(di Stefania Giorgi)
Dal successo editoriale delle cronache di una levatrice inglese a Londra negli anni Cinquanta, una serie tv racconta, con emozione, comicità e profondità, la celebrazione della vita. Nascere, e far nascere, è la più grande avventura dell’esistenza, e chi meglio di un’ostetrica può raccontarlo?

Mi piace seriale
Ormai da un po’ di tempo le serie tv si sono imposte come nuova forma d’arte capace di sfidare il cinema sul suo stesso terreno, quello della narrazione attraverso le immagini e i suoni. Se la storia del telefilm risale agli albori della televisione, il salto di qualità si è però realizzato nell’ultimo decennio: titoli come Lost, 24, Mad Men, Breaking Bad, Il Trono di Spade, The Walking Dead, hanno cambiato il modo di fare televisione in serie, e raggiunto livelli di elaborazione stilistica, di articolazione narrativa e di profondità tematica con cui pochi film contemporanei sono in grado di competere.
In quanto nuova forma d’arte, la serialità televisiva ha richiesto un nuovo tipo di analisi critica che fosse in grado da una parte di individuare i tratti peculiari delle serie tv, dall’altra di mostrare la rilevanza filosofica delle riflessioni narrative sui ruoli degli individui all’interno della comunità, sulla natura dei rapporti umani, sul desiderio di potere e come questo trasformi le relazioni, sull’amore, sulla costruzione della realtà sociale.
Le serie tv hanno permesso al cinema di avvalersi di un nuovo linguaggio narrativo per esprimersi, più fresco, più libero, che soddisfa molte esigenze dello spettatore odierno: sono l’evoluzione cinematografica aggiornata ai ritmi moderni. Certo, c’è chi si spinge sempre oltre, in termini di contenuti e di rappresentazione, solo per il gusto della trasgressione, in una gara a chi oltrepassa per primo e con disinvoltura i limiti, senza una motivazione funzionale alla storia raccontata.
Ma in generale, lo sviluppo in puntate di un’intera stagione, da un minimo di 6 a un massimo di 22, permette di entrare nella storia a una profondità cui pochi arrivano, di esplorare i personaggi in un arco narrativo completo. I canali televisivi, intuendo le potenzialità del mezzo, hanno investito sempre maggiori risorse, con un ritorno in termini di fidelizzazione degli spettatori che garantisce guadagni immensi: una puntata-pilota, dal cui immediato successo di audience può spesso dipendere l’intera esistenza della serie, può richiedere cifre pari a quelle di un singolo blockbuster da multisala; ma quando una serie ha successo la sua fama, e i suoi introiti, possono diventare stellari.
Negli ultimi anni le produzioni sono diventate sontuose, gli sceneggiatori bravissimi e gli attori da premio Oscar, che ormai fanno a gara a passare dal grande al piccolo schermo, hanno aiutato parecchio, è chiaro, ma è il format della serie tv ad essere perfetto per questi tempi veloci in cui siamo immersi.
Ci affezioniamo ai personaggi, li aspettiamo di settimana in settimana, sappiamo che possiamo stare con loro il tempo di uno spostamento in metropolitana, di una pausa pranzo, nel letto prima di dormire, e che la cosa non finirà lì, agganciati dal colpo di scena di rito che scatta genialmente negli ultimi cinque minuti della puntata per trasformarci così in “maniaci seriali”.
Tra le vite di Londra
Di opere e serie tv sulla vocazione e sulla professione di medici e infermieri ne abbiamo visti e tanti. Ma la figura della levatrice ancora non era stata messa al centro dell’attenzione, e così un periodo ben preciso, gli anni della rinascita dopo la Seconda guerra mondiale in Inghilterra, e un luogo poi così particolare come l’East End, cioè la Londra che non c’è più, la città proletaria e miserabile dei docks del Tamigi, pieni di navi e affollati di scaricatori. L’East End (territorio di Jack lo Squartatore) è sempre stata una zona di quartieri poveri (Poplar, Spitalfield, Isle of Dogs) e ad alto tasso di criminalità, contraddistinti da un’urbanistica disordinata, dove si concentrava la classe lavoratrice più misera, gli immigrati, le prostitute, ladri e assassini. Ma anche semplicemente tutti i derelitti che non potevano permettersi un posto migliore, senza servizi igienici, scuole o assistenza, dove si viveva in misere stanze sovraccariche di bambini e di vecchi su cui incombeva ancora lo spettro degli ospizi di mendicità di dickensiana memoria.
