Gli esodi del nostro tempo attraverso lo sguardo e le parole di Nello Scavo
FESTA VERSO L’ALTRO – “NIENTE MI È ESTRANEO”
Registrazione dell’evento tenutosi giovedì 26 maggio al Teatro San Carlino di Brescia, organizzato da Dialoghi Carmelitani e Fondazione Punto Missione Onlus
Un’interessante ed appassionante incontro con Nello Scavo – reporter internazionale ed inviato speciale di Avvenire – che, sollecitato dalle domande dell’amico e giornalista Marco Dotti – direttore editoriale di EMI – ha raccontato della guerra nel cuore d’Europa e del nuovo disperato esodo, quello dalle città ucraine, che essa ha provocato. Il punto di partenza è l’ultimo libro di Scavo, Kiev, edito da Garzanti, una sorta di diario personale nei giorni del conflitto scoppiato lo scorso febbraio, scritto mettendo assieme i pezzi di una guerra vissuta dall’interno, una guerra che sembrava lontana, e che invece si è rivelata spaventosamente vicina. La storia dei conflitti ci insegna che le guerre sono terribilmente complesse e che noi abbiamo il dovere di entrare in questa complessità per comprenderne contraddizioni e risvolti. Ben sapendo che un conflitto non finisce quando si fermano le armi, ma si deposita sul terreno della storia, dando origine a ulteriori contrasti e divenendo la premessa ai drammi di domani.
LEGGI LA TRASCRIZIONE INTEGRALE DELL’INTERVISTA
DOTTI – In un momento in cui pensavamo di vedere tutto e di poter accedere a qualsiasi informazione, nell’epoca della iper-mediatizzazione che ci procura l’illusione che più nulla ci sfugga di quanto accade, in realtà ci accorgiamo che abbiamo bisogno di qualcuno che guardi per noi, che senta per noi, ma che lo faccia con noi, cioè che non ci racconti semplicemente le cose o non ce le faccia sentire soltanto, ma crei un rapporto di fiducia tra le sue parole, i suoi sguardi e noi. Io almeno interpreto così la mia attesa quando mi accingo a leggere i tuoi pezzi sul giornale o mi sintonizzo al mattino per ascoltare la rassegna stampa. Lo abbiamo notato a proposito della Libia — caso emblematico di assenza di copertura giornalistica, dove tu in realtà hai raccontato tanto —, ma anche qui, in questa guerra, dove tanti stanno raccontando, si nota un taglio particolare nella tua postura etica, nel tuo modo di osservare le cose. Come ci si cala in questa guerra, nelle altre guerre? Come si entra, se si entra, nel campo di osservazione e rappresentazione di una guerra? Ma soprattutto come è possibile tentare di raccontare tenendo fermo questo legame di fiducia con il lettore, con gli ascoltatori, con chi ti segue?
SCAVO – Prima di rispondere ringrazio gli amici che hanno voluto organizzare questo incontro, per la pazienza che hanno avuto anche con me per incastrare le date e la pazienza anche di attendere una risposta definitiva, perché quando sei in guerra è tutto un po’ complicato (stabilire le date, gli orari, gli imprevisti…) e quindi sono davvero grato per quello che avete fatto. Mi date l’occasione, tra l’altro, di tornare a Brescia dove trovo anche degli amici, alcuni sono in sala, Carla Ferrari Aggradi, Fabrizio Gatti e altri che con la mascherina non riconosco, che hanno condiviso con me anche un bel pezzo di quelle narrazioni soprattutto nel Mediterraneo.
La prima ragione è stata realizzare un lavoro di testimonianza, e riaffermare, anche nello stile di scrittura che abbiamo dato con Garzanti, l’importanza di recuperare un mestiere, per certi versi antico, di costruire un libro che è in forma di diario ma in realtà contiene giorno per giorno quelli che una volta erano i dispacci che arrivavano dai fronti lontani. Il libro contiene naturalmente anche elementi di inchiesta giornalistica, di approfondimento e retroscena, e ovviamente anche impressioni, racconti personali. Questi ultimi scritti con fatica, non tanto per pudore, ma perché pensavo che non interessassero molto a nessuno, mentre invece ricevevo molte richieste di chi voleva sapere anche semplicemente come si dorme di notte quando c’è la guerra, come si attrezzano i giornalisti, come scelgono i luoghi in cui muoversi. E quindi ho provato a raccontarlo soprattutto per spiegare che, come tutti, abbiamo occhi, gambe, mani e soprattutto proviamo paura. Ho provato a raccontare anche le angosce, la paura, di un mestiere, di una testimonianza che non è fatta da Superman. Ognuno, come si ricordava prima, ha una propria cifra stilistica nel raccontare. Per conto mio, non so dire come ci si prepara esattamente alle guerre. Posso dire che in tutti questi anni ho provato a raccontarle il più possibile senza scegliere come punto di vista quello di chi infila l’occhio dentro al mirino, ma quello di chi invece si mette dall’altra parte del mirino. Perché le guerre sono soprattutto guerre che colpiscono i civili. Gino Strada ricordava sempre che il 90% delle vittime dei conflitti sono civili, e civili disarmati, non coinvolti direttamente nella fase di combattimento. Provare a raccontarlo stando da questa parte, ti permette di risalire fino al mirino e quindi invertire la parabola del racconto cominciando dalle vittime e poi arrivando più in alto, fino al mandante delle guerre. La guerra di Ucraina è una guerra antica e modernissima allo stesso tempo. L’avete visto nelle immagini dei primi giorni, immagini che abbiamo già cominciato a dimenticare (anche per questo ci tenevo a scrivere un libro che provasse a circoscrivere un perimetro temporale preciso, che era quello delle prime settimane di guerra): si impiegano droni ad altissima tecnologia, si colpiscono i blindati con missili Javelin che si portano a spalla, pesano neanche 12 kg, si possono guidare con un palmare e hanno necessità di pochissime ore o pochissimi giorni di addestramento. Allo stesso tempo è una guerra che si è combattuta anche nei fienili dove, come mostravano le immagini dei primi giorni, si sono visti piloti russi colpiti nei loro velivoli, espulsi dall’abitacolo, precipitare a terra e venire circondati da contadini, soldati e gente comune che volevano catturarli. E quest’idea del mostro d’acciaio ipertecnologico con il pilota che casca praticamente dentro ad una fattoria, dove c’è un contadino che non ha il palmare o il telefonino ma ha il forcone e un vecchio trattore, suggeriva la dimensione plastica e terribile di questo conflitto e di come questo conflitto procederà. L’altra ragione per cui ho ritenuto necessario scrivere questo libro è che questa guerra, che come tutte le guerre parte da una menzogna, ci mette di fronte anche a delle domande, come per esempio se sia giusto combattere e difendersi, e con quali mezzi farlo. A questo proposito, quando stavo lì, ho raccontato le storie dei disertori, ucraini e russi, e — come ha detto il Papa — ho scritto e penso che quando si chiede a qualcuno di combattere in fondo gli si sta chiedendo di uccidere, quando si chiede a qualcuno di non combattere in fondo gli si sta chiedendo di rischiare di morire senza difendersi. E il confine è molto sottile, quando sei in guerra. Non è come quando si sta sul sofà di casa e si fa zapping tra un talk show e l’altro (che tra l’altro è una delle cose che più mi hanno traumatizzato rientrando in Italia). Come giornalista non posso e non devo dire a qualcuno di combattere o di non