Il sorriso di chi abbraccia la fede

 

(di Michelangelo Nasca)

 

Un prete scomodo e pericoloso, perché capace di seminare nel cuore di tutti germogli di speranza. Ne ripercorriamo insieme la vita e il profondo amore per il prossimo, che lo portarono al martirio per mano della mafia.

 

 

«Era il giorno del suo compleanno, lo scoprimmo dopo. Spatuzza (un componente del commando che lo uccise, ndr) gli tolse il borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso. Non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa» (F. Anfossi, “Famiglia Cristiana”).

È con queste parole che Salvatore Grigoli — l’autore materiale dell’omicidio di don Giuseppe Puglisi — ricorda gli ultimi istanti di vita del parroco di Brancaccio (Palermo), ucciso “in odio alla fede” il 15 settembre del 1993. Un “sorriso” che lasciò sbalorditi anche i medici che eseguirono l’autopsia sul cadavere di Padre Puglisi, senza riuscire a spiegarsi come mai quel volto — dopo aver subito il trauma del colpo di pistola ravvicinato alla nuca (che di solito deforma i lineamenti del viso) — continuasse a sorridere.

La sorpresa divenne ancora più grande quando durante l’estumulazione del corpo di don Puglisi, avvenuta qualche settimana prima della beatificazione, vent’anni dopo il barbaro omicidio, i medici poterono constatare non solo lo stato di ottima conservazione del corpo del sacerdote palermitano, ma la presenza di quel sorriso ancora stampato sul suo volto. Anche il Pubblico Ministero che si occupò dell’omicidio Puglisi, Lorenzo Matassa, dichiarerà: «Io non dimenticherò mai il sorriso sereno di don Pino Puglisi mentre il medico legale mi indicava il foro d’entrata della pallottola che lo uccise. Era il sorriso di colui il quale aveva scelto e abbracciato la sua fede e con rassegnazione aveva accettato il suo destino con l’estremo sacrificio».

La Chiesa ha riconosciuto, come somma delle virtù, il martirio di don Giuseppe Puglisi, e lo ha beatificato — a Palermo, alla presenza di oltre 90mila fedeli — il 25 maggio 2013. Se si volesse approntare un bilancio — a venticinque anni dall’omicidio, e a cinque anni dalla beatificazione — non potremmo non mettere in luce i frutti che il martirio di don Puglisi ha prodotto in questi anni. Quelli successivi al martirio sono stati gli anni in cui l’Arcidiocesi di Palermo registrava un significativo incremento di vocazioni al sacerdozio, e non si trattava di adesioni scaturite da suggestioni emotive determinate dalla particolare circostanza.

Alcuni degli autori materiali dell’omicidio Puglisi — come sottolineavamo all’inizio — hanno vissuto in carcere momenti di trasformazione interiore. Anche la Chiesa siciliana, in questi anni, ha rafforzato ulteriormente il “No” alla criminalità e agli illeciti della mafia, attraverso pronunciamenti ufficiali e ferree prese di posizione da parte dei vescovi. In modo particolare, quest’anno, a 25 anni dal “grido” di Giovanni Paolo II ad Agrigento contro i mafiosi, l’episcopato siciliano ha pubblicato un documento per ricordare l’evento e riconfermarne l’attualità. Il testamento spirituale di Puglisi sta nel suo ministero presbiterale, vissuto come servizio a Dio e all’uomo, senza troppi clamori e con quella serena consapevolezza di essere un semplice strumento nelle mani del Signore.

