(di Stefania Giorgi)

Il 27 Giugno 2016 si è spento a Roma Carlo Pedersoli, da tutti conosciuto con il suo nome d’arte Bud Spencer. In coppia con Terence Hill (Mario Girotti), ha regalato al cinema e a intere generazioni momenti di avventurosa comicità e commozione. Una vita intensa ma solidamente ancorata ai valori cristiani.

Un Bulldozer in piscina

Noi lo abbiamo conosciuto solo con la barba, ma Bud Spencer (un omaggio alla sua birra preferita, la Budweiser, e all’attore che ammirava, Spencer Tracy), prima di diventare il ladro di mandrie più buono del West, era semplicemente Carlo Pedersoli. Ma forse non così semplicemente. Perché Carlo è stato un bambino e un giovane di grandi desideri, grandi capacità, grandi opportunità.

Sei chili di bambino alla nascita, tanto per non smentire quella che poi è diventata una stazza leggendaria e che gli ha meritato l’appellativo di “gigante buono”. Il suo fisico incredibile, in gioventù gli ha permesso di diventare a soli 13 anni campione italiano dei cento metri rana, per poi proseguire in una carriera sportiva sbalorditiva: due Olimpiadi, tre campionati d’Europa, tre Giochi del Mediterraneo. Nel 1950 è il primo italiano a scendere sotto il minuto. E nel frattempo si iscrive anche alla facoltà di Chimica a soli 17 anni. Carlo però non è esattamente un atleta disciplinato e ambizioso, resta piuttosto un ragazzo che si gode parecchio la vita: «Non solo fumavo, ma mi ero stabilito come regola che fare all’amore prima della gara mi aiutava e, aggiungendo la beffa all’insulto, non di rado mi presentavo in piscina con la sigaretta accesa».

Poi però incontra Maria, una morettina «bella quanto mingherlina. In lei c’era e c’è qualcosa di cui non mi posso privare». È la figlia di Giuseppe Amato, uno dei più grandi produttori di cinema italiani (Ladri di biciclette, La dolce vita). Nonostante il fascino eclettico del Bud che vince medaglie alle Olimpiadi di nuoto, che studia chimica all’università (e che poi si laurea in giurisprudenza), che scrive canzoni per Ornella Vanoni, che firma documentari per la Rai e infine diventa uno degli attori più amati del cinema (non solo) italiano, nulla l’ha mai distolto dalla sua Maria. «Non sono mai andato nemmeno a prendere un caffè con un’attrice — confessava nel 2015 in un’intervista al Corriere della Sera —. Si può sbagliare, ma quando ti rendi conto che chi ti sta a fianco ti riempie la vita, allora la devi rispettare». È stata sua moglie per 56 anni e la madre dei  suoi tre figli.

Sullo schermo per caso

«La vita scrive definitivamente delle pagine inattese e delle storie incredibili. Io devo certamente considerarmi molto fortunato e in qualche modo una persona benedetta. La vita è stata molto generosa con me!». Per Carlo Pedersoli, nonostante il suocero produttore, il cinema non è la prima scelta, ma lo diventa per necessità di soldi. Con diverse cambiali da pagare e una famiglia da mantenere, Carlo accetta di partecipare a Dio perdona… io no! del 1967, dove compare insieme allo sconosciuto Mario Girotti. Pensa che sia la prima ed ultima volta che recita. Non sarà così.

Il successo arriva con il geniale Lo chiamavano Trinità, regia di E.B. Clucher — al secolo Enzo Barboni — che inaugura il filone aurifero degli spaghetti– western, parodia di un genere che aveva conosciuto grandi fasti con grandi registi, ma che era ormai in declino.

Il sequel, … continuavano a chiamarlo Trinità (1971), è campione d’incassi di quell’anno e nella top 15 dei film che hanno incassato di più in Italia. Bud Spencer e Terence Hill sono una coppia d’oro che fa sorridere grandi e piccini. Banale scriverlo, ma questo li fa diventare non solo popolari, ma letteralmente figure archetipiche di un cinema d’intrattenimento, tanto popolare quanto ben scritto e contestualizzato sempre in scenari differenti, magari esotici, fermo un passo prima che la baracconata diventi puro kitsch.