farlo, il mio dovere semplicemente è quello di raccontare. E quando racconti, da questa posizione, naturalmente incontri anche qualche ostacolo in più di interpretazione, e per come ti poni nei confronti delle forze locali. Perché il giornalista che non si arruola può essere un giornalista pericoloso per certi versi. E anche in questo noi abbiamo osservato un mutarsi dell’atteggiamento nei nostri confronti. L’Ucraina è un paese nel quale vige la legge marziale, non solamente per i residenti ma anche per i giornalisti. Ci sono delle regole a cui bisogna adattarsi. Ma le regole pesano pochissimo. Se io adesso dovessi raccontare quali sono le condizioni che ci vengono ordinate nel momento in cui accettiamo di essere accreditati (perché per lavorare un giornalista in Ucraina ha bisogno in questo momento dell’accredito dello Stato maggiore ucraino; questo non vuol dire che il giornalista si metterà a seguito delle forze ucraine, ma che per andare in giro nel paese o per le città deve avere questo permesso, altrimenti i militari ti fermano e senza permesso ti potrebbero sbattere fuori dal paese o, come è successo a qualche mio collega che non ha rispettato le regole, subire per esempio un’espulsione con il divieto di reingresso nel paese da 3 a 10 anni. Perché è una guerra, e una delle cose che spesso non si capiscono è che in guerra tutta una serie di norme, abitudini vengono eliminate. In guerra si sospende la democrazia, non c’è tempo per mettersi a discutere su tutto, bisogna agire. Quindi non c’è un modo con il quale un giornalista arriva in guerra. C’è chi arriva attrezzato. Noi, ad esempio, siamo arrivati a Kiev senza giubbotto antiproiettile e senza elmetto alla prima tornata, quando quasi nessuno credeva nella possibilità che la guerra potesse esplodere lì, e invece la guerra è esplosa ed è cominciata da Kiev. E ci siamo trovati ad affrontare delle situazioni che erano difficili anche umanamente. Perché il lavoro di un giornalista è il lavoro di uno che la notte, come tutti, non ha dormito a causa dei bombardamenti (c’erano 200, 300 anche 400 attacchi missilistici al giorno, soprattutto nelle prime due o tre settimane), e a causa delle sirene e delle campane che risuonano continuamente (tra l’altro con questo contrasto per cui le campane suonano a festa quando ci sono gli attacchi aerei, ovviamente per fare più chiasso ed essere avvertite dalla popolazione) e alle 8 di sera, quando tutti hanno il sacrosanto diritto di riposare un attimo, il giornalista deve invece cominciare a scrivere il suo reportage. E all’indomani mattina al lettore non importa molto della fatica e della paura che tu hai attraversato. Vuole vedere e capire quello che tu hai visitato nel giorno precedente. E in quel momento poi scatta, come dire, la differenza tra giornalista e giornalista: ognuno con una sua cifra personale, con un proprio tono, chi più emotivo, chi meno emotivo, chi più razionale e lucido, chi più distaccato. Una delle ragioni per cui ho scelto la forma del diario nel libro è perché il diario ti costringe a mettere a nudo anche i tuoi errori di valutazione. Una cosa è scrivere un libro quando si ha un quadro completo dei fatti e delle circostanze, altra cosa è scriverlo giorno per giorno. Ad esempio, inizialmente la maggior parte degli abitanti di Kiev non credeva nella possibilità della guerra. In quei giorni, la domanda che io stesso mi faccio e riporto sul mio giornale e in questo diario è: ma Kiev soccomberà combattendo o soccomberà senza reagire? L’assunto era che Kiev sarebbe comunque capitolata di fronte alla potenza di fuoco della macchina da guerra russa. E invece, nei giorni successivi, la nostra percezione ha dovuto fare i conti con una realtà che non avevamo previsto. Le persone che alla sera precedente erano in un Jazz Club ad ascoltare musica dal vivo o gli studenti che erano in piazza come ogni sera tra amici a chiacchierare del più e del meno, e anche della possibilità che ci potesse essere un’intensificazione del conflitto nel Donbass, quando arriva la guerra scendono negli scantinati come tutti ma, a differenza di molti, prendono lezione per fabbricare bottiglie Molotov e altri ordigni. E questo cambia non solo il nostro punto di vista, la nostra percezione sulla guerra, ma cambia anche la storia di questa guerra. Kiev è una città che doveva essere espugnata in meno di una settimana. La colonna russa che stava per circondare Kiev era lunga circa 60 km (pensate che Kiev è una città con due milioni e mezzo, tre milioni di abitanti, comunque più piccola di Roma, in comune con la quale ha solo i sette colli e poco altro, mentre il raccordo anulare di Roma è lungo 70 km), sufficiente per chiuderla dentro e farla soccombere in un assedio. E invece succede che questa avanzata viene rallentata, poi viene fermata e infine diventa una ritirata. Ecco, in una guerra entrano tutti questi elementi: culturali, antropologici, sociologici, economici, tattici, strategici. C’è anche un dato sentimentale, che va raccontato senza per forza dare un giudizio morale, ovvero se sia giusto o sbagliato, un dato che è stato molto trascurato all’inizio, anche dai reportage giornalistici. A volte si cade infatti nell’errore di raccontare la guerra da un punto di vista esclusivamente tecnico (quanti carri armati, battaglioni, elicotteri, quanto si è avanzato o quanto terreno si è perso), dimenticando di raccontare anche le motivazioni di chi si trova a combattere. E in questa guerra c’è stata, e c’è ancora, una disparità gigantesca di motivazioni tra i soldati russi da una parte e i militari e i civili ucraini dall’altra. E dentro a questa differenza ci sono ulteriori differenze: per esempio, tra chi ha scelto di non combattere per ragioni etiche e l’ho fatto pensando che quello sia un modo di partecipare alla lotta di liberazione per la patria, trovando altre forme di resistenza, di tipo culturale. C’è chi ha scelto di andare a combattere. Tra i civili io ricordo in particolare il caso di un uomo che voleva arruolarsi, e poi con il fucile in mano non se l’è sentita. Perché quando un fucile te lo mettono in mano è diverso da come la raccontiamo in televisione. Un fucile in mano è un’altra storia. E quest’uomo ha rinunciato a combattere e nel bunker diceva ai ragazzi che si preparavano per andare al fronte: «Non dovete combattere per odio, dovete combattere per amore della Libertà». Lo so che dentro queste parole c’è anche molta retorica, però le devo considerare. E devo considerare anche come il prolungarsi di questa guerra nel tempo farà perdere di vista questi sentimenti iniziali, perché una guerra che comincia per la Libertà, se poi dura per mesi o addirittura per anni, diventa una guerra in cui si perdono per strada le motivazioni ideali e si combatte perché si deve combattere, per vendetta o per rancore. Questo è quello che naturalmente, da un punto di vista psicologico, lo Stato maggiore di Mosca conosce molto bene. Noi abbiamo capito dal primo missile caduto a Kiev che l’attacco sarebbe stato deliberato sui civili. Se voi contate il numero di missili e di colpi di artiglieria scagliati in questi tre mesi contro l’Ucraina e provate a vedere quanti di questi hanno colpito obiettivi militari e quanti di questi hanno colpito