
Silence
(di Stefania Giorgi)
Ci sono film che restano come un’eco e continuano ad interrogarci. Per quello che dicono e per come lo fanno. Senza essere perfetti riescono però a portarci vicino a domande e riflessioni che non pensavamo di porci, e oltre le stesse intenzioni degli autori e degli interpreti, spalancano orizzonti nuovi alla nostra vita interiore. Silence, tra pregi e difetti, ci costringe a mettere in discussione molti temi che riguardano la nostra fede e la nostra testimonianza nel mondo.
Provaci ancora Martin
Accolto tra America ed Europa da numerose recensioni poco generose, appena velate da reverenti quanto ipocriti omaggi alla “sapienza e maestria registica di Scorsese”, un totem, uno di cui non si può dir male essendo tra gli autori massimi, è il film più sottostimato da parecchio tempo in qua, il più incompreso, il peggio sopportato da pubblico e addetti ai lavori. Ha attirato su di sé gli strali di teologi e fedeli e allo stesso tempo è stato celebrato dalla rivista dei gesuiti, la Civiltà cattolica, con un’intervista di 23 pagine al regista.
Il fatto è che questo volutamente inattuale, fortemente in controtendenza e controtempo, dunque coraggiosissimo Silence, è un sasso, anzi un macigno buttato nelle acque stagnanti dell’anticristianesimo ormai di massa, egemone in tutto l’Occidente, con un Martin Scorsese che osa parlare di martirio e sacrificio in nome della fede in un tempo e in un luogo — i nostri — dove la subcultura del narcisismo e della soddisfazione istantanea, insieme all’idolatria dell’Io, hanno fatto terra bruciata.
Un film, oggi, adesso, qui, sulla persecuzione dei cristiani nel Giappone del Seicento, e sulla resistenza davvero, e oltre ogni retorica, eroica di comunità clandestine, catacombali, e sul martirio di preti occidentali e fedeli locali. E anche su chi non ce l’ha fatta e ha tradito, abiurato, rinunciato. Martin Scorsese si mette al servizio di una storia necessaria, solo apparentemente inattuale, per far riesplodere le vere domande di senso anche nel nostro mondo ormai secolarizzato, ma mai così religiosamente polarizzato.
Una storia dimenticata
Scorsese se lo portava dentro, il progetto, da quasi trent’anni, da quando in seguito alle polemiche su L’ultima tentazione di Cristo si vide regalare dall’arcivescovo americano Paul Moore Silence, libro del giapponese (di religione cattolica) Shūsaku Endō sulla missione, verissima, dei Gesuiti nel Giappone del Seicento e sulla terribile repressione del periodo Edo delle molte comunità cristiane — trecentomila convertiti — sorte da quando Francesco Saverio aveva messo piede, e portato la croce, nel Paese. Romanzo uscito nel 1966 e diventato allora un caso, in patria e fuori, riportando alla luce, e alla gloria, un pezzo di storia silenziata, una storia che trasuda inquietudine e dubbio ad ogni riga.
Riportando brevemente la trama, dobbiamo anche doverosamente premettere che non potremo riflettere e commentare la vicenda senza svelare praticamente tutto, e soprattutto il finale della storia, snodo importantissimo di molte questioni.
Due giovani gesuiti portoghesi, padre Sebastiao Rodrigues e padre Francisco Garupe, chiedono di essere incaricati di una speciale missione, quella di raccogliere notizie e, se possibile, di ritrovare un altro gesuita, padre Ferreira, scomparso in Giappone durante la sua opera di apostolato. Le voci dicono che abbia abiurato e sia passato dalla parte dei massacratori di cristiani.
Ma i due sacerdoti non possono accettare l’idea che il loro maestro abbia tradito, e dunque insistono per poterlo andare a cercare, imbarcandosi in un viaggio pericolosissimo e quasi certamente destinato al fallimento.
L’ambizione di tracciare un poderoso affresco storico non è più cosa, purtroppo, del cinema di oggi perché manca un pubblico consapevole o anche solo curioso del passato, e si è perso ogni interesse per contesti storici inconsueti che richiedano un sia pur minimo sforzo di comprensione e informazione. Silence ha il respiro di quel cinema grande, da godersi su grandissimo schermo, un cinema di grandi visioni, orgoglioso della propria forza e del proprio potere di seduzione. Ma c’è dell’altro, c’è quello che racconta. Un’epopea di repressione e resistenza dove è richiesto di scegliere tra eroismo (e martirio) e tradimento, rinuncia alla fede, alla propria identità, al proprio essere. I due giovani gesuiti dovranno fare i conti con la ferocia di un Giappone che li vuole annientare, ma anche con la propria debolezza, con la continua tentazione di rinunciare, come forse ha fatto padre Ferreira. Dramma storico che si fa dramma intimo, fino alla lacerazione delle coscienze, delle anime e dei corpi.
Chi ci salva?
Dopo essere sbarcati clandestini sulle coste del Giappone, i due padres vengono protetti dalle piccole comunità dei cristiani che, per sopravvivere alla persecuzione, si son dovute mascherare, entrare in clandestinità (kakure kirishitan, letteralmente cristiani nascosti). Ma dopo il periodo quasi idilliaco in cui hanno l’occasione di conoscere la forza della fede dei semplici contadini, verrà il momento del dramma morale in cui dovranno confrontarsi con lo spietatissimo quanto insinuante e paziente inquisitore che, in nome dell’integrità del suo Paese e del “compassionevole” Buddismo, stana con ogni mezzo i fedeli di Cristo sottoponendoli a inenarrabili supplizi. Mascherata da pura formalità, si chiede ai fedeli l’abiura, espressa calpestando pubblicamente una raffigurazione, un’icona di rame scolpito, del Crocifisso o della Madre con il Bambino chiamata Fumi–e.
