L’esempio e gli insegnamenti di Giorgio La Pira
(di P. Antonio Maria Sicari ocd)

In un passo significativo della Octogesima Adveniens (il documento con cui Paolo VI, nel 1971, commemorò l’ottantesimo anniversario della Rerum Novarum) troviamo questa bella definizione: “La politica è una maniera esigente di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (n. 46).
Per illustrare questa definizione vogliamo ricordare la vicenda di Giorgio La Pira che visse la politica come impegno di santità cristiana.
Dal punto di vista biografico basti qui ricordare la nota apparsa sul quotidiano francese Le Monde il 29 giugno 1955, quando La Pira aveva cinquantun’anni e, come sindaco di Firenze, aveva requisito d’autorità una fabbrica per impedirne la chiusura e l’aveva affidata agli stessi operai, riuniti in cooperativa:
«Giorgio La Pira: chi non conosce oggi questo piccolo uomo vivace e dolce, questo “cristiano da choc”, che si è lanciato nella vita pubblica senza nulla concedere alla potenza del denaro, né perdere nulla del suo temperamento d’asceta? Il fatto è tanto raro che sembra un miracolo. Totalmente povero, una camera d’ospedale per casa, votato al celibato, La Pira attraversa gli onori senza vederli. Coltiva due grandi amori: l’amore per gli operai e per gli Ordini contemplativi con i quali intrattiene rapporti costanti».
Scegliamo dunque (dal Ritratto che gli abbiamo dedicato già nel 2005) alcune citazioni per caratterizzare la sua personalità cristiana e la sua opera, a cominciare dai suoi discorsi più celebri.
Certe espressioni particolarmente colorite ed efficaci, che ritorneranno più volte nei suoi interventi (perfino in quello che terrà ai sindaci del mondo), La Pira le aveva già utilizzate e spiegate più volte a quelli che chiamava “suoi compagni di Messa”. Gli rimase sempre particolarmente cara questa celebre formulazione: «In ogni città degna di questo nome ciascuno deve avere una casa per amare, una scuola per imparare, un’officina per lavorare, un ospedale per guarire, una chiesa per pregare. E poi tanti giardini perché i bambini possano giocare e i vecchi possano riposare in santa pace».
Solo su un punto si ritrovò isolato, quando – in sede di votazione al Parlamento – propose, di sua spontanea iniziativa, che l’intestazione della Costituzione Italiana si aprisse “nel nome di Dio”. Reagirono per primi, preoccupatissimi, i suoi stessi amici: “Vuoi far mettere ai voti Dio, col rischio di far emergere che, in questa Assemblea, Dio è in minoranza?”. Allora col pianto nel cuore, La Pira si alzò a spiegare il suo intento: “Cercavo una convergenza, non una divergenza”, disse. Poi ritirò l’emendamento. Finì il suo intervento appassionato – mentre tutti restavano in assoluto silenzio – concludendolo con un lento, largo segno di Croce.
E tutta l’Assemblea, silenziosamente, si alzò in piedi in segno di rispetto.
Vennero poi le difficili elezioni del 1948, e La Pira fu eletto sottosegretario al Ministero del Lavoro nel primo governo De Gasperi, strana scelta se si pensa che aveva già la fama di essere un mistico e un sognatore. Lui stesso ci scherzava sopra: «Dicono che sono un sognatore, ma dimenticano che sono anche un ragioniere. So tenere la partita doppia!».
E dava prova della sua abilità, anche nel rifare i conti al Ministro del Bilancio o a certi industriali che esigevano provvedimenti a loro favore. Su questo La Pira era intransigente: l’incarico ricevuto aveva provocato in lui una vera “conversione”. Fino a quel momento egli sapeva quasi tutto della carità, ora si sentiva costretto a sapere tutto anche sulla giustizia. Come privato cittadino s’era interessato dei poveri, ora doveva preoccuparsi perché la società e lo Stato non li producessero, con scelte e leggi ingiuste.
Eletto sindaco, il presidente della Camera lo invitò subito a scegliere, e La Pira rispose: «Davanti alla illegittima alternativa tra Montecitorio e Firenze (illegittima, perché l’avevano cucita apposta per lui), scelgo Firenze, perla del mondo».
Trovò una città da ricostruire dalle macerie dei bombardamenti e dalle miserie del dopoguerra: diecimila disoccupati da impiegare (impedendo soprattutto che la chiusura già ventilata delle tre principali industrie cittadine, ne raddoppiasse il numero), bloccare gli sfratti in pauroso aumento, aprire nuovi cantieri di lavoro costruendo nuove case (anzi nuovi quartieri) e ricostruendo i ponti distrutti dai nazisti, edificando una ventina di nuove scuole; organizzare i principali servizi urbani, costruire una centrale del latte e un mercato ortofrutticolo, riaprire il teatro comunale (“perché la gente, diceva, ha bisogno di bellezza”); potenziare l’assistenza pubblica.