obiettivi civili, se voi guardate la quantità di colpi sparati e la direzione in cui sono stati sparati, viene da dire che effetto collaterale non siano le perdite civili ma gli obiettivi militari. E questo è importante dirlo, perché altrimenti non capiamo fino in fondo perché ci sia un popolo che chiede di continuare a difendersi e a combattere. Io sono molto preoccupato riguardo alla prosecuzione di questo conflitto, ai significati che anche gli attori esterni al conflitto stanno cercando di dare, alle aspirazioni e alle ambizioni che altri agenti “extraregionali” hanno su di esso. Ci sono stati errori e abusi, anche da parte delle forze ucraine (la corte penale dell’Aja sta lavorando moltissimo anche su queste imputazioni). Tuttavia, non ci sono proporzioni tra il numero delle accuse ad una parte e all’altra, nel senso che gli episodi contestati alle forze ucraine non sono quantitativamente e anche qualitativamente paragonabili agli attacchi ascrivibili a Mosca. E questo comporta però una difficoltà in più per i giornalisti, perché – come dico sempre – se tu vuoi proporre una differenza dal tuo aggressore, non devi avere paura anche di affrontare gli errori che vengono commessi al tuo interno. Allo stesso tempo va detto che ci sono alcune cose che non tornano in tutta questa vicenda e anche la narrazione che si è fatta sulla nazificazione dell’Ucraina non trova riscontro nei fatti. Nei primi giorni i diplomatici ci dicevano che i partiti di estrema destra in Ucraina non arrivano al 1,5% dei voti e sono riusciti ad esprimere un solo componente della Rada, il Parlamento di Kiev. La guerra però polarizza le relazioni e i sentimenti, e non sappiamo quale Ucraina avremo quando la guerra finirà, speriamo prima possibile.Continua a leggere
DOTTI – Il tuo libro, che si sviluppa nel racconto dei primi 20 giorni di guerra, restituisce uno spaccato delle prime fasi del conflitto, catturate in immagini di cui, come dicevi, è facile perdere la memoria. È anche però un grande libro di tecnica giornalistica, di storia, di amore e passione per il narrare e raccontare la realtà, i fatti, e contiene anche la promessa, come dici all’inizio, che questi fatti in qualche modo si tengano insieme attorno a un senso più umano. Sul finire del tuo libro un po’ riaffiora la paura che qualcosa di quello che scrivi scompaia, quando racconti che vai subito a scrivere, ancora sporco, ancora con il fango e la polvere addosso. Questo mi colpiva e vorrei che ce lo raccontassi, perché sembra aver a che fare con quel desiderio minimo di racconto, di aderenza alla realtà, che invece per esempio nei primi giorni della guerra noi qui abbiamo un po’ perso, perché eravamo tutti un po’ sedotti dalla geopolitica e dal grande racconto della forza. Tu invece mostri anche la fragilità del tuo lavoro, la necessità di fare i conti con questa precarietà e volatilità delle cose.
SCAVO – È senz’altro un vezzo mio e di qualche altro mio collega. È una mia abitudine che ho confessato, mi sono sempre comportato in questo modo, ma lì mi è venuto anche piuttosto naturale date le condizioni (come racconto nel libro, riusciamo a fare la prima doccia dopo quasi due settimane). Però è vero, quando ritorni in albergo la prima cosa da fare sarebbe in alcuni posti fare una doccia veloce e poi mettersi a scrivere. E invece io ho bisogno di mettermi a scrivere immediatamente, delle volte mi tengo anche le scarpe, per sentire ancora la fatica della camminata. Perché sono abbastanza convinto che, in qualche modo, l’essere impastato dalla realtà, la polvere, persino gli odori, mi aiutino a trasferire nella scrittura quello che ho vissuto, quello che mi è capitato.
A questo proposito, nel libro faccio anche un rimprovero a me stesso. Quando scoppia la guerra alle 4:50 del mattino e mando il mio primo messaggio alla redazione, all’ufficio internet che al mattino presto è operativo, sono così preoccupato dal trasmettere l’angoscia e la paura dei bombardamenti, a cui non avevo mai assistito (ero stato in molte altre guerre ma non mi era mai capitato di stare in un conflitto nel quale alla sera prima sei al ristorante fino alle 3 di notte, magari nella hall dell’albergo con i colleghi a pasteggiare con una bottiglia di vino moldavo, e alle 4:50 del mattino la storia, non solo la tua, ma quella del mondo e di un paese, cambia per sempre), che l’ho mandato di getto. E avendolo riportato integralmente nel libro, si nota tutta la freddezza che c’era in questo avvertire la redazione che la guerra era cominciata, a dimostrazione che alle volte si rischia anche di commettere l’errore opposto. Per me è importante mettermi a scrivere con ancora addosso la fatica della giornata, anche perché credo che poi quando scrivi, soprattutto di fretta (un reportage che tu cominci a scrivere alle 8 di sera, alle 9 e mezza al massimo deve essere chiuso e quindi fai tutto veramente in velocità), può capitare delle volte di essere imperfetto nella scrittura (una parola utilizzata due volte nello stesso periodo, una ripetizione). Ma io credo che il lettore perdoni anche queste imperfezioni, perché capisce che quello è il meglio che tu potevi fare in quel momento, in quelle condizioni. E questo l’ho percepito molto prima che venisse pubblicato il libro, proprio grazie alla vicinanza anche affettuosa che abbiamo avuto da moltissimi lettori. Credo che mettersi a scrivere senza indossare la veste di raso, come si usava tra i corrispondenti di guerra una volta, sia anche un modo per restituire un pezzo di verità anche del nostro mestiere.Continua a leggere
DOTTI – Nel libro racconti non solo la potenza devastante della guerra, ma anche tante storie di solidarietà, di fragilità, anche di paure (paure anche dei soldati russi). Questa umanità è forse il lato più forte che emerge dal tuo racconto. Che tipo di reazione hai visto all’inizio e come è mutata nei giorni, soprattutto dal punto di vista anche della paura? Qui in Italia si diceva che sarebbero arrivati milioni di persone; invece, poi, alla fine tante persone non sono venute o tante di quelle uscite dall’Ucraina ora stanno tornando. Ecco, la guerra è ancora in corso e molti stanno tornando a Kiev. Perché succede questo? Apparentemente e logicamente, rispetto al racconto iniziale, questa è una contraddizione, o forse invece dobbiamo aggiustare le nostre interpretazioni?
SCAVO – Purtroppo alla guerra un po’ ci si abitua. Dieci giorni fa, quando ero a Odessa, il presidente Zelensky ha dovuto rimproverare la popolazione chiedendo alla gente di entrare nei rifugi quando suonano le sirene, perché a Odessa, quando cadono i missili, se non cascano proprio vicini al tavolo del bar dove si sta sorseggiando una coca-cola, che forse potrebbe essere l’ultima della vita, non ci si alza per scendere nei bunker. E questo non accadeva naturalmente nelle prime settimane. È un comportamento psicologico molto particolare che fa sì che l’essere umano si adatti anche a condizioni estreme. Mi colpiva molto, a Odessa, vedere il fuggi-fuggi generale solo quando il missile cadeva a 500 metri da noi e quando il botto era così forte e l’onda d’urto era così violenta che evidentemente l’istinto di sopravvivenza prevaleva inducendo ad abbandonare qualsiasi cosa e a darsela a gambe.