Dalla nascita al sacerdozio

Giuseppe Puglisi (lo scrivevamo già in Pino Puglisi. Il sorriso della fede, Edizioni Messaggero Padova) nasce a Palermo il 15 settembre 1937, nella borgata rurale di Brancaccio, da un’umile e onesta famiglia cristiana. Carmelo, il padre, è un calzolaio, Giuseppa Fana, la madre, originaria della città di Messina, una sarta. Sono anni difficili per il capoluogo siciliano (che all’epoca contava meno di cinquecentomila abitanti) e per tutta l’Italia; la seconda guerra mondiale, infatti, era alle porte, e chi — come i Puglisi — viveva in periferia, sentiva ancor di più il peso della fatica e degli stenti. Terzo di quattro figli (Gaetano, Nicola e Francesco), Giuseppe viene battezzato nella parrocchia di San Nicolò alla Kalsa il 21 ottobre 1937 (data che verrà poi scelta per ricordare il suo martirio nel calendario liturgico). Giuseppe, chiamato affettuosamente da tutti Pino, e poi — come lui stesso amava firmarsi — “3P” (Padre Pino Puglisi), trascorre gli anni dell’infanzia con semplicità e una grande disponibilità all’amicizia, all’accoglienza e al dialogo.

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In famiglia l’adesione alla fede non era formale; Carmelo e Giuseppa, ogni giorno, alle sei del mattino, prima di andare a lavorare, si recavano in parrocchia per prendere parte alle funzioni. La mamma, in modo particolare, trasmetterà al piccolo Giuseppe la sua personale devozione all’Immacolata, e non mancherà di offrire ogni preghiera perché il terzogenito possa un giorno diventare sacerdote. Pino inizia a frequentare la parrocchia, svolge il servizio di ministrante e prende parte agli incontri dell’Azione Cattolica. A scuola studia volentieri, conseguendo buoni risultati, e nel tempo libero aiuta il padre nel mestiere del calzolaio.

Nel 1953, il giovane Puglisi sente il desiderio di diventare sacerdote, i genitori non si oppongono a questa sua scelta e si mostrano subito disponibili (con l’aiuto anche del fratello maggiore, Gaetano) a sostenere le spese necessarie per mantenere i suoi studi in seminario. Il 10 settembre 1953, così, in una lettera indirizzata all’arcivescovo di Palermo, il card. Ernesto Ruffini, chiede di essere ammesso al Seminario arcivescovile: «Seguendo le sante ispirazioni del Signore, — scrive Puglisi — che mi ha illuminato sulla vanità delle cose terrene e sulla grandezza della Sua grazia, ho deciso di dedicarmi al servizio della Sua gloria ed al bene delle anime»; una prospettiva pastorale, questa, pienamente realizzata e testimoniata nella sua vita sacerdotale.

Gli anni di formazione al presbiterato — vissuti con dedizione e gratitudine nei confronti dei familiari che lo sostenevano faticosamente negli studi — rafforzano la fede di Puglisi e l’amore per il Vangelo. È proprio in quel particolare momento della sua vita che il giovane seminarista comprende che l’amore di Dio si realizza nell’incontro con la persona di Cristo. Avrò avuto 21-22 anni, — scriverà, infatti, con appassionata devozione — quando Cristo «diventò per me una persona, un amico. […] Mi sono sentito di dialogare con Lui. Me lo sentivo proprio vicino, accanto come uno qualsiasi, un altro dei compagni, ma di quelli più amici. […] Ogni momento della mia giornata io lo riferivo a Lui, me lo sentivo sempre vicino. E questo rapporto “personale” è continuato. Poi è subentrato un altro fattore: quello che hai fatto ai più piccoli dei miei fratelli lo hai fatto a me. Ecco che Gesù Cristo m’è stato presente anche negli altri. Divenuto Sacerdote ho capito e sentito l’esigenza dell’approfondimento».

Il 2 luglio 1960, con tali presupposti, carichi di entusiasmo e profezia, il card. Ernesto Ruffini, nel Santuario mariano dei Rimedi, a Palermo, ordinerà sacerdote don Pino Puglisi. «O Signore, — fu scritto nell’immaginetta ricordo dell’ordinazione — che io sia strumento valido nelle tue mani per la salvezza del mondo».

