(di Antonio Bellingreri)

Nel profondo la persona si trova «a casa propria»; è un’esperienza interiore che si può chiamare di solitudine buona: perché in essa il nostro esser soli è un misterioso ma realissimo esser davanti a Dio, nella compagnia «dei Tre» – come si esprime Elisabetta della Trinità.

 

 

Venire al mondo

Ho trascorso la mia infanzia in un piccolo paese della Sicilia; era pane quotidiano assistere agli incontri tra persone anziane che, per strada, senza guardarsi più di tanto negli occhi, si rivolgevano il saluto con l’espressione «Che si dice?», domanda alla quale faceva seguito, immancabilmente, una seconda espressione standard: «Qua siamo!». Erano scenette alle quali probabilmente non avrei dato molta importanza e che sarebbero cadute nel dimenticatoio, se lo studio della filosofia del Novecento non mi avesse aperto gli occhi su un significato profondo contenuto in queste frasi di saluto (un po’ laconiche da sembrare omertose), che vi prego di immaginare pronunciate in dialetto siciliano. In effetti, un eminente rappresentante dell’esistenzialismo contemporaneo afferma che la comprensione originaria di ogni essere umano, la cosa cioè che ciascuno di noi sa da sempre, anche se con gradi differenti di consapevolezza, è di essere-al-mondo; questo autore è così convinto che sia questo il fatto determinante, da definire l’uomo con il termine, inventato da lui e da lui usato per la prima volta, di «esserci»: l’uomo è l’«esserci».

Ma che ce ne viene, mi chiederete, da questo sapere spontaneo che ci accompagna sin dalla nostra nascita? Reputo si possa affermare che, attraverso di esso, noi riconosciamo il fatto bruto, per così dire, che esistiamo, prendiamo atto del fatto che siamo nel mondo; e, dispiegando un po’ questa comprensione, ammettiamo anche che siamo coinvolti nel grande gioco dell’esistenza senza averlo scelto: anzi, senza nemmeno essere stati consultati! Lo riconosciamo come un dato assoluto, un dato cioè che ci si impone senz’altro; ma con ciò stesso riconosciamo che c’è un limite evidente per la nostra libertà, perché non siamo liberi di scegliere l’essere – l’esserci, appunto. Peraltro, non siamo liberi neanche di scegliere, oltre l’essere, quella che potremmo chiamare la forma della nostra esistenza, quanto configura la nostra fisionomia personale: il tempo della storia in cui noi veniamo ad essere e lo spazio geografico, la madre che ci porta nel grembo e la famiglia alla quale siamo consegnati e che ci accoglie; ci troviamo tutto addosso, finanche il sesso, il carattere e tutto il corredo che concorre a definirci, per il fatto che apparteniamo ad una stirpe, abbiamo delle relazioni intergenerazionali (coi nostri genitori) e transgenerazionali (coi nostri nonni, i bisnonni, i trisavoli…) che non abbiamo scelto: non abbiamo scelto quanto, in breve, costituisce per noi quella che il fondatore della psicanalisi chiama «l’eredità della specie».

Siamo donatari

Se iniziamo a riflettere su questo dato, che è il nostro avvento nell’essere dal nostro non essere, l’interpretazione che appare la più ragionevole è che non ci siamo dati noi stessi la vita, ma – ecco il punto nodale di questa interpretazione – l’abbiamo ricevuta. E forse, come ogni «umana gente», staremmo « contenti al quia», così si esprime Dante, se potessimo ammettere che la vita ce l’hanno data i nostri genitori. Le cose però non stanno così: la vita o, con il termine centrale della filosofia occidentale, l’essere non ci viene dato dai nostri genitori: tant’è vero che, se noi, dopo la nascita, siamo in difficoltà in un modo tale che ne va della nostra vita, i nostri genitori, che pure in questo caso vorrebbero darci la vita, non sono in grado di farlo, di donarci la vita e, con la vita, l’essere.

Appare dunque profondamente ragionevole intendere il nostro venire ad essere proprio come un dono, non possiamo definirlo diversamente dal momento che l’essere che abbiamo ricevuto non lo abbiamo richiesto. Ciò significa che non siamo gettati a casaccio, per così dire, nel mondo; siamo piuttosto consegnati nell’esistenza, alle persone che ci accolgono in una famiglia e a quella che sarà poi la nostra storia. Soprattutto, bisogna subito aggiungere, siamo consegnati a noi stessi: perché col nostro venire ad essere, ne va di noi stessi, del nostro essere e della nostra esistenza, della identità che questa andrà, gradualmente, assumendo in quella che diverrà la storia della nostra vita. Forse è meglio scrivere che siamo consegnati alla nostra libertà: in modo evidente, nasciamo piccoli /piccole e il tempo della vita è il tempo di una possibile crescita incessante; è in nostro potere che ciascuno, che non è ancora pienamente se stesso, diventi se stesso.