Ma questo era ancora niente rispetto a ciò che accadde nel 1953 quando la proprietà delle “Fonderie Pignone” (che davano lavoro a circa duemila operai), cominciò a inviare le lettere di licenziamento, per cessata attività. E c’erano in gioco interessi internazionali per affrettarne la chiusura. La Pira si schierò con gli operai che avevano occupato la fabbrica, riconoscendo legittima la loro azione, anche in termini giuridici. Pretese l’intervento di politici e di uomini di Chiesa che avessero una qualche possibilità di influire sulla decisione. Minacciò di far requisire la fabbrica e stese un lunghissimo, puntiglioso documento per dimostrare a termini di legge che ne aveva il diritto. Lo accusarono di “fare il gioco dei comunisti”, e perfino De Gasperi gli scrisse lamentandosene. La Pira rispose severamente: «Il gioco dei comunisti lo fanno coloro che disconoscono la santità e l’improrogabilità del pane quotidiano (procurato con il lavoro) gettando nella disperazione e nella radicale sfiducia i deboli».
E a tutti gridava: «Il pane, e quindi il lavoro, è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altro. Questo non è marxismo: è Vangelo!». Faceva chiaramente capire che non era disposto a cedere: «Possono passare sul mio cadavere, ma la Pignone non chiuderà!». Si arrivò al punto che il Ministro degli Interni, Fanfani (il suo più caro amico), si sentì quasi obbligato a minacciare l’arresto del sindaco di Firenze. Intervenne De Gasperi: «Arrestare La Pira? Per carità! È già un santo, non facciamolo diventare anche martire».
Cominciò ad organizzare ogni anno i “Convegni per la pace e la civiltà cristiana”, invitando a dialogare uomini di cultura di ogni estrazione (c’erano anche arabi, ebrei, africani…), su temi che egli stesso inventava e introduceva. Il primo convegno aveva per titolo: «Civiltà e pace». Negli anni successivi seguirono: «Preghiera e poesia», «Cultura e Rivelazione», «Speranza teologale e speranze umane», «Storia e profezia», con un numero sempre crescente di partecipanti. Erano gli anni del dopoguerra, quando le nazioni erano ancora ripiegate su se stesse, e il dialogo quasi inesistente.
Ebbene, molti cristiani, pur essendo stati personalmente testimoni di tutto questo processo storico, veramente impensabile agli inizi degli anni ‘50, oggi faticano a riconoscervi la mano provvidenziale di Dio, o ne hanno una percezione vaga, generica e sentimentale.
Eppure si tratta di fatti già accaduti e ben documentabili! Ma proprio questo fu il carisma di La Pira: questi stessi fatti (che noi facciamo fatica a riconoscere, perfino dopo che sono accaduti), egli li presagiva da lontano, prima ancora che accadessero, in forza della sua «ipotesi di lavoro» tutta fondata sulla Risurrezione di Cristo e sulla forza della preghiera.
I fatti che noi abbiamo visto accadere e che a molti sembrarono quasi casuali, egli li aveva già anticipatamente tratti dalla sua fede, per una sorta di «logica consequenzialità» che cristianamente si chiama speranza.
Questo fu propriamente La Pira: il santo della speranza cristiana, tradotta costantemente in azione. Ed anche certi suoi atteggiamenti e discorsi che allora infastidirono molti, e anche oggi lasciano perplessi, perché sembrano dettati da un certo integrismo, ma hanno la loro bella spiegazione proprio in questo: La Pira non li traeva dalla sua fede, come se pretendesse imporla ideologicamente, ma li traeva dalla sua speranza. Così, se invitava sistematicamente i suoi ospiti, (perfino musulmani o atei) alla S. Messa o li sommergeva di citazioni bibliche e di argomentazioni rivelate, non lo faceva per imporre la sua fede, ma per condividere con tutti la sua speranza: li “convocava” tutti, per così dire, in un futuro più bello e accogliente che egli già pregustava, e lo faceva con tanta simpatia e larghezza di cuore che tutti ne restavano soggiogati.
E che avesse ragione lo dimostrò l’episodio del suo simpatico incontro con un grande vecchio filosofo marxista, l’ungherese Georgy Lukacs. Fu l’unica volta che La Pira, per rispetto al filosofo, cercò di non essere “integrista” e prese il discorso alla lontana, tentando un approccio culturale. Ma si sentì dire: «Professore, lasci stare i filosofi! Sono troppo vecchio io per ascoltare i filosofi! Mi parli del Profeta Isaia!» e Lucaks si mostrò attentissimo quando si giunse a parlare della Risurrezione di Gesù. In seguito, ogni volta che raccontava il fatto, La Pira non finiva più di pentirsi di quell’unica volta in vita che aveva deciso di essere discreto e prudente!