Continua a leggere
Molta gente naturalmente vuole tornare nei luoghi da cui è scappata. Io personalmente ho resistito a due o tre tentativi di esfiltrazione da Kiev. Quando alla fine sono dovuto andare via, le persone e i profughi con cui siamo partiti avevano come massimo desiderio quello di tornare e vedere come stavano le proprie cose. È un elemento razionale quando sei in guerra. Può sembrare irrazionale da qui, quando in guerra non ci sei, ma quando capisci che la situazione sta un po’ migliorando senti la necessità di tornare a casa, di vedere la tua abitazione, le tue cose. E non per un errato materialismo, ma perché hai bisogno di capire se la tua vita di prima può essere ricostruita in qualche modo.
Mi è capitato anche in altri conflitti di incontrare profughi che sapevano per certo che la propria casa era stata distrutta, perché i filmati e le foto del proprio quartiere mostravano che tutto era stato raso al suolo. Eppure, appena potevano, tornavano nel quartiere a vedere le macerie della propria casa. Perché quelle macerie sono un po’ le macerie della tua vita, perché quella casa te la sei sognata, magari hai faticato per comprarla, per costruirla e lì hai riposto i tuoi affetti. Questa dimensione della guerra è terribile, se ci pensiamo. Diversamente accade nelle guerre dei poveri e dei poverissimi, che hanno lasciato una tenda e che al massimo hanno l’interesse di poter tornare nei luoghi da cui provengono perché questi sono i luoghi delle origini. Io delle volte mi sono domandato: ma che cosa spinge un abitante di Aleppo o di Homs a tornare e farsi del male? Ci sono tante spiegazioni naturalmente, ma tra queste la più forte è proprio il desiderio di vedere con i propri occhi il male subito, cominciare in qualche modo a farci i conti sul serio e poi riconoscere se c’è una possibilità di poter sperare e sognare di poter ricominciare o dare un senso alla vita che ricomincia da un’altra parte.
Essere profughi è una cosa maledettamente complicata. Perché se tu sei profugo e hai la certezza di non poter più tornare nel tuo paese, vivrai per sempre con questo dolore, ma questo ti costringe a costruirti una vita nuova, che ti può piacere oppure no, qui e adesso dove ti trovi. Se tu invece hai la speranza anche minima che la tua vita possa ricominciare lì dove l’hai lasciata, vivrai la tua esistenza di profugo con un dolore in più e anche con un senso di colpa molto profondo. Io nel libro descrivo il senso di colpa dei giornalisti che lasciano i giochi di guerra ed è un senso di colpa con il quale noi dobbiamo fare i conti tutti i giorni. Ma pensate cos’è il senso di colpa di chi si domanda: “Ma forse potevo tornare a casa e ricominciare?” E ancora: “Io sono vivo, sono stato graziato, ma i miei vicini di casa, i miei parenti sono rimasti uccisi; devo forse tornare nel mio paese in forza di questa fortuna e provare a ricostruire in qualche modo la mia vita oppure devo restare qui e magari sentirmi un vigliacco?”. Questi sono i drammi nascosti dei conflitti, quelli che spesso non finiscono sulle pagine dei giornali.
Ne aggiungo un altro che riguarda la generazione più giovane dell’Ucraina, quella dei bambini piccolissimi, da zero a due anni. Bambini che abbiamo visto strappare la barba ai papà, aggrapparsi a loro e cercare di trattenerli, sul confine o nelle stazioni delle città quando si separavano. Come sapete, per effetto della legge marziale, gli uomini dai 18 ai 60 anni non possono lasciare il paese a meno che non abbiano più di 3 figli (o, come succedeva all’inizio, qualche buona conoscenza o qualche dollaro in più da dare alle guardie di confine). Chi di voi ha figli sa benissimo che cosa può pensare un bambino di quell’età del proprio papà: è colui che di notte ti viene a prendere in braccio e ti coccola quando hai gli incubi, il papà è Superman che sconfigge il drago, è colui con il quale non devo preoccuparmi di nulla… e nel momento in cui io ho più paura nella mia vita e la mia esistenza così breve, ma già così tormentata, necessita della presenza della persona che più di tutti mi può rassicurare, quella persona invece mi abbandona, mi saluta, mi dice delle parole di incoraggiamento, che io non capisco, e mi lascia da solo con la mamma, con la sorellina o con i cuginetti o con i nonni. E poi torna indietro verso casa — questo c’è nella testa di un bambino che scappa e che vede il papà tornare indietro —, perché certo che ho sentito le bombe, però tu rimani qua a casa e soprattutto abbandoni me che vado con la mamma in una terra sconosciuta, dove magari si parla anche un’altra lingua, con delle persone che saranno pure affettuose ma di cui devo imparare a fidarmi… Ora, questi bambini, quando torneranno in Ucraina – speriamo il prima possibile -, se ritroveranno i loro papà, quanto tempo ci metteranno a ricostruire un rapporto di fiducia? Pensiamo forse che un bambino di 4, 5 o 6 anni possa avere maturato nel tempo la consapevolezza che, sì, in effetti c’era la legge marziale, non poteva uscire, ma poi ha combattuto contro i cattivi invasori, quindi papà è un eroe…? E i bambini che tornando a casa invece il papà non lo troveranno? Come fai a spiegargli che il papà ha fatto bene a restare e combattere? Sì, quando avranno 10 o 15 anni forse se ne faranno una ragione, ma intanto la loro infanzia passerà nel trauma del tradimento, dell’abbandono. E questo è persino peggio dei proiettili, se ci pensate.
La guerra è tutte queste dinamiche insieme. Dinamiche che – ritornando al tema originario degli esodi – noi tante volte viviamo e raccontiamo a tutte le latitudini nelle quali ci sono dei profughi. Ricordate a ottobre dello scorso anno la crisi isterica dell’Europa davanti a dodici mila profughi sul confine bielorusso? Le lanterne verdi in Polonia, tutto il lavoro che è stato fatto? Io ero lì già da settembre. Prima in Lituania, poi in Bielorussia e in Polonia. E capivo che la risposta era sbagliata e che certamente i profughi venivano usati ancora una volta come arma non convenzionale da Lukashenko, il dittatore bielorusso, e da Vladimir Putin. Ma la risposta dell’Europa avrebbe dovuto essere diversa, e si sarebbe dovuto attuare il blocco dei voli con cui venivano fatte arrivare queste persone. Perché si trattava di voli charter organizzati dal governo bielorusso, tra l’altro con la situazione anche imbarazzante per cui questi voli charter erano tutti di compagnie aeree con sede in Irlanda, e quando l’Unione Europea ha chiesto a queste compagnie di fermare i voli, la risposta è stata: sì, ma noi abbiamo firmato dei contratti, poi dobbiamo pagare le penali.
Ecco, la risposta invece avrebbe dovuto essere: va bene, non lasciamo che vengano sfruttate queste persone, ce le prendiamo tutte, ci facciamo carico noi di questi 12 mila profughi di guerra. Siamo un continente che conta 400 milioni di abitanti (Europa politica) o, se vogliamo, 700 milioni di abitanti (Europa geografica). Pensavate forse di spaventarci con delle persone disarmate, con famiglie con bambini? Noi reagiamo da europei.