Insegnante di Religione

Tra le tante attività svolte da Puglisi vi era anche l’insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole. Un impegno che non aveva mai voluto abbandonare, anche quando le responsabilità affidategli in arcidiocesi diventavano sempre più onerose. Gli ex alunni del Liceo classico Vittorio Emanuele II (dove Puglisi insegnò dal 1978 al 1993) ricordano ancora il modo singolare che 3P sceglieva per presentarsi ai ragazzi del ginnasio il primo giorno di scuola. Entrava in classe con una “scatola”, attirando inevitabilmente l’attenzione degli alunni, e senza dire una parola, né accennare al programma scolastico che avrebbe svolto durante l’anno, poggiava la scatola per terra e vi saltava sopra dicendo: «Ragazzi, mi presento! Sono un rompiscatole!».

Puglisi era un uomo mite e attento ad ogni persona che incontrava, piccolo, giovane, grande che fosse, e soprattutto con i giovani riusciva a stabilire un dialogo aperto e sincero, senza mai forzare la libertà interiore di nessuno. Sapeva ridere e sdrammatizzare a seconda delle situazioni. Un giorno, per esempio, (episodio difficile da rimuovere nella memoria di chi ha avuto il privilegio di conoscerlo) entrò in classe con un evidente ematoma nell’occhio destro; gli alunni iniziarono a chiedergli cosa gli fosse accaduto, e lui — con il suo solito simpatico modo di fare — iniziò a descrivere la notte insonne che aveva appena trascorso (come se si trattasse di una storiella, e riuscendo a far ridere tutta la classe) e la decisione di andare in cucina a prendere un bicchiere d’acqua senza però accendere la luce, sbattendo così la faccia contro una porta semiaperta!

Solo a distanza di anni, alcuni di quegli alunni, seppero davvero come erano andate le cose. In realtà, infatti, durante quella notte, don Pino Puglisi ricevette la visita di due malavitosi che per intimidirlo e farlo desistere dalla sua pericolosa e ostinata missione (quella del Prete!) lo riempirono di botte!

Parroco a Brancaccio

La situazione pastorale nel territorio di Brancaccio diventava sempre più difficile. La cultura mafiosa presente in quella borgata periferica della città di Palermo rendeva vana qualsiasi attività di promozione umana ed evangelica.

Il cardinale Salvatore Pappalardo chiese, così, a don Pino Puglisi di diventare parroco nella chiesa di San Gaetano, situata proprio nel cuore di Brancaccio. Senza esitazione, 3P accettò l’incarico e il 29 settembre 1990 iniziò a svolgere il suo ministero sacerdotale con l’entusiasmo di sempre, anche se in quel fazzoletto di terra periferica — governata dal potere mafioso dei fratelli Graviano — mancava l’essenziale, da tutti i punti di vista.

Pino Puglisi inizia a sensibilizzare le autorità civili palermitane perché in quel quartiere nascano una scuola media inferiore (inaugurata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi solo sette anni dopo la morte del presbitero palermitano), un presidio ospedaliero e una biblioteca; organizza corsi di alfabetizzazione, di catechesi teologica e di volontariato. In parrocchia forma un nuovo consiglio pastorale parrocchiale e quello per gli affari economici, mentre la Parola di Dio comincia ad essere annunciata e riproposta nel territorio attraverso i centri d’ascolto organizzati nel quartiere.

Nel settembre 1991 i rappresentanti del “Comitato intercondominiale” (un’associazione di cittadini che si batteva per garantire al quartiere migliori e dignitose condizioni di vita) trovano nel Parroco di San Gaetano un provvidenziale supporto. Insieme, infatti, porteranno avanti quei progetti di promozione umana e sociale che a quel tempo erano inesistenti nel territorio e nel tessuto culturale di Brancaccio.

Il 2 ottobre 1991, padre Puglisi potrà contare, inoltre, sulla collaborazione di tre religiose, Sorelle dei poveri di Santa Caterina da Siena, alle quali affiderà la conduzione del Centro Padre Nostro (di cui diremo più avanti). Don Pino donava tutte le sue energie perché agli abitanti del quartiere natio venisse restituita la dignità di cittadini e di cristiani. Parlando di Brancaccio, diceva: «noi vogliamo rimboccarci le maniche e costruire qualche cosa. E se ognuno fa qualche cosa, allora si può fare molto».

