(di Stefania Giorgi)

Una nota legge del cinema recita che da un bel romanzo si ricava un brutto film, e viceversa. Il Riccio, film francese del 2009, sembra rappresentare quindi un’eccezione, visto che, stavolta, da un libro di successo, e un tantino sopravvalutato, è uscito un film che, inaspettatamente, e con grande risentimento dell’autrice, lo sorpassa.

La noia di vivere

Parigi, rue de Grenelle numero 7. Un elegante palazzo abitato da famiglie dell’alta borghesia. Dalla sua guardiola assiste allo scorrere di questa vita di lussuosa vacuità la portinaia Renée, che, all’insaputa di tutti, è una coltissima autodidatta che adora la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica, la cultura giapponese. Tutti nel palazzo ignorano le sue raffinate conoscenze, ma non solo perché non riescono a guardare al di là del proprio naso, ma anche perché la solitaria concierge fa di tutto per nasconderlo, rifugiandosi dietro uno stereotipo: figlia di nessuno, senza bellezza né attrattiva, senza savoir faire, ambizione o splendore, trascurata e scorbutica, con la televisione sempre accesa e la compagnia di un gatto sonnolento. Renée si comporta volutamente da persona ignorante e sciatta, finge perfino errori grammaticali e dimenticanze pur di non rivelare la sua vera natura e le passioni che coltiva nel suo “nascondiglio”. È lei il riccio del titolo, ispida e puntuta all’esterno quanto terribilmente elegante nell’anima.

Poi c’è Paloma, ragazzina dodicenne che nasconde una sofferenza inascoltata tale da farle pensare che la soluzione più logica sia progettare lucidamente il proprio suicidio. Figlia di un ministro che vive nel palazzo insieme alla sua famiglia, Paloma, geniale e un po’ pedante, ha deciso di farla finita, a partire dall’osservazione degli adulti che le stanno intorno: il padre assente, la madre svagata e conformista, una sorella antipatica e immatura. Non riesce a cogliere una direzione, un senso e dispera del proprio destino, tirando le ovvie conseguenze dall’analisi del mondo che conosce: «Malgrado tutta questa fortuna e tutta questa ricchezza… So che la destinazione finale è la boccia dei pesci, un mondo in cui gli adulti passano il tempo a cozzare come mosche contro lo stesso vetro. Ma una cosa è certa, io nella boccia non ci vado!».

Mentre pianifica il gesto estremo, rubando ogni giorno una pastiglia di antidepressivi alla madre, continua a fingere di essere una ragazzina mediocre come tutte le altre, videocamera in spalla per registrare la vita che le ruota intorno. Due personaggi in incognito, quindi, diversi eppure accomunati da ferite negate. Due vite nascoste da una maschera per difendersi dalla sofferenza, alla ricerca di un piccolo piacere, come quello della lettura, che però non esaurisce l’orizzonte infinito che abita nel profondo. Due personalità che cercano di emanciparsi dagli stereotipi, dai pregiudizi e dagli schemi della società, ma che finiscono per imprigionarsi da sole per la paura di vivere e di rischiare il cuore.

Relazioni che guariscono

L’arrivo del giapponese monsieur Ozu, il nuovo benestante inquilino del palazzo, intellettuale e gentilissimo, cambia le carte in tavola e smaschera piano piano entrambe le protagoniste.

Saggio e profondo, come solo gli orientali sanno esserlo (ma non è forse uno stereotipo anche questo?), Kakuro Ozu riconosce immediatamente sia il malessere della giovane e la sua disperata ricerca di senso («voglio inseguire le stelle, non finire come un pesce in una boccia»), sia la preziosità della mente e della sensibilità della portinaia, celata dietro una vita apparentemente anonima e incolore. Il rapporto tra Kakuro e Renée in particolare è come il lento sbocciare di un fiore: lui la “vede”, nonostante gli sforzi della donna di rimanere invisibile al mondo. Ma non basta. Monsieur Ozu chiede a Renée che “esca” dal suo rifugio, dal suo nascondiglio. E così basta salire le scale di un pianerottolo per aprirsi di nuovo al mondo e accettare di donare se stessi a qualcuno.

Si forma così una triplice alleanza fra una ragazzina incompresa, una donna di mezza età isolata nel suo mondo segreto e un anziano giapponese sofisticato e delicatissimo: tre emarginati, ognuno per i propri motivi, che scoprono l’eleganza del riccio, laddove l’animale ispido e solitario è ovviamente Renée, ma anche gli altri due, che si muovono nel mondo come outsider, faticano a trovare spiriti affini.

Dal loro incontro nascerà un nuovo desiderio, per tutti e tre, di vivere la vita al massimo, facendo abbandonare i progetti di suicidio all’inquieta ragazzina e schiudendo nuove possibilità alla ruvida portinaia. Anche se il destino è dietro l’angolo per cambiare ancora una volta le carte in tavola.

Pronti ad amare

La storia de Il riccio si sviluppa sul grande schermo con una lentezza studiata, quasi orientale, e grande attenzione viene data alla composizione dell’immagine. La scelta dell’attrice, Josiane Balasko, nei panni della portinaia Renée è azzeccatissima: presta la sua fisicità goffa e impacciata a questa donna che sa dire solo la verità, ma costruisce un’esistenza posticcia, nascondendosi dietro alle aspettative stereotipate degli altri. All’attrice bastano un mezzo sorriso o uno sguardo o una lieve esitazione di tono per schiudere allo spettatore i mondi segreti di sogni e idee e bellezza che al lettore erano raccontati in decine di pagine, spesso pesanti e inutilmente snob per colpa delle innumerevoli citazioni e per l’atmosfera di superiorità che rendevano antipatico il personaggio.

La regista, pur discostandosi dal libro, ne mantiene l’essenza facendo riflettere lo spettatore sui numerosi temi che ruotano intorno alle apparenze, alla morsa dei pregiudizi, alla ricerca dell’autenticità e della felicità, cogliendo probabilmente il messaggio più importante: quello della condivisione che guarisce e apre gli occhi sul senso dell’esistenza.

Non si trova pienamente se stessi se non si è in relazione.

Ogni istante può essere  perduto finché non si è pronti ad amare.

 

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 4, Dicembre 2016