La sfida della libertà tra paura e responsabilità
In dialogo con Mauro Magatti e Chiara Giaccardi (Brescia, 9 settembre 2020)
(Commento e sintesi a cura di Massimo Gelmini)

La libertà è un’acrobazia. Questa metafora, nata da un’intuizione sviluppata da Mauro Magatti in Non avere paura di cadere – La libertà al tempo dell’insicurezza (Mondadori, 2019), ha ispirato il titolo di un incontro sul tema della libertà, con la moderazione di Massimo Lanzini, tenutosi a Brescia il 9 settembre scorso, nel Salone Vanvitelliano di Palazzo Loggia, e organizzato da Punto Missione, Baule della Solidarietà, Scuola Madonna della Neve, Movimento Ecclesiale Carmelitano e Ufficio della Pastorale Sociale della Diocesi di Brescia.
«Essere liberi significa sapere che siamo degli acrobati in movimento su una corda tesa, funamboli della vita dove è sempre facile cadere». La libertà è un’avventura eccitante e complicata: ha a che fare con lo slancio ideale, la passione, la determinazione, il coraggio, la perseveranza, ma non può sussistere ed essere veramente autentica se non si sperimenta la fatica, il sacrificio, la percezione del proprio limite, la possibilità concreta di cadere, di fallire. Essa è una condizione precaria, come l’equilibrio dell’acrobata, «il solo mezzo attraverso il quale raggiungere l’altro capo di una fune che la paura rende invece esasperatamente lunga, instabile, impervia».
Mai come in questo tempo di incertezza e precarietà, sospeso nell’evolversi di una pandemia che ha sconvolto le vite di molti, facendoci sentire tutti un po’ più vulnerabili e insicuri, appare così evidente questa caratteristica della libertà che, lungi dall’essere una condizione permanente, uno stato acquisito e un “possesso” individuale, consiste piuttosto in una sfida sempre nuova, un equilibrio difficile, un’attitudine che cresce solo se immersa in una condivisione.
Ma la metafora dell’acrobata non raffigura solo questa tensione permanente della libertà con l’insicurezza. Il gesto acrobatico rimanda ad una dimensione dinamica, ad un movimento composto da una partenza, un controllo, un’evoluzione e un abbandono verso una chiusura, che presuppone una profonda fiducia nell’altro, come nel numero di un trapezista che al culmine della parabola ascendente lascia la presa «consegnandosi alla sospensione del vuoto […] nella convinzione che troverà ad attenderlo al termine della sua esecuzione le braccia tese del suo compagno, in bilico su un altro trapezio, ad afferrarlo».
Sollecitati dalla domanda su quale libertà sia possibile oggi, nel perdurare della crisi pandemica, tra paura e responsabilità, i due relatori si sono alternati riflettendo sulla banale, cattiva narrazione della “ripartenza”, sulla necessità di riformulare in modo vitale le fasi critiche, sulle opportunità ma anche sui rischi legati alla digitalizzazione, sulla specificità della dinamica generativa che non esclude la rinuncia e la perdita ma le rielabora dischiudendone tutto lo slancio vitale e il potenziale di rigenerazione. Argomenti, questi, che Giaccardi e Magatti hanno recentemente affrontato nel saggio Nella fine è l’inizio – In che mondo vivremo (Il Mulino, 2020), un libro nella pandemia e sulla pandemia in cui non vengono date soluzioni per il futuro, ma dove, a partire dall’esposizione dei temi cruciali della contemporaneità che l’emergenza attuale ha portato in superficie, affiora la strada di un nuovo modello sociale e personale, tutto da inventare, in cui le parole chiave sono interconnessione, reciprocità, cura e responsività.
Questa pandemia è un portato della globalizzazione. Che relazione c’è tra il superamento delle distanze conseguito in campo tecnologico e in ambito economico e la rapida diffusione di questo morbo, la geografia del suo contagio? Qual è la chiave di lettura di questo fenomeno che sta sconvolgendo il mondo intero da mesi? Ci può aiutare ad inquadrarlo e a comprenderne le implicazioni?