Quel “parrino” (il prete), però, cominciava ad intralciare gli interessi della mafia locale; accogliendo i minori in parrocchia, offrendo loro un luogo ospitale e la proposta di attività ludico–catechetiche, toglieva manovalanza ai signorotti del quartiere. «Chi combatte la mafia, — ha affermato uno dei sicari di Cosa Nostra, Giovanni Drago, durante un interrogatorio del Processo Puglisi — chi parla di mafia, chi si avvicina il drogato, chi si avvicina lo scippatore, il piccolo ladruncolo di borgata e gli dice “Cerca la strada buona, cercati un lavoro, avvicina alla Chiesa, devi andare contro i mafiosi, non fare omicidi…” insomma chi predica il bene contro la mafia, chi parla di mafia che non si deve stare accanto ai mafiosi, non si deve pensare come i mafiosi insomma che bisogna stare alle istituzioni dà fastidio alla mafia».

Centro Padre Nostro

“Andiamo al Padre Nostro!”. Era questa la logica conseguenza che don Puglisi intendeva sottolineare e suggerire, realizzando il Centro di accoglienza e di promozione umana “Padre Nostro”. Voleva offrire al quartiere di Brancaccio un luogo di incontro per tutti i bambini, organizzando attività ludico–educative che avrebbero permesso ai più giovani di costruire, a poco a poco, una cultura sociale diversa da quella mafiosa e saldamente ancorata alle verità evangeliche della fede cristiana. La realizzazione di questo progetto, però, non fu semplice. La mafia, infatti, conosciute le intenzioni del parrino, che per dare vita alla realizzazione del Centro intendeva acquistare una vecchia palazzina per 180 milioni di lire, riuscì a far lievitare in modo spropositato il prezzo di quel fatiscente edificio a 290 milioni. Puglisi non si scoraggiò e, per realizzare il suo progetto, mise a disposizione tutte le sue energie e le personali disponibilità economiche, coinvolgendo anche l’Arcivescovo e le persone che gli erano amiche per un sostegno economico.

Acquistò così il Centro devolvendo persino tutti i suoi beni e investendo il suo stipendio di docente di religione per garantire l’apertura di un mutuo bancario. Il 29 gennaio 1993, alla presenza del card. Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, venne inaugurato il Centro Padre Nostro. Il presbitero palermitano aveva però le ore contate: la mafia, infatti, non riusciva a tenere testa a quel prete cocciuto e “rompiscatole”; i bambini, inoltre, — considerati dai vertici di Cosa Nostra un’importante risorsa per crescere nuovi picciotti (ragazzi) — abbandonavano la strada per recarsi al Padre Nostro e il prestigio malavitoso dei fratelli Graviano cominciava a vacillare. Il prete andava eliminato!

Me lo aspettavo!

La situazione era diventata estremamente pericolosa e, nonostante i tentativi di intimidazione commissionati dalla mafia e rivolti a don Pino e ad alcuni suoi sostenitori fossero risultati vani, la vita del sacerdote siciliano appariva gravemente compromessa. Puglisi comprendeva i rischi a cui andava incontro, ma il sangue di Cristo che lo aveva generato sacramentalmente al sacerdozio non poteva essere sprecato. Chiese, così, agli amici e ai giovani della sua parrocchia di non andarlo più a trovare a casa di sera, per salvaguardarli da eventuali minacce e aggressioni.

La giornata del 15 settembre 1993, per Pino Puglisi, è piena di appuntamenti: di mattina si reca al comune di Palermo per provare a risolvere alcune problematiche attinenti al quartiere di Brancaccio, benedice le nozze di due fidanzati; nel pomeriggio, un altro matrimonio presso il Duomo di Monreale; poi nella propria parrocchia, a San Gaetano, per alcune catechesi in preparazione del battesimo, una piccola e sobria festicciola per il suo cinquantaseiesimo compleanno. Alle 20.40 circa, dopo aver salutato uno dei suoi più stretti collaboratori, davanti al portone d’ingresso della sua abitazione, viene freddato da un colpo di pistola alla nuca.

