
(di Stefania Giorgi)
Se l’astronauta John Glenn ha orbitato intorno alla Terra e Neil Armstrong è stato il primo uomo a camminare sulla Luna, parte del merito va anche alle scienziate della Nasa che, a cominciare dagli anni Quaranta, armate di matita, regolo e addizionatrice, elaborarono i calcoli matematici che avrebbero permesso a razzi e astronauti di partire alla conquista dello spazio. Tra loro c’era un gruppo di donne afroamericane di eccezionale talento cui si presentò l’occasione di ottenere un lavoro all’altezza della loro preparazione e che diedero un contributo determinante, nonostante le leggi sulla segregazione razziale imponessero loro restrizioni e umiliazioni, per raggiungere l’obiettivo a cui l’America aspirava: battere l’Unione Sovietica nella corsa allo spazio e riportare una vittoria decisiva nella guerra fredda. Il diritto di contare racconta per la prima volta le loro storie.
La storia dietro al film
A soli 14 anni Katherine Goble, una ragazza afro–americana di un’anonima cittadina del sud degli Stati Uniti, accede al West Virginia Black College dove si laurea nel 1937, non ancora diciannovenne, in matematica e francese. Nel 1939 è la prima donna afro–americana a frequentare i corsi di specializzazione in matematica della West Virginia University, fino all’anno prima aperti ai soli studenti bianchi. Vorrebbe dedicarsi alla ricerca, ma in quegli anni l’unica prospettiva possibile per una donna come lei è l’insegnamento. Così Katherine lavora per anni in una scuola per soli neri finché, nel 1952, viene a sapere che il National Advisory Committee for Aeronautics (NACA), ente federale americano nato per promuovere la ricerca aeronautica, precursore della NASA, è in cerca di donne afro–americane con competenze matematiche da assumere presso la West Area Computing Unit, sezione distaccata del Langley Research Center di Hampton, in Virginia.
Già negli anni Quaranta l’industria americana aveva aperto i battenti alle donne per la necessità di occupare i posti di lavoro lasciati scoperti dagli uomini, che dovevano partire per la guerra sul fronte europeo. Ma negli anni Cinquanta, a conflitto finito, oltre a rifiutarsi di tornare ai lavori domestici, le donne avevano cominciato a conquistare sempre più spazio nei settori più diversi. Tranne che nel Sud.
Aperta alle sole donne di colore, la West Area Computing Unit funzionava secondo le disposizioni delle cosiddette leggi Jim Crow, norme emanate dai singoli Stati con lo scopo di tenere in vita la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici. “Separati ma uguali”, era questo il principio secondo cui bagni, biblioteche, autobus e uffici per neri erano tenuti separati da quelli per bianchi, così come le posizioni lavorative nei posti più prestigiosi o in ruoli di decisione.
Le donne in servizio presso la West Area Computing Unit lavoravano come colored computers, ovvero “calcolatori umani di colore”, e si trovavano al livello più basso della gerarchia del Langley Center. Il loro compito era quello di verificare e validare — a mano o con l’ausilio di semplici calcolatrici — i complessi calcoli elaborati nelle altre strutture del centro di ricerca. Così, nel 1953, la brillante matematica Katherine Johnson inizia a lavorare come colored computer.
Katherine conosce due donne altrettanto brillanti, con una storia personale simile alla sua (laurea col massimo dei voti, insegnamento, assunzione da parte del NACA): Dorothy Vaughan, matematica originaria del Missouri, e Mary Jackson, laureata in fisica e matematica ma appassionata di ingegneria. Le tre, assieme a decine di altre colored computers, lavorano dietro le quinte fino a quando — grazie a una serie di circostanze, ma soprattutto alla loro tenacia — riescono a far emergere le loro qualità, assumendo finalmente ruoli di primo piano.
Non più invisibili
Nel 1958 dalle ceneri del NACA nasce la National Aeronautics and Space Administration (NASA). Quell’anno tutte le strutture segregate, tra cui la West Area Computing Unit, vengono smantellate e Katherine inizia a lavorare presso il prestigioso Space Task Group, dove nel corso degli anni si occupa di calcolare le finestre di lancio, le traiettorie e i percorsi di ritorno di tantissimi voli spaziali, da quello di Alan Shepard — il primo astronauta americano nello spazio — sino agli Space Shuttle dei primi anni Ottanta, passando per la missione Apollo 11 del 1969.
