcato e si era allargata per tutto il suo petto.
Quella macchia rossa non se ne andò più via, compiendo la promessa di Dio, che ha creato spazi infiniti, miriadi di specie viventi, dalle stelle in cielo al piccolo passerotto toccato dal suo Amore.
Karlin (alias Prof. Carlo Negro)
Storia raccontata a La Casa sul Monte (Mompellato di Rubiana, Val di Susa) della Acr di Torino, durante le vacanze estive negli anni ’70.
Illustrazioni: Cristina Pietta