Mentre il sacerdote si apprestava a entrare nel portone della palazzina dove era ubicato il suo appartamento, i due sicari, Gaspare Spatuzza e Salvatore Grigoli, si avvicinano a don Puglisi; Spatuzza — ha raccontato Salvatore Grigolinel corso del processo — «gli prese il borsello e gli disse: “padre, questa è una rapina”. Nel frattempo io, posizionandomi dietro il sacerdote, esplodevo un colpo di pistola alla nuca di quest’ultimo da brevissima distanza. Il sacerdote non si è reso conto di nulla in quanto con un sorriso si era rivolto allo Spatuzza proferendo le seguenti parole: “me lo aspettavo”».

Conclusioni

In don Pino Puglisi diventa cristianamente eroico e straordinario il suo “ordinario” ministero presbiterale, vissuto come servizio a Dio e all’uomo, senza troppi clamori e con quella serena consapevolezza di essere un semplice strumento nelle mani del Signore. «Promosse — lo riconoscono tutte le chiese di Sicilia — un’azione educativa che contribuiva al cambiamento della mentalità e della visione della vita, favorendo la maturazione della fede del popolo a lui affidato. Svolse instancabilmente il suo ministero sacerdotale per l’edificazione del Regno di Dio richiamando tutti alla conversione, al pentimento e all’incontro con la tenerezza di Dio Padre». Insomma, Pino Puglisi stimava troppo la vocazione sacerdotale per tirarsi indietro di fronte alle minacce di chi vedeva in lui un prete scomodo e pericoloso, perché capace di seminare nel cuore di tutti germogli di speranza. Era, si potrebbe dire, “troppo prete”!

Esageratamente conformato a Cristo, dedito ad una vita spirituale fatta di ascolto, di preghiera, di eucaristia e di attenzione verso gli altri.

L’uccisione di Puglisi, probabilmente, fu anche la feroce risposta della mafia alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò — quattro mesi prima dell’omicidio, nella Valle dei Templi ad Agrigento — contro la criminalità organizzata. «Convertitevi — aveva gridato il Papa polacco —, una volta verrà il Giudizio di Dio». Quella del Vangelo è però una verità che va ben oltre la morte, e i semi di pace e di carità piantati dal minuto prete di Brancaccio — in una terra dove spesso i capi mafia diventano idoli — non sono andati dispersi. «Don Puglisi, — ricordò l’arcivescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo, il giorno dopo il barbaro omicidio — senza indulgere ad atteggiamenti protagonistici, svolgeva una silenziosa quanto efficace azione di educazione e di formazione delle coscienze, quale è propria della Chiesa, secondo la sua missione spirituale e sociale, per combattere con tali mezzi ogni deviazione e corruzione comunque denominata.

Per questo è stato ucciso da mano e da mandanti assassini, ed il suo sangue sparso resta una testimonianza di quell’amore sacerdotale e di quell’impegno ministeriale che hanno caratterizzato tutta la sua vita fino alla morte».

«Il sangue dei martiri — come affermava Tertulliano — è seme di nuovi cristiani». Il martirio di Puglisi, inoltre, è un richiamo ecclesiale che va oltre il coraggio pastorale mostrato nel tenere testa ai soverchiatori della propria borgata di appartenenza. Puglisi stesso affermava: «Bisogna cercare di seguire la nostra vocazione, il nostro progetto d’amore.

Ma non possiamo mai considerarci seduti al capolinea, già arrivati. Si riparte ogni volta. Dobbiamo avere umiltà, coscienza di avere accolto l’invito del Signore, camminare, poi presentare quanto è stato costruito per poter dire: sì, ho fatto del mio meglio». 

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 3, Settembre 2018