Invece questo non accade. E che cosa è accaduto? È successo che in quei giorni avvengono le prime esercitazioni militari congiunte tra Russia e Bielorussia al confine con la Polonia e più a sud al confine tra Polonia e Ucraina. Un confine che infatti oggi viene attraversato. In quel momento, probabilmente, nella testa di questi despoti, è scattato un meccanismo che li ha portati a pensare: se vanno in crisi per 12.000 persone, il giorno in cui facciamo una guerricciola in Ucraina e partono 2 milioni di profughi, questi in Europa non sanno che fare.
Qui è avvenuto però qualcosa di imprevisto: arrivano oltre 7 milioni di profughi e l’Europa non si scompone. Avete sentito qualcuno parlare di invasione? Avete sentito qualcuno parlare di sostituzione etnica? Avete sentito qualcuno parlare della chiusura dei confini? C’è stata questa reazione che è sorprendente, ma che però dimostra anche una netta ipocrisia su cui dovremo fare i conti prima o poi. Perché io voglio capire come mai i profughi afghani, che sono profughi di guerra (una guerra che abbiamo pure perso, visto il modo con cui ce ne siamo andati dall’Afghanistan, vent’anni dopo averla cominciata dicendo: adesso arriviamo noi, vi portiamo stabilità, sicurezza, democrazia, prosperità… È andata male, mettiamola così. Se proprio non vogliamo dare ragione a Gino Strada, che dal primo momento diceva che era una guerra sbagliata, se proprio non vogliamo dare ragione a Giovanni Paolo II, che diceva che queste guerre in Iraq e in Afghanistan non avrebbero fatto altro che portarci decenni di instabilità, se anche non vogliamo dare ragione a costoro, dobbiamo riconoscere che c’è stata una guerra, che adesso ci sono i talebani, tanto è vero che ce ne siamo dovuti andare lasciando il paese sotto il loro controllo, e che ci sono dei profughi), devono essere fermati sulla rotta balcanica e perché dobbiamo pagare la polizia croata per torturare le persone affinché ritornino a casa.
La storia, prima o poi, ci chiederà conto di queste contraddizioni. Contraddizioni che hanno prestato il fianco anche ai progetti egemonici di uno come Vladimir Putin.
La domanda che poi rimane è: ma che progetto abbiamo dell’Europa? Che cosa vogliamo costruire? Io penso a questa accoglienza — bella, spontanea, generosa — che c’è stata in molti paesi, come la Moldavia, il paese più piccolo e più povero d’Europa (2.500.000 abitanti), che ha accolto fino a 500 mila profughi, in questo momento in proporzione il numero maggiore (si pensi che in Polonia sono arrivati 4 milioni di profughi, circa il 10% della popolazione polacca), e si sta facendo il possibile per continuare ad accogliere, mentre dall’altra parte si sta facendo il possibile per destabilizzare il paese. Ecco, io penso che questa è anche una grande occasione per l’Europa per guardarsi dentro, e per dire cosa vuole fare da grande e smettere di prestare il fianco come fatto in tutti questi anni — pensiamo a quanto successo ad esempio in Libia, dove non ci scandalizziamo di pagare i criminali libici — a chi vuole destabilizzare e mettere sotto scacco. È una grande opportunità per ripensarci.
Finché la guerra continua, è necessario che i giornalisti siano presenti per due ragioni. La prima ragione è per raccontare, con tutti i difetti del racconto sul posto che, per sua natura è limitato all’orizzonte che tu riesci a vedere e che già affronti con difficoltà. E quindi il mio racconto dall’Ucraina, tappa dopo tappa, non può essere esaustivo, anche se il mio cruccio è trovare storie che siano storie universali e che provino a spiegare l’essenza di quello che sta accadendo.
Noi, sapete, abbiamo dovuto affrontare diversi ostacoli. Io lavoro per un giornale cattolico, sono cattolico, sono un credente claudicante, come molti credenti, ma nei miracoli ci credo. Devo dire però che lì hanno provato a farmi credere al miracolo dei morti che camminano. Perché mentre noi contavamo i morti, qualcuno da qua, da casa, ci diceva: guarda che quel cadavere, che tu dici che è morto, si è mosso… L’avete sentita, no, questa storia? Dove sono finiti i cantori che hanno sostenuto che Bucha era tutta un’invenzione, adesso che ci sono le immagini e i filmati?
Io mi sono preso un sacco di attacchi e di critiche quando ho cominciato a scrivere che i soldati russi — sottoposti a un problema di approvvigionamento logistico serio, per cui mancava da mangiare, perché non arrivavano rifornimenti per questi soldati — erano stati autorizzati dal governo russo ad autogestirsi, il che, tradotto, significa che potevano andare a rubare nelle abitazioni ucraine senza commettere un furto. E quando noi abbiamo cominciato a raccontare che si era esagerato, perché oltre ad aprire i frigoriferi questi si portavano via televisori LCD, computer e altro, ricordo gli attacchi che ricevevamo e la contestazione che non era possibile che avessero portato via tutta quella tecnologia dentro ai carri armati. Ma noi eravamo lì, la gente ci raccontava queste storie, e se anche qualche volta non ho visto questo con i miei occhi, ma dispongo di 10 racconti di persone che non si conoscono e raccontano la stessa storia, con la medesima dinamica, da giornalista io la devo riportare, dicendo “riferiscono alcuni testimoni”. Poi però quando sono arrivati i filmati delle razzie, sono spariti coloro i quali hanno gettato nel cestino anni di carriera giornalistica per un tweet di troppo. Anche perché hanno sottovalutato che questa, come abbiamo detto, è una guerra modernissima e antica. E tra le cose moderne c’è che gli ucraini, come molte famiglie italiane, mettono la telecamera in casa anche solo semplicemente per controllare il bambino di notte. E siccome Elon Musk, come sapete, ha fornito la copertura internet via satellite e le famiglie sono scappate senza spegnere il WiFi, questi filmati sono stati caricati sul cloud, sui vari spazi di archiviazione di Google o Amazon, e sono adesso a disposizione di tutti. E nelle registrazioni si vedono questi soldati russi che entrano e rubano. Ci sono anche diverse immagini di soldati che nei giorni successivi entrano nelle case e la prima cosa che fanno è controllare se ci sono telecamere e sparare contro di esse, perché le videocamere di sorveglianza sono una prova di questi ulteriori reati.
Poi c’è un’altra ragione, che è una velleità ma, da giornalista, la devo raccontare. Ed è quella che se molti di noi sono lì, forse riusciamo a risparmiare qualche crimine, perché avere qualche testimone in più è un problema. Naturalmente questo ci fa correre qualche rischio in più, perché se sei un testimone scomodo rischi di fare la fine di quella videocamera. Però se ci sei, le due parti in conflitto devono stare attente a come riportano gli accadimenti.
Io credo pertanto che questa guerra abbia riportato sul tavolo il valore del giornalismo di prossimità, del giornalismo di testimonianza. Ognuno poi con la sua cifra: ci sono giornalisti che hanno raccontato di più i combattimenti, i missili, le distruzioni; giornalisti che hanno raccontato di più i bunker, la metropolitana di Kiev, le storie delle famiglie; giornalisti che hanno raccontato di più la prima linea e giornalisti che hanno raccontato di più il flusso di profughi. Però tutti c’erano e non hanno aspettato che qualcuno qui raccontasse ciò che mi capita di sentire ancora adesso (ed è la ragione per cui faccio fatica ad andare in molte trasmissioni televisive), tante cose campate in arie e il nostro lavoro messo in discussione da parte di chi è rimasto a casa e ha voluto spiegarci le strategie.