Negli anni i due interpretano altri personaggi, spesso da soli, ma l’alchimia si sprigiona solo assieme. Ecco allora, tra il 1972 e il 1974 i tre film che consacrano il duo: Più forte ragazzi, Altrimenti ci arrabbiamo (è qui che i due attori si giocano la Dune Buggy a birra e salsicce posando gli stecchini colorati sul tavolo per  contare chi ne accumula di più), e Porgi l’altra guancia, senza dimenticare, tra il 1977 e il 1979, gli altre tre  memorabili successi: I due superpiedi quasi piatti, Pari e dispari, e Io sto con gli ippopotami.

Il pugno dall’alto al basso come una martellata sulla testa delle comparse, la manona che si allarga aperta sul viso per lamentarsi delle malefatte di Terence Hill, il “bo bobobo” cantato tra le fila di un folle coro durante un inseguimento. Queste sono tra le scene ormai indelebili che tutti ricordano.

«Non eravamo dei comici, ma facevamo ridere», ha sempre spiegato così il segreto del suo, anzi del loro, successo Pedersoli. Terence il furbo, Bud il forte. Hill il “combina guai” con il sorriso e gli occhi azzurri che fulminano le signorine; Spencer che rimette le cose a posto a suon di sberloni. Non si scherza con quei due. Anche se loro scherzano molto con tutti e poi li riempiono di botte.

Il ricordo di Don Camillo non è molto lontano, un altro grande successo della commedia italiana che è andato di traverso a molti critici. Anche il nostro duo non ha mai ricevuto il giusto riconoscimento e questo lascerà un po’ di amarezza in Bud: «In Italia io e Terence Hill semplicemente non esistiamo, nonostante la grande popolarità che abbiamo anche oggi tra i bambini e i più giovani. Non ci hanno mai dato un premio, non ci invitano neppure ai festival».

A noi spettatori resta la certezza di un percorso professionale costruito con modestia («nel cinema a volte può sfondare pure una scimmia: basta ripetere la scena finché non riesce»; «quanti vocaboli poteva conoscere un pistolero? 20, 25») e nel nome dell’amore per il pubblico, anche rifiutando parti non appropriate all’immagine e ai valori che voleva trasmettere. Anche nel sodalizio con il compagno di una vita, è il rispetto profondissimo quello che emerge, e non l’individualismo che ci si aspetterebbe frequentando l’ambiente del cinema all’epoca della Hollywood sul Tevere: «Terence preparava meticolosamente le riprese quotidiane e il suo personaggio, studiava la sceneggiatura fino a tarda notte e spesso invece di cenare assieme al gruppo di lavoro, rimaneva nella sua stanza a studiare come migliorare e perfezionare il programma del giorno successivo. Per mio conto sono certo di non aver mai saltato una cena, ero molto più pigro nel preparare le scene e siccome non avevo mai studiato recitazione, cercavo di esprimere il mio istinto e, sia il mio passato da atleta sia le mie caratteristiche fisiche, mi hanno aiutato molto. Essendo così differenti non abbiamo provato gelosia e men che meno invidia l’uno per l’altro. Al contrario c’era sempre grande rispetto tra di noi. Eravamo entrambi molto gelosi della nostra vita privata e il successo non ha mai corrotto il nostro modo di pensare né il nostro comportamento. […] I ruoli sembravano tagliati su di noi ed Enzo [n.d.r. il regista] era così generoso da accettare anche le nostre idee per migliorare le scene. Il nostro West era una valle fantastica tra le montagne del Centro Italia e anche se il budget di produzione era piuttosto basso, eravamo tutti motivati a fare un buon lavoro. Negli intermezzi delle riprese, giocavamo a calcio e mangiavamo tutti assieme in un’atmosfera rilassata. Ci siamo davvero divertiti». E noi con loro.

Suo figlio Giuseppe, nell’annunciare la morte del padre, ha detto che la sua ultima parola è stata “grazie”.  Un’ultima, geniale battuta di un attore per caso.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 3,  Settembre 2016