Mentre il libro scritto sulle loro vite copre un periodo di trent’anni, il film è quasi interamente ambientato tra il 1961 e il 1962 e racconta parte della storia di queste tre donne (l’attenzione è focalizzata soprattutto sulla figura di Katherine Goble Johnson) attraverso la narrazione degli eventi che portarono al lancio in orbita di John Glenn, un passo fondamentale che servì a rilanciare il programma spaziale dopo lo smacco subito da parte dei russi che erano riusciti per primi a lanciare un uomo nello spazio con il cosmonauta Gagarin.
In quel momento l’America aveva bisogno di utilizzare ogni mezzo ed ogni risorsa disponibile per guadagnare la supremazia tecnologica, anche a dispetto delle leggi segregazioniste e del sessismo imperanti in quel periodo.
Certamente la Virginia e gli Stati Uniti di quegli anni erano ancora fortemente razzisti, ma all’interno della NASA c’era evidentemente senso pratico sufficiente per riconoscere le qualità di menti intelligenti, al di là del colore della pelle.
Nel film quindi i limiti e le umiliazioni subite alla NASA da parte delle donne, e da donne afro–americane, sono enfatizzati a beneficio della storia cinematografica, ma restituiscono fedelmente la fatica e la lotta quotidiane di quel periodo per potersi affermare come persone, e come professioniste.
Oltre alla separazione di ruoli, dipartimenti, trasporti, o bagni, ci furono poi anche altre sfide da affrontare. L’arrivo dei primi computer elettronici segnò una svolta nella carriera di Dorothy Vaughan.
Consapevole dell’importanza della tecnologia informatica, ma anche che i nuovi sistemi avrebbero scalzato tutto il lavoro manuale di calcolo, si mise a studiare il linguaggio di programmazione Fortran e lo insegnò alle sue colleghe diventando così leader e supervisore, cioè responsabile, di una piccola task force di programmatrici.
La sua lungimiranza le permise non solo di sopravvivere lavorativamente, ma di far avanzare tutto il settore.
Mary Jackson, dal canto suo, non poteva occuparsi di quello che più le interessava senza ottenere la qualifica di ingegnere, ma riuscì ad ottenere il permesso, da parte del comune di Hampton, di frequentare i corsi serali di matematica e fisica organizzati dalla University of Virginia presso una struttura riservata ai soli studenti bianchi e nel 1958 divenne il primo ingegnere aerospaziale afro–americano donna in forza alla NASA.
Un bellissimo riconoscimento Katherine Johnson lo ebbe nel 1962, quando John Glenn, poco prima di partire per il suo storico viaggio orbitale — non fidandosi dei calcoli realizzati dal computer IBM da poco in dotazione alla NASA — chiese proprio di lei per la verifica manuale di tutti i dati.
Talenti nascosti
Hidden figures è il titolo originale sia del film americano che del libro a cui si è ispirato: si tratta di un gioco di parole perchè in inglese figures significa sia “numeri” che “persone”, da cui quindi il doppio significato dell’espressione che alluderebbe ai calcoli matematici che “si nascondono” dietro ai successi di una missione spaziale, ma anche alle persone nascoste dietro a quegli eventi storici così importanti. L’autrice del libro, nella pagina dei ringraziamenti, spiega che forse l’aggettivo sarebbe ancora impreciso, perché le figure raccontate, più che “nascoste” sono state per lungo tempo proprio “non viste”: frammenti di storia, che hanno atteso con pazienza il momento opportuno, celati nelle note a piè di pagina, in aneddoti di famiglia e in vecchie cartelline polverose in qualche archivio, prima di tornare allo scoperto davanti ai nostri occhi.
Alcune libertà narrative del film nei confronti della verità storica sono comprensibili e aumentano l’impatto emotivo riuscendo a trasmettere la sofferenza e la tensione di decenni di segregazione. Sullo sfondo della seconda guerra mondiale, della lotta per i diritti civili e della corsa allo spazio, Il diritto di contare ci restituisce finalmente la giusta prospettiva sulla vita di alcune donne e del loro lavoro in anni durante i quali hanno affrontato sfide enormi e cambiato, insieme alle proprie esistenze, anche il futuro del loro Paese.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 2, Giugno 2017