Mauro Magatti (M): Ci troviamo nel mezzo di eventi tanto nuovi e sconvolgenti, di fronte ai quali nessuno ha una chiave di lettura risolutiva: ancora stiamo cercando di capire cosa ci sia successo e in che direzione muoversi per andare avanti. Osservando le reazioni prevalenti alla pandemia, direi che esistano due “negazionismi”. C’è il negazionismo di chi dice che il virus non c’è e che è tutta un’invenzione, che ci sono poteri occulti che ci vogliono dominare. Si tratta di pensieri esagerati e strampalati, per quanto non del tutto scollegati da una domanda di fondo, che è vera: come inciderà sulla libertà la vicenda che stiamo vivendo? Quali effetti avrà sul tema della sicurezza?
Ci sono poi i negazionisti della ripartenza, coloro che dicono: «Dobbiamo ripartire, c’è stato un piccolo deragliamento, rimettiamo il treno sui binari e ricominciamo». È questa una modalità altrettanto grave di negazionismo, perché non riconosce la rilevanza e la straordinarietà di quanto accaduto.
Contrariamente a quanto molti di costoro sostengono, l’emergenza Covid-19 del 2020 rappresenta innegabilmente il terzo choc globale della società della globalizzazione, seguito all’11 settembre — uno choc legato al rapporto tra le culture che sono state investite da questo processo di globalizzazione — e alla crisi finanziaria nel 2008. Le pandemie ci sono sempre state nella storia (la Spagnola fu peggiore in termini di perdite), ma quest’ultima ha avuto una velocità di diffusione senza precedenti, e una genesi ed un’evoluzione di cui si sta ampiamente discutendo, indagando il nesso tra i cambiamenti dell’ecosistema e alcune pratiche associabili alla globalizzazione e al modello di sviluppo del mondo attuale.
Ciò di cui sono certo — lo abbiamo scritto negli ultimi libri — è che dalle crisi si esce o migliori o peggiori. Non ci sono vie intermedie, né si può far finta di nulla. Non è pensabile né possibile ripristinare la situazione precedente, nel caso specifico tornare al gennaio scorso. Come in tutti i grandi processi di trasformazione, siamo di fronte ad un bivio e ad un’opportunità: da un lato prefigurare l’esito peggiore (qualcosa di analogo — con tutte le distinzioni — al dopoguerra negli anni Venti del secolo scorso, una fase complicata, con problemi sociali, malcontento diffuso, nascita di ideologie violente, cataclismi politici…) oppure tentare di essere migliori e provare a mettere in discussione gli assetti economici, sociali, culturali nei quali viviamo, trarre insegnamento dall’esperienza del secondo dopoguerra quando, con tutti i limiti, si è riusciti a trovare un equilibrio più o meno decente tra la dimensione economica, la dimensione politica-istituzionale e quella dell’integrazione sociale.
Dobbiamo tutti partecipare ad una storia che si fa dentro i nostri occhi e con le nostre mani provando a pensare il futuro, a immaginare quali risposte possono venire dall’esperienza di questi mesi, quali nuovi modi di fare, di produrre, di organizzare la nostra vita politica.
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Chiara Giaccardi (G): I media hanno seguito due percorsi divergenti. Quelli tradizionali ci hanno travolto di informazioni molto caotiche, tanto che si è parlato di infodemia, per indicare una modalità di informare che non soltanto non aiuta a capire meglio le cose, ma confonde le idee. Si è registrata una grande sete di dati come se questi dati ci potessero aiutare a tenere la situazione sotto controllo, e nello stesso tempo si è verificato un grande caos informativo, eccedendo in una pratica comunicativa che ha favorito una sorta di contagio disinformativo. Allo stesso tempo c’è stato questo curioso fenomeno che ha un po’ invertito la normalità della nostra comunicazione. Eravamo abituati a condividere degli spazi senza relazione (contiguità senza prossimità): tutti assembrati nei locali, nei centri commerciali, in coda per i saldi… Improvvisamente ci siamo trovati nell’urgenza di costruire una prossimità senza contiguità, cioè nell’esigenza di utilizzare le piattaforme digitali per ricreare quel contatto che era precluso dal punto di vista fisico.