Esserci non vuol dire possedere lo scettro della verità, per quanto la verità sia sempre la prima vittima delle guerre, ma sicuramente significa che sei un po’ meno lontano dalla verità.
DOTTI – Dicevi che, una volta iniziata questa guerra, ci si attendeva un’arrendevolezza, uno sfinimento della popolazione che invece non si è verificato. C’è stata invece una reazione imprevista. Però la guerra prosegue oltre questi 20 giorni e non si sa dove andrà a finire, e come continuerà e se potrà logorare in qualche modo e portare in direzioni che possano innescare qualcosa di imprevedibile. Mi veniva in mente, mentre parlavi, un aneddoto di Ignatieff, uno studioso di Harvard, che andando in Kosovo anni dopo quello che è successo per capire le ragioni del conflitto e visitando un paesino dove prima convivevano tranquillamente musulmani e cattolici, alla domanda su cosa fosse accaduto e perché si erano scannati in quel modo, aveva ricevuto questa risposta: perché fumavano persino delle sigarette di marca diversa. È evidente che non era la motivazione vera e che si era addirittura persa la memoria del perché di tanto odio. Questo però era interessante per capire dove può arrivare la rimozione al momento in cui un conflitto diventa logorante e nessuno sa più chi spara a chi e chi spara per cosa. Non dimentichiamo che l’Ucraina è un paese relativamente bilingue, dove si incontrano culture diverse. Non temi che proseguendo lo scontro, il logoramento possa far degenerare il conflitto da entrambe le parti e portare ad una guerra civile estenuante?
SCAVO – Per dare una risposta, non posso non trascurare l’elemento religioso. Ancora una volta la religione viene utilizzata come arma in questo conflitto per cercare di fornire una giustificazione in più ai combattenti. Voi sapete che il patriarca Kirill ha detto una serie di cose terribili quando ha parlato di guerra e l’ha definita non come uno scontro fisico ma metafisico. A me è sembrato che siamo arrivati a un punto di non ritorno, che cambia completamente lo scenario e fornisce ai militari combattenti un alibi in più per combattere in un certo modo. Questa, dal punto di vista di Kirill, non è una guerra giusta, è una guerra santa. E se è una guerra santa, vuol dire che da una parte c’è il bene, dall’altra c’è il male. E il male, per la fede cristiana, è il demonio. Allora, il militare che stupra una donna ucraina e che, secondo quanto viene riferito nelle deposizioni dei testimoni presenti, durante gli abusi ha ripetutamente sparato in aria con il kalashnikov per motivare la ragazza durante la violenza, commette un atto intenzionale, non sporadico, che indica che un limite è stato superato. Quando questi episodi si ripetono, in alcuni contesti e con una certa dinamica, allora non sono più episodi, ma fanno parte della guerra, sono anche questi un’arma di guerra.
Continua a leggere
E c’è un elemento in più che è emerso dall’aver ascoltato la dichiarazione di Kirill, un dettaglio fondamentale che è stato poco esaminato (per questo credo che sia importante il lavoro del giornalista che scrive, rispetto ad esempio al giornalista televisivo; per una questione di tempi, non di bravura). Voi sapete che Vladimir Putin dice il 23 febbraio sera che bisogna denazificare l’Ucraina. Prendiamo per buona questa ipotesi, cioè che l’Ucraina sia infiltrata abbondantemente da nazisti. Voi sapete che i nazisti non hanno — per così dire — grande simpatia per il mondo LGBT+. Kirill nei suoi discorsi dice che la guerra è santa, è una guerra metafisica, anche perché la comunità occidentale chiede all’Ucraina, come condizione per entrare a far parte della comunità occidentale, di avere una legislazione aperturista nei confronti del mondo LGBT+ e addirittura di far svolgere il gay pride in Ucraina. Ora, mi spiegate come si conciliano l’idea di nazificazione con l’idea di dover essere tolleranti con il mondo LGBT+? O è vera una cosa o è vera l’altra. Perché se l’Ucraina è diventata il posto in cui si può fare il gay pride allegramente, non può essere a maggioranza nazista, e se è a maggioranza nazista non è un posto nel quale si può fare serenamente e impunemente il gay pride. Ora voi capite che la guerra, questa guerra come tutte le guerre, si fonda sulla menzogna. E dietro queste menzogne, che sono un’arma di distrazione di massa potentissima, si nascondono i veri interessi.
Dobbiamo avere anche il coraggio di fare un po’ di autocritica perché c’è un altro elemento che non torna e riguarda il tema delle sanzioni, su cui c’è molto dibattito. Per la mia esperienza, posso dire che le sanzioni non hanno mai funzionato. Io non conosco nessun regime che sia stato schiacciato grazie alle sanzioni (si pensi a Cuba, Iran, Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia, e poi ancora Venezuela, Corea del Nord…). Ora io non so se queste sanzioni contro la Russia funzioneranno oppure no, se sono migliori di altre o se tengono più conto della povera gente. Però una cosa la so: da quanto dicono, stanno funzionando dal punto di vista dell’approvvigionamento militare, perché le forze russe non dispongono a sufficienza di materiale bellico, poiché non arrivano le componenti dall’occidente che servono per confezionare le armi. Questo vuol dire che siamo noi che li abbiamo armati in tutti questi anni! E l’esportazione di armamenti non avviene come merce ordinaria (a Brescia un po’ di esperienza ce l’avete), ma passando attraverso l’autorizzazione dei governi. E adesso ci sorprendiamo del fatto che Putin abbia un certo tipo di armamenti. Quello che sto cercando di dire è che ci sono dei conflitti che forse si potevano evitare, se non si fossero forniti gli strumenti necessari ad affrontare un conflitto. Forse, con qualche missile in meno, Putin avrebbe avuto qualche ambizione in meno oggi.
Il risultato è che per i prossimi mesi, o per i prossimi anni, almeno fino a quando Putin sarà al potere, non potremo dormire sonni tranquilli. E questo anche se dovesse finire stasera la guerra in Ucraina. Perché in tutti questi anni la Russia ha disseminato in Europa bombe a orologeria, che vengono utilizzate non per esplodere ma per ricordare ai nostri governi che lì ci sono delle bombe a orologeria: pensiamo alla Transnistria, alla Gagauzia – che è un altro posto che ho scoperto andandoci alcuni mesi fa, una provincia autonoma all’interno della Moldavia, riconosciuta (a differenza della Transnistria che non lo è), la cui popolazione è costituita da centocinquantamila abitanti in maggioranza turcofoni ma russofili (non necessariamente russofoni).
