E ora dove andiamo?
(recensione di Stefania Giorgi)
Nadine Labaki è una giovane regista libanese che si è imposta al grande pubblico, anche quello occidentale così miope nei confronti del cinema straniero, fin dalla sua opera prima: Caramel. Con questa seconda opera dal titolo E ora dove andiamo? Labaki dirige, e attraversa come interprete di grande impatto, un film che ha la leggerezza che è propria di chi ha scavato nel profondo di un’intolleranza che non è più tollerabile.
Una storia sempre antica e molto moderna
In una zona montuosa del Medio Oriente la piccola comunità è divisa tra musulmani e cattolici. Divisa da differenze religiose e culturali, ma capace di vivere insieme senza troppe inimicizie, anche se il passato e le eterne rivalità sono sempre pronti a riaccendere gli animi. Sul bordo di una strada dissestata, un corteo di donne avanza in processione verso il cimitero del villaggio. Una vera e propria coreografia in cui Takla, Amale, Yvonne, Afaf e Saydeh affrontano stoicamente il caldo soffocante di mezzogiorno, reggendo le fotografie dei loro amati uomini, perduti in una guerra futile, lunga e lontana. Alcune di loro portano un velo, altre indossano una croce, ma tutte sono vestite di nero, unite da una sofferenza condivisa, insieme portano in grembo il loro dolore. Giunta alle porte del cimitero, la processione si divide in due gruppi: musulmane da una parte e cristiane dall’altra, perché anche sottoterra le differenze sembrano continuare. Fuoricampo la voce della protagonista ci introduce nella vicenda: «la storia che sto per raccontare l’offro a chi la vuole ascoltare / su gente che digiuna, che in preghiera si raduna. / La storia di un villaggio isolato, dalle mine circondato / solo, tra cielo e terra, sperduto nella guerra. / Due gruppi dal cuore straziato, sotto un cielo infuocato. / Con le mani che il sangue abbruna, in nome della Croce o della mezzaluna. / Un villaggio isolato che per la pace ha optato / la cui vita è intessuta di filo spinato e violenza vissuta. / È una lunga storia di ombre scure, senza gloria / senza stelle scintillanti né fiori sfavillanti. / Con occhi di cenere e lacrime cerchiati, le donne per proteggere i loro amati / di coraggio si sono corazzate».
Uomini e donne
Se gli uomini sono spesso pronti alla rissa tra opposte fazioni, le donne sono invece solidali, al di là delle differenze, perché uguali nelle preoccupazioni d’amore verso i propri cari.
In questo villaggio, dove la piccola chiesa è seduta accanto all’altrettanto piccola moschea, ognuno cerca un po’ di felicità e, tra le piccole soddisfazioni, compare un giorno la televisione: una sola per tutto il villaggio che, dopo molte peripezie, viene accesa, con discorso del sindaco e mortaretti, in una sorta di festa collettiva come si vedeva anche da noi agli esordi della Tv.
Ma, con una finestra del genere aperta sul mondo, la violenza fa presto ad attizzare le braci delle tensioni che scorrono sopite sotto la quotidianità. Così, alla notizia, che gli uomini non colgono subito perché distratti, che nel resto del Paese infuriano nuovi scontri, le donne, con un solo sguardo, decidono di muoversi immediatamente per nascondere agli uomini gli ultimi avvenimenti.
Per cercare di distogliere mariti e fi gli dal desiderio di trasformare i pregiudizi in violenza, non tralasciano alcun mezzo in questa loro missione, ivi compreso far piangere sangue a una statua della Madonna o far arrivare in paese delle ballerine da avanspettacolo dell’Europa dell’Est affinché i maschi siano attratti da loro più che dal ricorso alle armi. Oppure guastando l’unico televisore funzionante, bruciando i giornali, e perfino, in una delle scene più divertenti del film, sempre al ritmo di una canzone coinvolgente, cucinando tutte insieme leccornie intrise di hashish.
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Ma la tragedia è sempre dietro l’angolo in un paese dove le armi, anche senza motivo, mietono vittime innocenti: così ogni tentativo di pacificazione sembra ormai inutile, perfino la bugia di una madre in lutto non può più nulla.
Il viaggio verso la pacificazione è impervio come il sentiero per raggiungere il paese. Troppo forti le pressioni esterne, i condizionamenti, e alle donne rimane un’ultima soluzione — da non svelare qui — che va perfino contro le proprie tradizioni, per sollecitare l’ultima reazione umana dei propri figli che infatti ne risulteranno spiazzati.
Da notare che la regista sceglie di fare del prete e dell’imam gli unici due uomini al fianco delle donne: alleati perfino nelle bugie e nell’architettare trovate per far desistere gli uomini dalla stupidità della violenza che rischia di dilaniare il villaggio.
La speranza necessaria
Nadine Labaki lascia la città dove aveva ambientato il suo primo film, per tornare ad affrontare con stile diverso ma con intatta (se non addirittura maggiore) efficacia il tema che sembra maggiormente starle a cuore: la convivenza tra esseri umani che professano una religione diversa. In questo film, Labaki varia dalla commedia al dramma non negandosi neppure sprazzi di musical. Questo però non va a detrimento dell’unitarietà di un film che proprio nel variare dei toni trova la cifra stilistica su cui intessere un elogio alla saggezza delle donne non presentate però manicheisticamente come “migliori”. Hanno i loro cedimenti, le loro rivalità, le loro invidie ma sanno però, ogni volta, ritrovare quella ragionevolezza che gli uomini sembrano sempre pronti a perdere cedendo a provocazioni spesso infantili.
L’opera della Labaki riesce con maestria a trattare un tema purtroppo sempre attuale come quello dell’integralismo religioso, facendolo con delicatezza, humor e quel tatto straordinariamente femminile che ormai contraddistingue il suo cinema. Nadine Labaki non solo dirige ma interpreta, ancora una volta, la protagonista principale di questa autentica favola moderna, tanto surreale quanto sublime, capace di emozionare, commuovere e far ridere, grazie ad una sceneggiatura che è un concentrato di trovate, legate tra di loro da un’unica ferrea volontà: smascherare l’odio (religioso, di razza, sessuale o anche solo generazionale) attraverso la fraternità e l’uguaglianza.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 1, Marzo 2016