Tutto ruota però attorno alla lotta interiore di Padre Rodrigues che, separato dal confratello, combatte una vera battaglia spirituale nel dover discernere tra la propria voce, la propria vocazione e la voce del mondo, la voce del maligno e la voce di Dio. La tortura a lui riservata è uno scaltrissimo gioco psicologico in cui l’inquisitore (insieme al suo interprete) si serve di tutti i mezzi per piegare la volontà del giovane gesuita: violenza, senso di colpa, menzogne, ma anche argomentazioni filosofiche e politiche, mescolando sempre finto rispetto e improvvisa brutalità.
L’esperienza da persecutore del colto giapponese sa quali tasti spingere per far cadere Rodrigues, usando le sue stesse debolezze: la pretesa di chiedere a Dio una prova della Sua presenza nella storia, e la tentazione di credere di poter salvare i propri amici, quando sappiamo che il loro e il nostro destino è comunque nelle mani di un Altro.
Ed ecco portato allo scoperto il dilemma di ogni missionario, di ogni cristiano che vuole portare Cristo al mondo: che senso ha il martirio, di qualsiasi tipo esso sia, quando mette in pericolo la vita degli altri? E sarebbe meglio abiurare continuando a credere, ma nascostamente nel proprio intimo, o testimoniare pubblicamente la fede a costo della propria vita e della vita degli altri?
Il buon padre Sebastiao Rodrigues, come ognuno di noi, di fronte ai fatti terribili che gli tocca vedere e attraversare, si chiede dove sia Dio, perché non intervenga a salvare chi crede in Lui e per Lui muore. Sarebbe questo il “silenzio” di Dio del titolo. È il mistero e lo scandalo del male, il dilemma intorno alla bontà e all’onnipotenza del Creatore.
Ma il silenzio è anche, specularmente, quello dei fedeli, dei credenti, degli sgangherati uomini di Dio che accettano, senza perdere la fede, la sofferenza e anche la più dolorosa delle morti. Torture, annegamenti, crocifissioni, Scorsese mette in scena un nuovo Golgota, devotamente rifatto tra le acque, con una incisività figurativa e una potenza drammatica che si imprimono nella testa e non se ne vanno più via.
La caduta
Per dare il colpo di grazia allo spirito tormentato del giovane gesuita, l’inquisitore gioca la carta finale dell’incontro con il vecchio maestro, Padre Ferreira in persona, che si rivela, avendo davvero abiurato, un vero satana tentatore, intelligentissimo e bugiardo. L’accusa che questi gli rivolge è esplicita: se la gente muore è colpa tua, Dio non sta facendo nulla, ma tu puoi. Questi poveretti muoiono per te, e non per Lui, perché in realtà essi sono di un’altra cultura e mentalità e non possono comprendere davvero il Cristianesimo.
Qui sta il grande inganno, quello di far balenare al sacerdote la convinzione di essere egoista e di pensare solo a se stesso per un principio, per testimoniare un Dio che nemmeno si manifesta. Ferreira afferma che sarebbe a causa dell’orgoglio dei missionari che i cristiani vengono uccisi.
Gli sussurra: «Tu ora compirai l’atto d’amore più penoso che mai sia stato compiuto».
Ed ecco che, davanti all’icona da calpestare, Rodriguez crede perfino di sentire la voce di Gesù che gli dice: «Calpesta! Più di chiunque io so quanto dolorante sia il tuo piede. Calpesta! Per essere calpestato sono venuto in questo mondo. Per condividere il dolore degli uomini io ho portato la croce».
Il piede si appoggia sull’immagine. Spunta l’alba. In lontananza il gallo canta.
Certi del Paradiso
Ma non può essere Gesù a chiederci di rinnegarLo. È la menzogna del tentatore che vuole farci credere di potere essere noi i salvatori, gli unici responsabili. Sì, Cristo, nella Passione, si è lasciato calpestare, insultare, schernire, fustigare, inchiodare per portare su di sé i nostri peccati, ma vuole che Lo testimoniamo e Lo amiamo, anche a costo della sofferenza e della morte. E da quella croce è Risorto per donarci la salvezza che va al di là di qualsiasi sofferenza patita in vita.
Rodriguez è stato ingannato e non ha avuto completa fiducia in Colui che salva le nostre anime. È un apostata che soffre, che ama ancora teneramente (e segretamente) il Cristo, ma che, rinunciando ad una vita da cristiano, ne ottiene una vita svuotata.
Nel film, e nel libro, il suo gesto ha un sapore molto nobile, ma i veri testimoni di Cristo sono i contadini, come Mokichi che muore cantando affogato in croce, certo del Paradiso che lo attende.
Se non esiste qualcosa di più grande della vita e della morte, qualcosa per cui vale la pena soffrire e morire, allora perché vivere la croce?
Quel salmo, cantato tra i tormenti, rappresenta il fatto che, come è avvenuto con i molti martiri e santi della Chiesa, la fede in Cristo è capace di dare una gioia che va aldilà della sofferenza fisica e morale, e che, se davvero ci credessimo, non la rinnegheremmo per niente al mondo.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 1, Aprile 2017