(di Stefania Giorgi)
La damnatio memoriae è una pratica antica che l’uomo ha sempre messo in atto per togliere di mezzo chi veniva considerato indegno di stare nella stessa comunità o era accusato di averla messa in pericolo. In particolare coloro che, in un dato momento della storia, dalla loro posizione di dominio, potevano giudicare i loro simili secondo determinati principi, si arrogavano spesso anche la facoltà di estrometterli pubblicamente dal consesso civile, tanto da ritenerli meritevoli di essere cancellati, simbolicamente, ma anche fisicamente dalla storia.

Vecchie e nuove gogne
Ritratti scalpellati, statue distrutte, monumenti danneggiati: quando si voleva cancellare il ricordo di un personaggio pubblico non si rispettava niente e nessuno. La damnatio memoriae si concretizzava nella pena della cancellazione di qualsiasi traccia di una persona e la distruzione di qualsiasi segno che potesse tramandarla ai posteri, come se quella persona non fosse mai esistita. In Egitto, ad esempio, il tempio di Hatshepsut a Deir el-Bahari, a Tebe, sulla sponda ovest del Nilo, è forse uno dei casi più famosi: statue rimosse, frantumate o sfigurate. Alla morte della regina-faraone infatti, Thutmosi III prima e il figlio Amenofi II poi, procedettero alla sistematica cancellazione di Hatshepsut dai monumenti, eliminando la sua figura e i suoi cartigli.
Nel mondo romano sono stati molti gli imperatori colpiti dalla damnatio memoriae: effigi incise sulle monete, perfino quelle circolanti, venivano abrase (poco per non compromettere il loro valore corrente), ma anche statue e bassorilievi, su archi trionfali e templi, subivano la distruzione del volto perché l’oblio cadesse su traditori e nemici della patria e per inviare un messaggio esplicito a tutti gli altri. Certo, il gesto più efficace per cancellare qualcuno era l’uccisione stessa di quel nemico, cosa che diversi imperatori non esitarono a scegliere come estrema ratio.
Fin da epoche remote quindi, poi anche nel Medioevo e nel corso dei secoli fino ad oggi, l’abitudine, o anche solo la tentazione, di rimuovere violentemente chi è considerato una minaccia per l’ordine costituito è qualcosa che appartiene alle società dittatoriali, rigide, ma anche, e ce ne stiamo accorgendo sempre più spesso, a democrazie palesemente o sottilmente illiberali.
Democrazia illiberale (o post-democrazia) è ovviamente un ossimoro (cioè una espressione che accosta due concetti opposti per renderne evidente la contraddizione), perché una democrazia è (dovrebbe essere) necessariamente pluralista, ma rischia invece di essere la descrizione della meta verso la quale si sta incamminando la società occidentale che si era forse illusa di esserne immune.
Il confronto non è più una virtù
Anche se è un tema antico e sempre presente in una società pluralista, in maniera esponenziale negli ultimi tempi sembra che il libero confronto delle opinioni abbia subito, in modo sempre più duro ed evidente, una grave battuta d’arresto, che sta facendo degenerare ogni tipo di dibattito, non solo quello dove i contenuti eticamente sensibili sono soliti dividere l’opinione pubblica. Pare infatti che dentro qualsiasi scambio di opinioni sia venuto meno l’assenso alla legittimità del discorso e del ragionamento dell’altro e che sia diventato perfettamente condivisibile l’atteggiamento di immediato giudizio, disprezzo, condanna, seguiti, specialmente da quando i social media sono diventati il luogo privilegiato dove si svolgono questi scontri, dalla gogna pubblica (online shaming), fino ad arrivare ad attacchi verbalmente e socialmente violenti che reclamano la cancellazione stessa del diritto di parola di quella persona (o perfino la sua “espulsione” dalla comunità, chiedendone le dimissioni o l’impossibilità ad accedere ai diritti fondamentali di espressione, di stampa, di lavoro…).