Leggiamo in una sua lettera alle claustrali questa domanda struggente: «Reverenda Madre, sono un sognatore? Forse, ma tutto il cristianesimo è un sogno: il dolcissimo sogno di un Dio fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio! Se questo sogno è “reale” – e di quale realtà! –, perché non sarebbero reali gli altri sogni che ad esso sono essenzialmente collegati?».
Durante il viaggio in Russia, al suo segretario che si rammaricava di vedere le poche chiese deserte, frequentate solo da alcune donne anziane, con la candelina in mano, aveva detto: «Tu dovresti smettere di fare il giornalista e dedicarti piuttosto alla teologia delle vecchine. Vedi, se queste vecchine non tenessero accesa la fiammella della fede in Cristo, dove troverebbero le nuove generazioni russe il fuoco per accendere l’incendio cristiano che inevitabilmente verrà?». Questo era il carisma di La Pira: dove gli altri vedevano una fiammella in procinto di spegnersi, lui vedeva una fiammella pronta a far divampare un incendio.
Vale la pena di citare qui le parole con cui lo stesso La Pira riferirà poi alle suore di clausura la sintesi di un suo discorso al Cremlino: «Lo dissi con estrema chiarezza: io non sono un sognatore, un illuso. Sono un credente, cioè uno che cerca di poggiare tutta la sua azione (come casa sopra la roccia) su una “Ipotesi Di Lavoro”, questa ipotesi di lavoro è costituita dalla Risurrezione di Cristo e dalla Assunzione di Maria, ambedue causa insieme efficiente e finale della storia del mondo, ambedue di quel mistero di fondo che muove ed illumina la storia totale dei popoli e delle nazioni.
Ipotesi di lavoro certamente singolare, non comune nella meditazione e nell’azione politica, sulla quale si può – da parte dei non credenti – anche discutere, ma in ordine alla quale nessuno può evitare la domanda tanto seria: e se fosse vera? (ed è vera!).
Ipotesi di lavoro che include in sé quest’altra affermazione: la più potente forza storica che muove i popoli e le nazioni è l’orazione! L’orazione? Proprio: l’orazione (aggiungevo io), quella dei monasteri di clausura del mondo intero, che sono i veri artefici – con Maria Assunta – di questo singolare ponte mariano destinato a collegare Oriente e Occidente, Mosca e Fatima…
Dicendo queste cose i miei interlocutori mi guardavano esterrefatti (per così dire), eppure non si poteva negare una coerenza logica perfetta, tanto nella struttura sillogistica del mio ragionamento quanto nella logicità quasi geometrica delle mie azioni (visita ai monasteri [russi] ecc…). Tutto era legato alla premessa, all’ipotesi di lavoro; posta quella, tutto il ragionamento e tutta l’azione prendevano un’andatura semplice, coerente, convincente: tolta quella, tutto cadeva.
Il gioco era sottilissimo: si camminava sulle acque della fede. Dissi loro: “Ricordatevi! I popoli battezzati sono come gli uccelli e come i pesci che tornano sempre, anche da molto lontano ai loro nidi! Tornano alla casa paterna dove sono nati e dalla quale sono partiti… Così i vostri popoli: si ricorderanno (anzi sono già in via di ricordarsi) della bellezza, della pace, della gioia della casa natale (la casa mistica del battesimo e della preghiera) e torneranno ad essa! E daranno gioia al Padre celeste…”».
Al termine di questo nostro excursus sulla vita e il messaggio di un politico così straordinario, è lecito chiedersi se parole e programmi cristiani così cristianamente espliciti possano ancora parlare all’uomo e al mondo di oggi. E forse una risposta calibrata sul nostro tempo ci viene dal Magistero più recente della Chiesa, che non sembra affatto rinunciare alla sostanza di un messaggio alto come quello di La Pira. Così ad esempio sembra affermare Papa Benedetto, in uno dei suoi ultimi interventi davanti al Pontificio Consiglio per i Laici: «Riprendendo l’espressione dei miei Predecessori, posso anch’io affermare che la politica è un ambito molto importante dell’esercizio della carità. […] C’è bisogno di politici autenticamente cristiani, ma prima ancora di fedeli laici che siano testimoni di Cristo e del Vangelo nella comunità civile e politica. […] Bisogna recuperare e rinvigorire un’autentica sapienza politica; essere esigenti in ciò che riguarda la propria competenza; servirsi criticamente delle indagini delle scienze umane; affrontare la realtà in tutti i suoi aspetti, andando oltre ogni riduzionismo ideologico o pretesa utopica; mostrarsi aperti ad ogni vero dialogo e collaborazione, tenendo presente che la politica è anche una complessa arte di equilibrio tra ideali e interessi, ma senza mai dimenticare che il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà, chiave di giudizio e di trasformazione. È necessaria una vera “rivoluzione dell’amore”» (Discorso alla XXV Assemblea plenaria, 21 maggio 2010).
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 3, Settembre 2022