Forse è stata una lezione che può aiutare a superare quella visione dualistica e ad abbandonare la gabbia interpretativa secondo la quale le relazioni in presenza sarebbero autentiche e quelle digitali artificiali, fittizie, inautentiche. Come se non fossimo noi che comunichiamo, indipendentemente dal mezzo, e come se non si possa essere inautentici in presenza (continuando ad indossare le nostre maschere), così come possiamo essere sinceramente desiderosi, assetati di un autentico contatto, anche utilizzando e imparando ad abitare quei territori smaterializzati che sono le piattaforme digitali.
Ricordo episodi di malati di Covid-19 in isolamento in ospedale che chiedevano dei tablet per poter comunicare con i propri cari che erano impossibilitati a fare loro una visita. Qualcuno entrava in ospedale e non sapeva se sarebbe uscito, se avrebbe più potuto riabbracciare i propri familiari. Per costoro, la possibilità di entrare in contatto, condividere, sentire le voci, rivedere gli ambienti domestici, anche se a distanza, è stato un conforto enorme.
Prossimità vuol dire accompagnamento. Non significa costruire consenso o raccogliere like, ma costruire vicinanza anche nella distanza. Questo paradosso che abbiamo vissuto in condizioni di necessità, si è rivelato plausibile ed esistenzialmente significativo. E ciò che l’ha reso tale è stato il fatto che, per un lungo periodo, la morte ha fatto parte della vita in maniera non rimovibile. Questa pandemia, questa catastrofe globale, che è stata anche una catastrofe intima per ciascuno di noi, ci ha messo di fronte alla potenziale verità del nodo inestricabile tra la vita e la morte. Umberto Saba diceva: “Ed è il pensiero della morte che, infine, aiuta a vivere” (dalla poesia Sera di febbraio, ndr). Se non rimuoviamo il pensiero della morte e quindi non ci affasciniamo della nostra potenza e se non viviamo come se fossimo immortali, ma apprezziamo questa fragilità che ci costituisce, possiamo vivere in maniera più autentica. Non sono le piattaforme digitali che ci fanno essere artefatti e inautentici, ma la rimozione della morte.
Questa pandemia ha influito sulla nostra libertà, sul cui concetto siamo invitati a riflettere. In che misura è venuta meno in questi mesi la libertà personale e dove siamo stati costretti ad acquisire comportamenti nuovi?
M: L’essere umano ha nella libertà la sua dignità. Una delle ragioni fondamentali per cui ci si occupa degli altri, soprattutto di chi è in difficoltà, è perché la libertà di sé non può essere disgiunta dalla libertà dell’altro. Non si può pensare alla libertà come un affare individuale. La libertà è sempre una questione che ci riguarda insieme. È relazione, è il modo in cui noi abbiamo la facoltà di esercitare il nostro potere di sciogliere e di legare. La libertà è certamente possibilità di scegliere, ma non si limita alla scelta. È piuttosto poter scegliere e poter decidere che cosa mettere al mondo attraverso il nostro agire — come diceva H. Arendt —, mettere al mondo qualcosa di inedito e quindi stabilire relazioni, implicarsi per qualcosa e per qualcuno.
Questo concetto di libertà, nella società occidentale che è innegabilmente la società della libertà, è in difficoltà da molto tempo. Da più parti emergono spinte che possono prefigurare il rovesciamento della libertà nel suo opposto e l’instaurarsi di una condizione di “servitù volontaria”, secondo la definizione di Étienne de La Boétie, polemista francese del Seicento. La nostra società “libera” non è affatto immune dal rischio di rivolgimenti autocratici. Già prima della pandemia è circolato un libro di una studiosa americana che parla di capitalismo della sorveglianza (Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, ndr), nel quale si mette in guardia di fronte ad uno scenario in cui la digitalizzazione viene sfruttata per la costruzione di un nuovo ordine economico che, usando e regolando le esperienze umane sotto forma di dati e di “procedure”, finisce con il reprimere in modo soft, non tirannico, le libertà personali. Due ambiti particolarmente a rischio, per la pervasività e la pericolosità di questo metodo, sono quelli della sanità e della sostenibilità, perché in nome della difesa della salute e della salvaguardia del pianeta c’è il rischio di costruire un’architettura globale di sorveglianza e di controllo dei nostri comportamenti. Cogliere questo paradosso — emerso già nel secolo scorso nelle riflessioni di Schumpeter che, nel confronto con il regime sovietico, scorgeva dentro l’economia di mercato il germe del Grande Fratello — è una questione enorme per la nostra generazione e più ancora lo sarà per quella dei nostri figli. Da questo paradosso si esce solo mettendo al centro la persona invece dei sistemi, anche a costo di rinunciare ad un po’ di sicurezza.
