(di Fr. Marco Sgroi ocd)
Per i giovani di oggi pare che l’amicizia sia al primo posto della scala dei valori, più della famiglia. Ma non è una novità. Da sempre l’uomo ha valutato l’amicizia come qualcosa di assolutamente necessario, al di là dei legami di sangue. Ma quali sono i modelli di amicizia più interessanti che i grandi scrittori e filosofi ci hanno offerto? E qual è l’esperienza più vera di amicizia che tutti desideriamo?

L’amicizia nella storia e nella Bibbia
Antichissima è l’esperienza dell’amicizia e quanto mai celebrata in tutte le culture e in tutti i tempi: basti pensare all’esperienza emblematica di Oreste e Pilade, ricordata da Ovidio e ripresa, poi, da Dante nella Commedia; alla “dipendenza” reciproca di Armodio e Aristogitone cantata da Hölderlin nel suo capolavoro Iperione; alla edificante relazione — che Saint–Exupéry consegna all’eternità letteraria — tra la volpe e il piccolo principe; o allo struggente rapporto d’amicizia che si “costruisce” e “matura” tra le mura di una vecchia soffitta abbandonata, tra l’orfanello Marcellino e il grande Crocifisso.
La Scrittura, poi, in primis, porta con sé e consegna all’uomo di oggi e di sempre parole dolcissime sull’amicizia: basti pensare a Gionata e Davide — quest’ultimo tesserà delle splendenti parole d’elogio per il fedele amico ucciso in battaglia, «Tu mi eri molto caro; la tua amicizia era per me preziosa, più che amore di donna» (2Sam 1,26), — o alla trattazione sapienziale del sesto capitolo del libro del Siracide. Infine (e a fondamento di tutto!) è necessario ricordare quella specifica amicizia “ri‒velata” continuamente in tutta la Scrittura tra Dio e il suo popolo — che in Mosè scorge il partner ideale (cfr. Es 33,11) — la quale, a sua volta, trova pieno compimento nella persona di Cristo e nelle sue parole — che “sigillano”, appunto, sotto il segno dell’amicizia, l’offerta sulla Croce —: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Se, dunque, Dio stesso ha deciso, nel Suo grande amore, di rivelarsi agli uomini, cioè di parlare e di intrattenersi con loro come ad amici (cfr. Dei Verbum 2), allora forse l’amicizia sarà un’esperienza relazionale e quanto mai necessaria e vitale, sia per l’uomo che si rapporterà con l’uomo, sia con l’uomo che intenderà, a maggior ragione, relazionarsi con Dio.
Per questo motivo indagare l’esperienza, in sé, dell’amicizia sembra quanto mai prioritario e urgente, soprattutto in un tempo in cui la sfera relazionale dell’intero ordo amoris sembra essere, purtroppo, sprofondata in un relativismo avviluppante. Inoltre, per far sì che tale esperienza non resti solo una “forma” idealizzata, è necessario mostrare come essa è stata “incarnata” da uomini, sia pagani che cristiani; cioè da figure che riconducono l’amicizia all’esperienza dell’intera humanitas.
L’insegnamento di Cicerone
Lungo l’arco della storia, due grandi illustri si sono distinti (ma non sono gli unici) e brillano tutt’ora, per quel che hanno scritto — e ancor prima vissuto! — in merito all’amicizia: l’oratore, scrittore, filosofo e politico Marco Tullio Cicerone e il monaco Aelredo di Rievaulx. Due figure distanti nel tempo, ma vicine come modo di pensare e riflettere su questa esperienza che continua a ri–generare i millenni e la storia.
Cicerone, con il suo Laelius: de amicitia, consegna all’umanità un classico imprescindibile, che all’interno di una dinamica di rivelazione–nascondimento mette in luce — tra le righe — un rapporto intimo di amicizia che, fiorita in tenera età, non si affievolì lungo la parabola della vita: l’amicizia tra il suo cuore e quello dell’amico Attico.
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Frutto dell’amicizia, per Cicerone, è quell’incontro “perfetto”, di tutti i motivi umani e religiosi, che si realizza con benevolenza e carità. Ed essa, forse, risulta essere il dono più grande che gli dei hanno concesso all’umanità. Però, cosa vuol dire con ciò Cicerone? Sostanzialmente, egli parla di una “struttura” — quella dell’amicizia — che si realizza mediante un mutuo accordo (ovvero, un consenso comune su di un “termine” condiviso) tra quella disposizione affettuosa dell’animo, con la quale si vuole il bene di una persona per se stessa (benevolenza) e un amore più ristretto rispetto a quello per il genere umano (carità). Per questo motivo il Laelius mostra come ogni vantaggio dell’amicizia sta nell’amare in sé e per sé; in un amore né calcolato, né soppesato; che dona senza riserve affetto e tenerezza; che si abbassa e si fa uguale all’inferiore per innalzarlo; che accoglie la correzione e accetta buoni consigli; un amore che chiede obbedienza. I vantaggi, allora, di questa amicizia sono tanto grandi che: «io neppure saprei descrivere. […] come si può viverla una vita che non riposi sull’affetto ricambiato di un amico? Che c’è di più dolce dell’avere qualcuno col quale tu non esiti a parlare come con te stesso? Quale vantaggio puoi trovare tanto grande nella prosperità se non hai qualcuno che ne goda come tu stesso ne godi? E poi la sventura sarebbe difficile a sopportarsi senza un amico che ne soffrisse anche più di te» (Cicerone, De amicitia, 22). Essa, oltre a ciò, offre la possibilità di riversare l’amore, che è proprio dell’uomo, sull’amico che si configura come un’alter ego, come lo specchio dell’anima (non quello in cui s’oblia Narciso, ma quello in cui si espande il cuore); come, colui che restituisce l’immagine di se stesso in modo nuovo e ri–significato. Qui sta la bellezza dell’amicizia ciceroniana fondata su di un vincolo, forte e stretto, all’interno di una sublime e fragile libertà, che porta con sé la logica (anche) di un possibile rifiuto. Per tutto questo è difficile trovare un’amicizia «vera e completa, come è esistita tra quei pochi che sono rimasti famosi. Essa aggiunge splendore alla prosperità e rende sopportabile la sventura facendone partecipe l’amico. […] Accende per l’avvenire una speranza di bene e non permette che la forza d’animo si illanguidisca o crolli; perché chi guarda un vero amico, contempla, in certo modo, l’immagine di se stesso. Ecco perché gli assenti sono presenti, i diseredati ricchi, i deboli forti e, cosa più ardua ad affermarsi, i morti rivivono» (Cicerone, De amicitia, 22–23).