Perché ho scritto un libro su questa guerra e non su altre? Perché penso che — per tutte le ragioni citate e per molte altre — questa guerra sia un po’ il segno di questi tempi e che molto di quello che accadrà nei prossimi 10, 15 o 20 anni dipenda da quanto sta accadendo in questo momento in Ucraina. Percepiamo di meno il pur innegabile condizionamento di altri conflitti come quelli in Siria o in Libia. Nel caso dell’Ucraina, l’impatto è molto più diretto. Se non per altro, perché scopriamo ad esempio che i nostri piatti di pastasciutta dipendono dal grano ucraino che oggi è diventato un problema gigantesco, e che la fame — anche la nostra fame, per quanto relativa — viene utilizzata ancora una volta come arma non convenzionale. Perché quando si impedisce al grano di uscire dall’Ucraina, si stanno affamando più di 40 milioni di persone in Africa (che dipende fortemente dai cereali ucraini) e allo stesso tempo si sta mettendo in difficoltà l’economia di altri paesi. E allora la domanda, per tornare alla nostra generosità, dopo il problema del rialzo dei prezzi di benzina e gas, quanto siamo disposti a pagare per i generi alimentari da qui a qualche mese o anno? Non è che alla fine, a causa di questi disagi e incrementi di prezzi, cominceremo a guardare con meno simpatia alla causa ucraina?
Questa è una guerra di logoramento che, come tale, logora chi combatte, logora l’aggressore, ma il mio timore è che alla lunga possa logorare anche noi.
DOMANDE DEL PUBBLICO
Prima di tutto volevo ringraziarti per la riflessione che hai fatto sui bambini che salutano i loro papà. Ci si sofferma raramente a pensare quale sarà il futuro dei bambini, degli adolescenti che vivono in questa guerra e a riflettere su quale popolazione ci troveremo domani, con quali problemi e con quali difficoltà, e come saranno i loro pensieri rispetto alla guerra, rispetto alla pace, rispetto alla convivenza. La mia domanda riguarda quel ragazzo di 21 anni che è stato condannato all’ergastolo perché ha ucciso dei civili. Il fatto mi ha colpito molto perché questo ragazzo ha 21 anni e forse è andato in guerra senza sapere nemmeno che andava in guerra. Mi colpisce perché si tratta di un ragazzo giovane che ci rimette la vita, mentre i responsabili della guerra sono altri. E mi chiedo: che significato ha questo processo in questa situazione?
Sì, il ragazzo ha 21 anni, molti suoi commilitoni ne hanno 18 e sono ancora più giovani. Se avete visto le loro fattezze sapete che sono proprio dei ragazzini. Io penso che in guerra paghino sempre gli ultimi. Questo ragazzo ha dei superiori che hanno dato degli ordini, i suoi superiori hanno dei superiori che hanno permesso che accadessero queste cose, e i superiori a Mosca, a loro volta, hanno avuto un ordine politico. Qui tocchiamo un argomento molto scivoloso che è quello della giustizia internazionale. Quando un soldato dice “Ho eseguito un ordine” — l’abbiamo sentito molte altre volte, pensiamo a Norimberga, al caso Priebke — non mi sento di dire che non andava condannato, se le prove ci sono (ma non ho seguito il processo). Però non mi sento neanche di chiudere la faccenda con la condanna del ragazzo, non mi basta. Ancora una volta rischiamo di perderci nel campo delle ipocrisie, perché la risposta può darla solo la Corte Penale Internazionale dell’Aja che sta lavorando e devo dire che la cinquantina di investigatori che la compongono sta lavorando anche con rapidità e efficienza.
Continua a leggere
Lei è un inviato di guerra. Quando parte non sa se tornerà. Cosa dice la sua famiglia ogni volta? Poi una seconda domanda, forse inopportuna: vorrei sapere cosa pensa del professor Orsini, del suo tour nei teatri e dello stuolo di fan che si ritrova.
Il bello della democrazia è che Orsini può dire quello che vuole in Italia e non potrebbe dire quello che vuole in Russia, dove forse potrebbe dire quello che altri gli direbbero di dire. Tra l’altro lui continua a premettere che questa sia un’aggressione, per poi aggiungere una serie di altre cose. In Russia non potrebbe dire: “Questa è un’aggressione, però la colpa è anche degli altri”, perché già il parlare di aggressione suonerebbe inaccettabile.
Continua a leggere
Nutro invece una profondissima stima dei pacifisti di sempre, perché queste cose le hanno sempre sostenute. Si può essere d’accordo oppure no, ma non hanno deciso di cambiare registro per l’Ucraina. Mi sono anche molto arrabbiato in proposito quando in Ucraina, per esempio, hanno scritto traditore sulla porta di casa di un pacifista noto da 30 anni. Ho detto: non è un traditore, lui pensa che si possa difendere la patria in altri modi. Sarà giusto o sbagliato, però lo ha sempre pensato e non ha mai nascosto le sue opinioni.
Diversa invece la posizione di chi, in Italia, ha sostenuto la linea dei porti chiusi, o l’allarme contro la sostituzione etnica e l’invasione, e adesso parla di trattative e dice che dobbiamo fare la pace. Di questi non mi fido. Anche perché in passato sono stati, per così dire, molto amici dell’aggressore, quindi sono poco terzi in questa faccenda. Credo invece molto di più in Papa Francesco, che condanna inequivocabilmente la guerra e chiede che le armi si fermino, per evitare che questa terza guerra mondiale combattuta a pezzi si estenda, e quando però gli chiedono se sia d’accordo sull’invio di armi agli ucraini, dopo avere permesso tutto questo, con grande umiltà, risponde: «Su questo non so giudicare perché sono lontano».
Cosa ci sta dicendo il Papa? Ci sta dicendo: ascoltiamo chi è lì. Non sta dicendo: amiamo gli ucraini, prolunghiamo la guerra. Sta dicendo che una serie di cose non funzionano, che la guerra è sempre barbarie, ma che chi è lontano deve avere l’umiltà di capire che è un dovere ascoltare chi in questo momento è lì, sotto le bombe. Voi capite che questa è una percezione e anche un’impostazione molto diversa rispetto a tutto il dibattito.
Sulla mia famiglia, è da 30 anni che va avanti così, come dice mia moglie. Nel libro un po’ racconto questa cosa. Durante la mia permanenza a Kiev, c’è stato un momento in cui mi era stato offerto di andare via dalla residenza dell’ambasciatore con un convoglio Onu e io ho deciso di restare. È stata una decisione molto faticosa, molto sofferta, perché in quel frangente avevo anche molta paura e la scelta più naturale sarebbe stata andarsene. Il libro comincia proprio ricordando questo aspetto, dell’incertezza e del rischio a cui si va incontro quando si parte per una guerra, con un biglietto che è quasi sempre un biglietto di sola andata. Prima di lasciare l’Italia il giornale mi aveva inviato copia dell’assicurazione in inglese — adesso ho l’assicurazione guerra rinnovata per tutto il 2022, quindi quest’anno me le sciroppo tutte, e speriamo che ce ne siano poche! — e nella polizza ricordo che erano coperte tutte le spese mediche, compreso il rimpatrio del cadavere. Ma in quell’occasione a Kiev, io ho scelto di restare, per una decisione che non ho condiviso con nessuno, per una ragione molto semplice: perché se poi la decisione si rivela sbagliata e l’hai condivisa con qualcuno, questi si potrebbe portare per sempre addosso il senso di colpa nel caso che ti abbia suggerito di partire oppure di restare e poi succede il peggio, magari a causa di un bombardamento del convoglio o in città.