La pandemia è stata una potente spinta alla digitalizzazione della nostra vita, in ambito lavorativo e sanitario, nei consumi. In America si è parlato di “Screen New Deal” con riferimento alla rivoluzione tecnologica che potrebbe imporre una trasformazione epocale in molti settori, dall’istruzione all’intrattenimento, attraverso la mediazione degli “schermi”. Non si tratta evidentemente di rifiutare la tecnologia, ma di preservare la costitutiva relazionalità della libertà cogliendo semmai nel progresso tecnologico un ausilio per ripensare le nostre imprese, le nostre città, le nostre famiglie, le nostre parrocchie, le nostre organizzazioni.
La libertà, si diceva, riguarda anche la disponibilità a mettere al mondo e la facoltà di generare. Essere generativi è una categoria che voi avete provato ad indagare ed è diventata anche il titolo di un libro. Cosa significa e cosa comporta essere generativi?
G: Hannah Arendt parlava di libertà radicata nella natalità in un duplice senso: nella nostra natalità personale, nel fatto di essere stati messi al mondo da altri, quindi avere ricevuto la vita come un dono non dovuto e quindi nell’avere, grazie a questo dono, la capacità di mettere al mondo non solo altri, ma anche altro. Generativi non sono solo e necessariamente coloro che possono generare biologicamente, ma tutti coloro che avendo ricevuto la vita sono in grado di trasmetterla, di rigenerare altri, di rimettere al mondo altri, di dare inizio a qualcosa che non c’era. Questa è un’idea potentissima di libertà come possibilità di mettere realmente al mondo qualcosa di nuovo. Non scegliere tra qualcosa che c’è già, ma introdurre nel mondo qualcosa che non c’era. Questo è possibile grazie al fatto che ciascuno di noi non è deducibile da ciò che lo ha prodotto (io non sono deducibile dalla mia storia, dalla storia della mia famiglia, da una serie di elementi che spiegano chi sono) ma esiste come singolarità irripetibile e irriducibile. Generare è l’atto di far nascere qualcosa nel mondo — quindi per altri, con altri — che cambia l’ambiente in cui viviamo. Perché l’individualismo si è dimostrato fallace? Perché abbiamo capito che l’infrastruttura della nostra esistenza è un’infrastruttura relazionale. E questo è risultato evidente proprio in questa pandemia: nella crisi, come in un mezzo di contrasto, si è manifestata chiaramente la rete che ci unisce.
Faccio spesso riferimento al paradosso dell’ombelico. Noi diciamo che guardarsi l’ombelico sia il massimo dell’autoreferenzialità. Invece se ci guardiamo l’ombelico vediamo un buco che ci rimanda a una presenza che ci ha accolto e ci ha consentito di esistere prima ancora di diventare individui. Noi siamo individui perché questa relazione ci ha accolto, ci ha fatto crescere e poi lasciati andare. Sono questi i movimenti della generatività: mettere al mondo, prendersi cura, lasciar andare. Siamo individui in quanto relazione. Le relazioni non sono un nostro prodotto, tanto meno un prodotto dei nostri contratti. Le relazioni non sono patti in cui mettiamo bene in chiaro quello che ci è dovuto, i tempi di recessione, ma piuttosto il riconoscimento di questo legame che comunque ci unisce gli uni agli altri e sul quale si radica il principio di responsabilità e di una libertà responsabile.