L’amicizia spirituale secondo Aelredo
Se da un lato, perciò, Cicerone riconosce nel volto dell’amico una dignità tutta esclusiva, dal canto suo Aelredo — piccolo monaco dal cuore dolce e mite, abate di Rievaulx, vissuto tra il 1110 e il 1167 — rilegge il Laelius con lo sguardo rivolto a Cristo. Egli, infatti, nel volto dell’amico vede s–velato il volto di Cristo. Come è possibile ciò? Per Aelredo l’amicizia nasce tra buoni e trova origine e fondamento nell’amore di Dio. L’amicizia spirituale (che poi è, anche, il titolo del suo famoso opuscolo rivolto ai suoi monaci, sul tema esposto), per il “dottore monastico” dell’amicizia, non è altro che la com–penetrazione vicendevole nel cuore dell’amico, dove vengono svelati e comunicati gli intimi segreti alla luce di un Terzo soggetto che, contemporaneamente, è sempre il Primo, nel rapporto tra i due: Gesù Cristo. Da Lui, per Lui e in Lui, infatti, è possibile gustare la dolcezza dell’amicizia, poiché grazie a Lui essa ha la possibilità di trasfigurarsi in “estatica”. Solo in questa uscita da se stessi, allora, percorrendo i gradini che conducono verso la perfezione è possibile godere dell’amico nella gioia dello Spirito Santo che, peraltro, permette all’amicizia stessa di aprirsi a ciò che sta oltre l’immanente e il mondano, la beatitudine eterna. D’altra parte, però, non bisogna lasciarsi trarre in inganno! Con il termine “spirituale” egli non tratta di un’amicizia relegata alla sola sfera dello spirito, ma definisce un’amicizia “incarnata” con tutta la sua potenza e forza in una corporeità già trasfigurata per mezzo della risurrezione di Cristo. E solo da questa corporeità glorificata è possibile, dunque, dispiegare tutta la forza e la bellezza dell’amicizia spirituale che permette di “salire” dall’abbraccio dell’amico all’abbraccio di Cristo. Questo movimento di ascesa, per ultimo, manifesterà la sua essenziale verità — nonché riceverà forma concreta — se, realmente, nel volto dell’amico si s–velerà il volto di Cristo, affinché tale amicizia divenga preludio e inizio alla gioia della comunione divina e allo splendore del volto del Padre. E ciò «non sembra […] innaturale» se consideriamo «il cammino che, partendo dal Cristo che ispira in noi l’amore con cui amiamo l’amico, sale verso il Cristo che ci offre se stesso come amico da amare: così si aggiunge incanto a incanto, dolcezza a dolcezza, affetto ad affetto […] e così, salendo insieme per i diversi gradini dell’amore fino all’amicizia di Cristo» l’amico «diventa un solo spirito con Lui in un unico bacio» (Aelredo di Rievaulx, L’amicizia spirituale, 20–21).
Amici in Cristo
Per concludere, dunque, l’intuizione geniale dell’eclettico Cicerone risulta quanto mai vera se letta alla luce di Cristo e di quanto Aelredo scrive. Chi contempla, infatti, il volto dell’amico, in certo modo contempla l’immagine di se stesso (in cui si rivela Cristo); ma questo può essere reso pienamente “vero” solo a partire dalla persona di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Egli s–velandosi nel volto dell’amico, contemporaneamente, s–vela il volto del Padre; infatti, chi vede Lui vede il volto del Padre (cfr. Gv 14, 1–11). Si tratta, perciò, di accogliere l’invito di Aelredo, ovvero, di ascendere, nella relazione amicale, dall’abbraccio dell’amico a quello di Cristo e dal volto dell’amico a quello del Padre, affinché ogni uomo diventi ricco e si sazi, ogni debole si rinvigorisca e accresca la speranza, ogni morte quotidiana diventi, per mezzo dell’unico bacio che Cristo offre all’uomo, la strada di una quotidiana risurrezione.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 2, Giugno 2017