Jennifer Worth (1935 – 2011), infermiera no agli anni Settanta, ha scritto le sue memorie in una trilogia dedicata alla sua esperienza come levatrice nell’antica zona proletaria di Londra (Chiamate la levatrice, Tra le vite di Londra e Farewell to the East End, in corso di traduzione). L’opera ha venduto oltre un milione di copie in Gran Bretagna, e la BBC ne ha tratto una serie per la televisione, trasmessa anche in Italia con il titolo “L’amore e la vita”. Tutto ruota attorno alle riforme sociali e sanitarie che il governo inglese avviò a partire dal 1948, cercando di costruire quello che poi sarà conosciuto come il Welfare State, e le infermiere ostetriche furono il fronte avanzato di un programma di igiene pubblica e di puericultura volto a migliorare le situazioni faticose delle famiglie, e in particolare delle donne e dei bambini, in un periodo storico in cui la condizione femminile stava per mutare radicalmente. Le protagoniste, giovani infermiere alla prima esperienza, vivono anch’esse il cambiamento in atto, ma, e in questo consiste l’aspetto interessante e originale, confrontandosi da una parte con le madri che assistono quotidianamente nel momento più cruciale delle loro vite, con tutti suoi risvolti gioiosi o drammatici, e dall’altra parte con la comunità di suore presso le quali lavorano e vivono, una congregazione dedita all’assistenza medica dei poveri e delle donne incinte. Donne per la vita “La levatrice è l’essenza stessa della vita. Ogni bambino è concepito nell’amore o nella lussuria. E nasce nel dolore, seguito dalla gioia o dalla tragedia e dall’angoscia. Ogni nascita viene seguita da una levatrice. Lei è al centro di tutto. Lei controlla tutto. Io non sapevo niente della povertà, né di sudicie case, di pidocchi, di sporcizia, né di famiglie in cui si dormiva in quattro in un letto. E niente della passione che porta un bambino dopo l’altro, un travaglio dopo l’altro. Non sapevo niente della vita stessa“. Una giovanissima Jenny Lee, la protagonista principale, comincia così, con molta ingenuità e ignoranza del mondo, la sua esperienza di infermiera ostetrica, ma grande differenza la fa il contatto giornaliero con le sorelle della Nonnatus House (nome fittizio del vero ordine anglicano dedicato a S. John the Divine), un gruppo variegato di consacrate che, nella normale routine della vita religiosa, svolgono anche il lavoro di assistenza alle puerpere e di formazione delle levatrici. Conosciamo allora la smemorata sorella Monica Joan, la dolce ma saggia ed equilibrata suor Julienne, la burbera e comica sorella Evangelina, e la giovane sorella Bernadette; le infermiere laiche Trixie, Cinthya e Chummy, e poi le madri partorienti, il più delle volte donne molto semplici, spesso ignoranti, sporche, che della vita conoscono solo gravidanze – spesso indesiderate – e lavori domestici, donne abbattute dalla miseria e spesso dalla violenza dei loro uomini, ma ancora piene di dignità e desiderio di un futuro migliore per sé e i propri figli. Dall’incertezza e dalla paura del primo intervento fino all’ultimo momento in cui una ormai professionale e sicura Jenny compirà le sue operazioni, ciò che scuote sempre protagonista e spettatore è l’infinita gamma di modi in cui il miracolo della vita e dell’amore riesce a manifestarsi, nonostante la routine, i pregiudizi, i drammi o gli imprevisti del destino, per rendersi conto ogni volta di quanto possa essere straordinaria anche la più banale delle esistenze. Un quadro commovente e realistico, quello di Chiamate la levatrice. Storie che emozionano, che coinvolgono, raccontate in modo obiettivo e senza inibizioni, e che fanno emergere sempre il lato più umano, storie che spesso ti strappano un sorriso, storie soprattutto che inneggiano sempre alla vita anche quando raccontano scelte dolorose. L’eroismo quotidiano di interventi clinici spesso drammatici, si mescola alla denuncia sociale, descrivendo la fatica degli uomini che lavorano instancabilmente nei porti, gli odori nauseabondi provenienti dalle case fatiscenti, la rigidità delle classi sociali, la durezza delle istituzioni verso chi sbaglia, il maschilismo ancora pervasivo e condizionante. La cronaca delle giornate di un ragazza di sessant’anni fa che corre di qua e di là per far nascere un bambino, o per rifare le fasciature di un vecchio soldato, sempre entusiasta, sempre accorata, e pronta ad imparare dalla realtà, generosa e coraggiosa, e sempre più consapevole dell’importanza del proprio lavoro e dell’umanità che occorre per svolgerlo al meglio. Una cronaca viva e commovente che rende anche lo spettatore cosciente dell’importanza di non smantellare la rete della solidarietà sociale costruita in quegli anni, perché per guarire, per dare la vita, per andare avanti nonostante tutto, anche oggi non basta uno sportello e qualche informazione medica, ma persone che ti guardino in viso e ti stiano accanto nei momenti più difficili.Continua a leggere
© Dialoghi Carmelitani, ANNO 2016, NUMERO 2, Giugno 2016