Responsabilità è una parola abusata e come tutte le parole abusate rischia di non significare più nulla, di diventare una piccola vernice ideologica per pratiche che in realtà vanno in tutt’altra direzione. Scrivendo Nella fine è l’inizio, ci siamo interrogati su quale altra parola potesse meglio significare la nostra capacità di rispondere al legame che ci unisce. Abbiamo utilizzato la parola responsività (in inglese c’è differenza tra responsibility e responsiveness) perché in essa c’è qualcosa che va oltre la dimensione individuale e personale, per quanto imprescindibile, evitando di ridurre tutto al volontarismo dell’io. Io non rispondo solo delle mie azioni e delle conseguenze delle mie azioni, ma di questo legame che costituisce me e il mondo che mi sta intorno, di questa totalità che risuona in me e di cui io sono parte. Io sono libero se ho la possibilità di prendere forma, quindi di individuarmi e diventare chi sono, nella consapevolezza che in questo movimento che dura tutta la vita (perché noi ci mettiamo tutta la vita a diventare chi siamo) la relazione non soltanto non è un ostacolo, ma è la condizione.
Piuttosto del “negazionismo” della parola ripartenza, preferiamo i termini rigenerazione, rinascita, perché in essi c’è il riconoscimento della possibilità di un nuovo inizio a partire dall’esperienza che abbiamo vissuto, da quello che abbiamo imparato, dalle perdite che abbiamo subito. Non si tratta di sopravvivere, di adattarsi alla situazione senza soccombere, ma di vivere meglio, di rimettere in moto la nostra immaginazione, la nostra consapevolezza relazionale e trovare vie nuove, scoprire nuove forme che immettano più vita nei nostri mondi, dalla famiglia alle imprese, dalla scuola alle associazioni, nella Chiesa. Intraprendere vie non conosciute non è facile e comporta l’accettazione di un certo livello di rischio. Ma d’altra parte il rischio è proprio quell’articolazione particolare tra la vita e la morte, dove noi scommettiamo che sarà la vita a vincere.
La libertà è un’acrobazia. Un equilibrio precario che comporta dei rischi e un affidamento. A quali certezze posso assicurarmi, quale trapezio posso cercare di afferrare? Esistono delle istruzioni d’uso?
M: Non c’è il libretto delle istruzioni. Non esiste. Non ce l’ha nessuno. Ci sono delle domande che dobbiamo porci se vogliamo essere uomini e donne liberi. Siamo talmente assuefatti dall’ordine sociale dentro cui viviamo da non essere più quasi capaci di metterlo in discussione. Siamo liberi, ma siamo anche dei paralitici. Ce ne possiamo accorgere se abbiamo la fortuna, come a me e mia moglie capita da qualche anno, di trascorrere del tempo fuori dall’Occidente, in Africa, dove ci sono problemi enormi (il continente africano è una polveriera da certi punti di vista) ma la sete di vita è impressionante. Siamo paralitici e irrigiditi nel modo in cui viviamo le relazioni, nel modo in cui non riusciamo a immaginare la vita. Siamo vittime del sistema sociale che abbiamo costruito, a partire dagli anni ’60, quando è partito un ciclo legato al benessere, ai consumi, all’individualismo. Ora che quella fase si è conclusa, con il raggiungimento di quanto di buono poteva portare, sono rimaste aperte le grandi questioni: il problema ambientale, le gigantesche disuguaglianze, i livelli di concentrazione di potere economico e finanziario, le enormi solitudini…
C’è un secolo nuovo davanti a noi. Aiutiamo in particolare i giovani a guardare con coraggio al futuro, a pensare l’avvenire, cioè un tempo che noi possiamo contribuire a fare. Cominciamo a studiare delle soluzioni, invece di preoccuparci di produrre sempre più velocemente e di consumare di più. L’economia non si salva producendo più velocemente, ma affrontando i problemi. Max Weber diceva che l’economia è la traduzione in fatto materiale dell’evoluzione spirituale dei popoli. Il tema è: adesso qual è la ragione dell’andare avanti che genera anche la nuova economia, i nuovi beni?
Dentro questa sfida impegnativa, quale può essere il ruolo, il portato che i cattolici insieme possono dare? Anche alla luce della crisi che stiamo vivendo, c’è un contributo distintivo che possiamo offrire e mettere a disposizione della società?