La descrizione di qualche caso concreto può convincere anche i più scettici rispetto al livello di discriminazione a cui si è arrivati, e c’è davvero l’imbarazzo della scelta nel raccontare episodi sempre più gravi, ma che sono entrati a far parte del nostro quotidiano fin da quando, per esempio, nel 2008 Papa Benedetto, invitato dal rettore dell’università La Sapienza di Roma, fu contestato e alla fine scelse di non pronunciare il suo intervento. O quando nel 2013 scoppiò uno scandalo attorno alle parole del presidente della Barilla, la più grande e famosa azienda italiana di pasta, che dichiarava che la loro pubblicità avrebbe sempre rappresentato la famiglia tradizionale, salvo poi scusarsi pubblicamente e decidere un capovolgimento nelle politiche di marketing arrivando ad essere al primo posto delle aziende lgbt-friendly.
Il caso Rowling
Una delle situazioni più recenti la cui notizia ha fatto letteralmente il giro del mondo riguarda la famosissima autrice della saga di Harry Potter, J.K. Rowling: da qualche tempo con i suoi commenti su Twitter ha cominciato a prendere posizione sulle tematiche oggi più scottanti, quelle che riguardano l’identità di genere, ma all’opposto della vulgata oggi in voga, venendo quindi attaccata, etichettata come transfobica, e minacciata. Nel Dicembre 2019 aveva preso le difese di una ricercatrice britannica, Maya Forstater, licenziata per aver scritto sui social che “chi ha fatto un percorso di transizione di genere da uomo a donna non può considerarsi davvero una donna”. La scrittrice aveva quindi sostenuto: «Vestitevi come volete. Chiamatevi come volete. Andate a letto con ogni adulto consenziente che volete. Vivete la vostra vita al massimo, in pace e sicurezza. Ma far perdere il lavoro alle donne per aver dichiarato che il sesso è una cosa reale?».
Queste parole sono bastate a scatenare il web e un ciclone di proteste di livello mondiale per il quale, nonostante abbia cercato di chiarire la sua posizione, senza comunque cambiarla, ormai viene identificata come una persona transfobica, di vedute ristrette, che mette in pericolo i diritti umani delle persone non binarie e alla quale dovrebbe essere impedito di parlare.
Dall’ambiente lgbt è stata subito qualificata dispregiativamente come una TERF (acronimo inglese che sta per “trans-exclusionary radical feminist”), soprattutto quando ha continuato ad esporsi, dichiarando di non avere nulla contro i diritti del mondo trans, ma invitando ad ascoltare anche altre voci dissonanti e approfondire i pericoli clinici e psicologici che stanno emergendo soprattutto nei più giovani.
Eppure dall’altra parte c’è un muro che non vuole sentire ragioni: a luglio 2020 si è permessa di ironizzare sulla scelta di un giornalista che parlava di salute riproduttiva utilizzando l’espressione “persone che hanno le mestruazioni” invece che il vocabolo “donne”, con questo tweet: “Sono sicura che esistesse una parola per queste persone. Aiutatemi… Danne? Done? Dumne?”. Il commento è stato considerato alla stregua di un discorso d’odio, per cui oggigiorno la parola “donna” può essere considerata offensiva e va quindi ignorata, ridefinita per comprendere sotto il suo ombrello semantico tutta una serie di sfumature di genere.
Rowling, continuando a chiarire la sua posizione (“dire la verità non significa odiare”), ha sottolineato che, al di là della ricerca per il riconoscimento di una verità oggettiva riguardo al sesso e all’identità di genere, che sembra invece cedere il passo alla dittatura delle sensazioni, questo è un discorso che riguarda la libertà di coscienza e di parola che lei vuole difendere, spiegando di aver ricevuto per corrispondenza privata le testimonianze di numerose donne che si sono dichiarate d’accordo con lei esprimendo però la scelta di non esporsi pubblicamente per paura di subire attacchi. Una nota attivista per i diritti delle donne, Posie Parker, si è vista rimuovere da una stazione di Edimburgo un manifesto pubblicitario con la scritta “I ❤ JK Rowling” per incitamento all’odio; la compagnia ferroviaria ha dichiarato che il manifesto è incompatibile con il proprio codice per la pubblicità che esclude materiale “a sostegno di un particolare punto di vista, politica o azione o attacchi ad esponenti o attività politiche di qualsiasi autorità governativa legislativa, centrale o locale”, quando è la stessa che fa affiggere con il suo stesso marchio i manifesti per il Pride.