E in quel momento ho ricevuto un messaggio di mia moglie che, nella sua infinita saggezza, che si aggiunge alla sua capacità di preveggenza, senza che sapesse nulla di quello che stava capitando, diceva: «Fai le cose senza fretta e bene». È stato uno di quei momenti in cui dici: okay, non devo farmi condizionare dalla voglia che ho di tornare a casa, di rivedere la mia famiglia, perché devo lavorare, devo lavorare bene, il più possibile in sicurezza. Per quanto, in guerra, non ci possiamo mai illudere di essere sicuri nonostante il giubbotto antiproiettile e il caschetto. Voi sapete che sono già più di 20 i giornalisti morti in Ucraina (a fine maggio il numero è salito a 29, ndr). È una guerra brutta per chi fa il mio mestiere. Però io rispondo sempre a questa domanda facendone un’altra: provate a immaginare questa guerra senza il racconto degli inviati speciali. Come sarebbe? Qualcuno deve pur farlo.
Le sue parole mi hanno fatto venire in mente un film che ho visto qualche anno fa, “Mr Jones” (“L’ombra di Stalin”, diretto dalla polacca Agnieszka Holland nel 2019, ndr) sulla carestia dell’Ucraina, l’Holodomor appunto, a proposito della quale in questi giorni è stato reso pubblico un documento di Stalin che aveva pianificato a suo tempo questa operazione. Lei ha avuto modo di incontrare gli ucraini direttamente. Quanto influisce psicologicamente, secondo lei, tutto questo sull’opinione che gli ucraini possono avere dei russi e sulle relazioni attuali tra le due popolazioni?
Fino al 23 febbraio, tra la popolazione ucraina e la popolazione russa c’erano rapporti di fratellanza. Nei primi giorni di guerra, quando cascavano centinaia di missili, la gente che noi incontravamo per strada e i testimoni ci dicevano: «Il nostro nemico non è il popolo russo, il nostro nemico è Vladimir Putin». Si parla infatti la stessa lingua, le famiglie sono molto intrecciate. L’Ucraina è anche terra di vacanze per i russi (il mar Nero, Odessa, la stessa Mariupol, solo per citare alcuni luoghi). L’Ucraina poi è anche la Gerusalemme dell’ortodossia, in particolare Kiev, dove si trova un complesso religioso, quello di Santa Sofia, che è il cuore dell’ortodossia, dove nasce l’ortodossia e la cultura “Rus” da cui poi maturerà l’esperienza che diventerà Russia.
Continua a leggere
E allora oggi in Ucraina molte persone ti dicono che il loro nemico è il popolo russo, perché a quel punto ritorna la memoria della grande carestia, della sopraffazione e riaffiorano anche i soprusi verbali. L’Ucraina era definita la piccola Russia, ma piccola non era riferito alla grandezza del paese (che è più piccolo della Russia, ma rimane un paese enorme), ma molte volte veniva usato in tono dispregiativo, perché gli ucraini erano considerati in parte della letteratura ufficiale russa come dei contadinelli sciocchi e zoticoni. Ricordate la pubblicità di qualche anno fa dove c’era l’astronauta che precipita in Ucraina e alla contadina che si avvicina informandolo che quella è l’Ucraina, lui dice: «Allora siamo in Russia», e lei risponde: «No, l’Ucraina è l’Ucraina»? Ecco, questa rappresentazione che ci faceva anche sorridere a suo tempo oggi ci spiega moltissimo di quali erano le relazioni tra questi paesi. E oggi tutti questi elementi di rivalsa stanno ritornando, i rancori antichi che erano sopiti in realtà si stanno risvegliando e con essi prendono forma anche il risentimento e la vendetta.
Nel suo discorso del 23 febbraio — che vi invito a rileggere, io lo riporto nel libro — Putin dice che non esiste un’identità ucraina. E se tu dici questo stai negando il diritto all’esistenza di un popolo, di una nazione. Pensiamo se qualcuno provasse a invadere l’Italia e dicesse che non esiste un’identità italiana, ovvero che non abbiamo diritto di esistere così come siamo, negando la nostra storia, le nostre radici, il nostro Dna.
Questa è una guerra che purtroppo rischia di proseguire anche su questi elementi, e quando poi questi aspetti prendono il sopravvento non si sa più dove si va a finire. Personalmente sono preoccupato dell’invio di armi, soprattutto se parliamo di un missile che ha una gittata di 1000 km, perché può succedere che magari trovi un comandante ucraino che non ne può più e venga lanciato fino a Mosca o nei pressi di Mosca. Cosa succederebbe dopo?
È chiaro che qui siamo di fronte a un’ingiustizia, perché Mosca si può permettere di lanciare missili a Kiev, mentre Kiev non si può permettere di lanciare missili a Mosca. E dentro a questa disparità, a queste contraddizioni, c’è il timore che questa guerra nel tempo si possa trasformare in qualcosa d’altro. È difficile fare previsioni, abbiamo solo la speranza che ci si sieda al tavolo negoziale sul serio — cosa che non si è mai fatta —, che si cominci con un cessate il fuoco — perché non si può negoziare se non si fermano i combattimenti, il che non vuol dire necessariamente una tregua, ma che si inizi a ragionare — e poi da lì si costruisca un percorso. In questo momento però le intenzioni non ci sono perché gli interessi in campo sono ampli. E perché Vladimir Putin non si può permettere di chiudere la partita in questo momento avendo in mano ciò che aveva già prima del 23 febbraio, cioè un pezzo di Donbass e la Crimea. È riuscito ad aggiungere Mariupol che però è una città che va ricostruita per intero, con una fascia costiera che va totalmente ricostruita e anche ripopolata e per farlo ci vorranno 20 anni probabilmente. I russi vaneggiano, come ho sentito dire ieri da parte di un loro ministro, di bellissimi villaggi turistici che verranno costruiti sulla costa di Mariupol, come se la guerra si potesse cancellare con un colpo di spugna, mentre tutti sappiamo che c’è un costo anche umano e psicologico che non si risolve dall’oggi al domani.
Le guerre sono sempre maledettamente complesse e noi abbiamo il dovere di entrare dentro la complessità. Quando la guerra finirà, la guerra non finirà. Nei Balcani la guerra non è finita alla fine degli anni ’90. Chi frequenta i Balcani sa che il dolore, il rancore sono ancora attuali e l’istinto e l’uso della violenza vengono perpetrati nel tempo. Il modo con cui alcune polizie si muovono in alcuni contesti è frutto di quell’epoca lì, anche se il poliziotto oggi ha 20 anni e non era neanche nato durante la guerra della ex-Jugoslavia.
Questo ci insegnano le storie dei conflitti. E questo rischia di essere il più grande risultato di Putin, cioè quello di cambiare e modificare per un bel pezzo di storia futura il nostro modo di guardarci tra europei.
NELLO SCAVO è inviato speciale di «Avvenire». Negli anni ha indagato sulla criminalità organizzata e il terrorismo globale, firmando servizi da molte zone calde come la ex Jugoslavia, il Sudest asiatico, i paesi dell’ex URSS, l’America Latina, il Corno d’Africa e il Maghreb. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio CIDU per i Diritti Umani – Ministero degli Esteri (2020) e Il Premiolino (2020). Ha pubblicato Pescatori di uomini (Garzanti, 2020), con don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea Saving Humans, e Kiev (Garzanti, 2022).
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 2, Giugno 2022