G: Il contributo c’è, ma non verrà da lotte identitarie, dall’attestarsi in difesa dell’identità, dall’installarsi e dal presidiare dei confini contro la secolarizzazione del mondo. Questo sarebbe trasformare la religione in ideologia e ridurla all’equivalenza con altre ideologie. La risposta alla domanda è quindi affermativa se si persegue la via della spoliazione, che è poi l’idea della Chiesa in uscita di papa Francesco. La Chiesa che parla al mondo è la Chiesa di piazza san Pietro vuota, della pioggia e di papa Francesco che invoca e offre la fragilità della Chiesa alla forza dello Spirito. Questo è un messaggio universale, cioè cattolico, l’universale concreto nel senso inteso da Romano Guardini. Cattolico deriva dal greco καϑολικός, parola formata dall’unione del prefisso rafforzativo katà con il termine òlos cioè tutt’uno, tutto intero, integrale, per l’umanità e per ogni singola persona. Intero vuol dire tutti, non solo i credenti; vuol dire tutta la persona e non solo la sua incolumità fisica, ma la sua affettività, la sua spiritualità, la sua emotività, la sua creatività. Ciascuno di noi è un intero e ciascuno di noi fa parte di un intero. Contro la frammentazione della cultura contemporanea che ha polverizzato e disgregato i modi, i tempi e le relazioni costitutive dell’umano, il messaggio cattolico riabilita l’unità di quest’intero di cui facciamo parte, che è la famiglia umana, un annuncio di cui tutti possono beneficiare in qualche modo. Il cattolicesimo ha ancora molto da dire oggi. Ad esempio, ha qualcosa da dire rispetto all’intero di cui siamo parte e di cui dobbiamo essere responsabili, a cui ciascuno di noi deve contribuire perché la libertà non è il diritto di prendere, ma implica il dovere di contribuire. Il movimento di contribuzione ci rende liberi e vivi. Il cattolicesimo ha qualcosa da dire anche sulla dimensione collegata dell’eccedenza. L’eccedenza è il movimento opposto dell’eccesso di cui la nostra società è infatuata (anestetizzati, cerchiamo di sentire la vita portandoci vicino alla morte, come accade negli sport estremi, nel consumo di sostanze, nel sesso), perché riconosce il bisogno di trascendimento che è connaturato nell’uomo, ma lo gioca per la vita. Come nella frase evangelica “Chi vuol trattenere la propria vita la perde. Chi non ha paura di perderla, la trova nella sua pienezza”, l’eccedenza è un movimento non garantito, che comporta un abbandono e un affidamento. È il movimento della fede. La fede non può essere messa in sicurezza dalla dottrina, anche se la dottrina è importante. L’ossessione dottrinale — diceva Romano Guardini — è il tentativo di mettere in sicurezza la fede che per definizione è un rischio. Corriamo il rischio di credere, se pensiamo che per quella via riceveremo non il premio nell’al di là, ma la pienezza qui. La fede è una relazione, non è l’adesione intellettuale a un contenuto. È prima di tutto un movimento di sbilanciamento in cui io mi affido senza avere la certezza matematica e l’assicurazione contrattuale che questo mio affidamento porterà dei risultati. Affidarsi, fidarsi, avere fiducia negli altri, nel futuro, in questa mano che ci sorregge anche quando cadiamo, è quello che da paralitici abbiamo disimparato. Forse questo tempo ci aiuta a rendere desiderabile questo movimento e a recuperare il coraggio di compierlo ancora.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 1, Febbraio 2021
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Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, ordinari di Sociologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sono autori di numerose pubblicazioni e attenti osservatori delle trasformazioni sociali, culturali ed economiche e delle questioni più urgenti che riguardano il mondo di oggi, dal lavoro allo sviluppo tecnologico, dall’emergenza economica alla rappresentanza politica, dalla religione alle disuguaglianze sociali.

Chiara Giaccard insegna Sociologia e Antropologia dei media presso l’Università Cattolica di Milano e dirige la rivista “Comunicazioni Sociali”. Collabora con diverse testate e con l’Ufficio comunicazioni sociali della CEI.

Mauro Magatti insegna Sociologia della Globalizzazione all’Università Cattolica di Milano e dirige il centro di ricerca Arc (Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change). Collabora con i quotidiani “Corriere della Sera” e “Avvenire”.
Tra i libri scritti insieme dai due autori: L’io globale. Dinamiche della socialità contemporanea (Laterza, 2003), Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi (Feltrinelli, 2014). La scommessa cattolica (Il Mulino, 2019). Il loro ultimo libro è Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo (Il Mulino, 2020).