All’inizio di Settembre 2020 la Rowling ha deciso di restituire il premio “Ripple for Hope” conferitole dall’organizzazione Robert Kennedy Human Rights poiché la presidente della suddetta associazione, Kerry Kennedy, figlia di Bob Kennedy, non ha approvato le esternazioni della stessa la quale però ha ribadito: “nessuna onorificenza, per quanta ammirazione io abbia per la persona che ne porta il nome, può spingermi a calpestare il diritto di seguire la mia coscienza”.
La scrittrice ha il merito di aver strappato la maschera ad una visione del mondo in cui, sotto gli slogan arcobaleno, sotto i grandi discorsi sull’inclusione, c’è una livorosa battaglia per l’affermazione di un potere sostenuta a suon di tweet, di accordi pubblicitari con le multinazionali, fortissima del sostegno pubblico di tanti vip, siano essi cantanti, influencer, giornalisti o scrittori. Chi non si adegua si deve tenere pronto: non sarà letto, non sarà comprato, non sarà assunto. Sarà esiliato in immagine e in sostanza, sarà esecrato, censurato, cancellato, diverrà cittadino di serie B, uomo da poco, nemico e basta. Questa è la cancel culture.
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Cancel culture
Quando, a Luglio 2020, è comparsa una lettera su Harper’s magazine su “giustizia e dibattito pubblico” firmata da molti famosi scrittori (anche la Rowling), giornalisti, accademici e attivisti per denunciare il clima di intolleranza verso opinioni diverse, la reazione non si è fatta attendere. Infatti qualche firmatario della prima ora, messo alle strette dall’onda aggressiva degli obiettori, si è convinto a ritirare la propria firma, dando esattamente prova della verità del contenuto della lettera.
“Lo scambio libero di informazioni e idee, la linfa vitale di una società liberale, viene soffocato ogni giorno di più. […] Noi sosteniamo l’importanza di una dialettica e di un contraddittorio espressi con forza e anche taglienti, per tutti. Ma è diventato troppo normale sentire richieste di tempestive e dure punizioni in risposta a quelli che vengono percepiti come sbagli di parola o di pensiero. […] I limiti al dibattito, che dipendano da un governo repressivo o da una società intollerante, finiscono ugualmente per fare del male di più a chi non ha potere, e rendono tutti meno capaci di partecipare alla democrazia. Il modo di sconfiggere le idee sbagliate è mettendole in luce, discutendone, criticandole e convincendo gli altri, non cercando di metterle a tacere. Rifiutiamo di dover scegliere tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra”.
Chi si oppone afferma invece che la cancel culture non esiste, o che sarebbe comunque secondaria rispetto ai veri problemi del Paese, perché in realtà quelli che ora protestano per il fatto di essere zittiti e considerati razzisti o omofobi, fanno parte di quell’élite di “indifferenti” o di “bigotti” che hanno goduto fino ad ora di un potere intrinseco dovuto al fatto di far parte di una maggioranza, e che non dovrebbero quindi lamentarsi se ora le minoranze schiacciate fanno sentire la loro voce anche in maniera violenta. Sarebbe solo un escamotage da parte di chi non vuole prendersi la responsabilità delle proprie parole (il che non esclude che per qualcuno lo sia davvero, come per Trump).
Alla fine si riconduce tutto ad una legittimazione dell’aggressione, della vendetta come giusto risarcimento per le discriminazioni subite, minimizzando le conseguenze sui singoli individui (professori e ricercatori licenziati o vessati, direttori di giornali allontanati).
Si è visto infatti come, a seguito delle giuste manifestazioni di protesta per l’uccisione dell’afro-americano George Floyd, e delle tensioni mai sopite per chiedere la fine della discriminazione razziale da parte della polizia negli Stati Uniti, la protesta si sia anche diretta verso qualsiasi nome, anche del passato, potesse essere in qualche modo associato alla nascita e al perpetuarsi del razzismo: statue e simboli di personaggi vissuti durante il colonialismo, ma anche missionari, solo per il fatto di essere stati bianchi ed europei, hanno subito l’ostracismo e la distruzione delle loro effigi mescolando, in una furia ignorante e cieca, carnefici e innocenti, senza distinzione tra comportamenti criminali e odiosi da una parte e giudizi e atteggiamenti storici tipici di un’epoca in cui era considerato culturalmente e socialmente accettabile discriminare le persone per le ragioni più diverse.
Insomma, la manipolazione della storia e il restringimento dei confini della libertà di espressione come prezzo accettabile da far pagare a chi non si allinea, o fa notare che la realtà è complessa e non può essere sezionata a seconda delle appartenenze identitarie. Un prezzo che, in verità, si ritorce contro tutta la società. Se è vero che per una larghissima fetta della popolazione la presunta “ossessione per il politicamente corretto” non esiste e che le opinioni e le azioni razziste e sessiste sono più che tollerate, questo non vuol dire che per combatterle occorra discriminare coloro che ne sono gli artefici.
Difendere la verità e la libertà
Certo, l’argomento è antico quanto il mondo e l’Italia non è immune da questo clima (anche se molti obiettano che sono questioni che appartengono solo a chi legge i giornali e frequenta Twitter, mentre al resto del mondo non interessa). Ma la pressione verso il conformismo è reale, e il dibattito è diventato tossico anche qui: la censura, e anche l’auto-censura, è una pratica che, in molti casi, non viene nemmeno più percepita come negativa e, nel linguaggio comune si è trasferito il linguaggio politico carico di odio dove esiste solo il modello amico/nemico.
Gli argomenti divisivi di tipo bioetico sono quasi intoccabili (ma anche quelli scientifici e medici stanno diventando scottanti), e il pensiero ora dominante non solo non permette di discuterne serenamente, ma si muove nella direzione di correggere il pensiero altrui e di zittire i contrari attraverso lo strumento legislativo: le ultime sentenze su riproduzione assistita, fine vita, aborto e omofobia (come il DDL Zan) hanno la pretesa, nemmeno tanto invisibile, di operare un cambiamento sociale, tacciando di bigottismo e arretratezza chiunque vi si opponga.
Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera, ha recentemente sintetizzato la questione con queste parole: “lo «spazio di discussione pubblica» sta morendo per asfissia, perché si sta definitivamente spegnendo la civiltà del dibattito. Il fecondo conflitto delle idee si sta estinguendo perché è la stessa diversità delle idee, alimento e carburante delle società libere, a essere considerata un disvalore, perché non si riesce più a reggere la differenza d’opinioni, la lotta civile e leale tra tesi contrastanti, la battaglia condotta con la forza degli argomenti. Oggi, al posto del dibattito, dello «spazio di discussione pubblica», c’è l’apologia del bavaglio, la cultura del sospetto, il processo alle intenzioni, l’iper-semplificazone demonizzante, la caricaturizzazione delle tesi diverse, la rozzezza fanatica del «cancel culture». Non è solo appannaggio dei più estremisti, è un morbo che ha conquistato anche le persone colte, che dovrebbero avere una certa familiarità con la civiltà del dibattito e invece si accodano all’andazzo aggressivo, brutale, all’impossibilità di discutere, alla mancanza di curiosità. Proprio mentre si declama l’elogio della differenza e la santificazione del diverso, la diversità e la differenza vengono espulse dal cuore della civiltà del dibattito, che non era assenza di posizioni nette e radicali, tutt’altro, ma si fondava sull’idea che agli argomenti si risponde con gli argomenti e non con l’urlo belluino, la ridicolizzazione dell’avversario, l’incapacità di tollerare la differenza radicale di idee e di opinioni”.
Chesterton, come faceva mirabilmente, aveva già profetizzato questa deriva, auspicando di poter guardare il mondo senza i filtri del pregiudizio, ma sempre a favore della verità: “la grande marcia della distruzione intellettuale proseguirà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. […] Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto” (Eretici, 1905).
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 2, Ottobre 2020