L’interpretazione che diamo del nostro avvento nell’essere e il concetto di consegna che tutto porta a sintesi, è la più ragionevole perché essa dona senso a tutto, nel momento in cui essa ci rivela una qualità essenziale, che è legata indissolubilmente al nostro essere: noi siamo donatari, riceviamo il dono dell’essere da un misterioso ma realissimo Donatore; e nel fatto stesso di ricevere il dono dell’essere è contenuto un appello, una chiamata che deve celare in sé il perché del venire ad essere e la destinazione, il senso o il fine della nostra esistenza. Questo dono subito appare dedicato, come del resto sono personalizzati tutti i doni che noi stessi siamo capaci di fare alle persone che amiamo; con ciò voglio significare che l’essere ricevuto in dono, il nostro essere, è singolare: ha una fisionomia o una essenza singolare, si predica solo di ciascuno e può essere espresso solo dal nostro nome proprio.

Siamo di Dio

Mi piace citare qui, riflettendo su questo misterioso evento nell’essere di una essenza singolare, che è la nostra persona, quanto dice in modo suggestivo Edith Stein: vivendo nella frequentazione del Mistero cristiano, noi sappiamo con la certezza della fede che veniamo ad essere perché il nostro nome viene evocato da Dio, che per questo chiamiamo Creatore e Padre; l’interpretazione che abbiamo formulato prima, in sé ragionevole, acquista ora maggiore forza persuasiva e concretezza massima. Quando il nostro nome è stato così pronunciato, noi siamo venuti ad essere: ora, di quella Parola deve restare nelle fibre del nostro essere una traccia, una qualche eco e la risonanza, misteriosa ma reale, della Parola pronunciata; Essa deve essere dentro di noi, alla radice del nostro essere: è la radice stessa del nostro essere, il nucleo che custodisce la nostra essenza singolare e l’energia che la tiene in vita: ossia l’atto stesso che ci tiene fuori dal nulla e nell’essere in ogni istante ci sostiene, in quella che appare una creazione continua.

Senonché, aggiunge Edith Stein, questa radice e questo nucleo non sono perfettamente trasparenti alla coscienza, che pure per sé stessa è segnata dalla luce, ossia si percepisce immediatamente; risultano segnati da una opacità che non ci fa vedere chi noi siamo. Forse però, così Ella argomenta, non può essere diversamente: il chi sono o l’io-sono è «il Sé nella mente di Dio»; e l’essere, che è l’energia misteriosa ma reale che ci tiene nell’essere e nell’essere ci sostiene, ha parte all’essere stesso di Dio. È un tratto, una immagine che riproduce un Modello o Archetipo: nel Mistero cristiano è il Verbo di Dio, il Figlio; per noi è Gesù, il Salvatore e il Cristo.

Essere «a casa propria»

Sto svolgendo la mia riflessione, lasciandomi guidare da Edith Stein e camminando nel solco che lei ha tracciato; spero che a chi sta leggendo comunichi la stessa gioia intima che provo io personalmente ragionando su queste cose. Era necessario fare una tale meditazione – con la nostra Santa possiamo chiamarla, come lei propone, una meditazione di «filosofia cristiana» – perché proprio quello che qui abbiamo chiamato radice e nucleo del sé costituisce per ciascuno di noi la dimora personale: solo rac-cogliendosi in essa, in un atteggiamento che si può denominare di massima concentrazione interiore, ogni persona si trova «a casa propria». Edith Stein la definisce anche «l’anima dell’anima» e la chiama spirito: dunque lo spirito è per lei – discepola, filialmente devota, di Teresa d’Avila – una dimora, una casa vastissima o un castello. È possibile entrarvi, secondo la grande Santa spagnola, con un atteggiamento di preghiera, attraverso l’invocazione incessante; ma anche, secondo quanto scrive Edith Stein, attraverso la meditazione. resta comunque che questo spirito-dimora ha parte alla vita stessa di Dio Creatore e Padre; è fatta ad immagine di Dio Verbo e Figlio; è, infine, un dono specialissimo dello Spirito di Dio che consente di dimorarvi.

Nel profondo la persona dunque si trova «a casa propria»; è un’esperienza che si può chiamare d’interiorità oggettiva, oppure – meglio – di solitudine buona: perché in essa il nostro esser soli è un misterioso ma realissimo esser davanti a Dio, nella compagnia «dei Tre» – come si esprime Elisabetta della Trinità. La profondità si rivela invero un’altezza; con un gesto di libertà massima possiamo acconsentire al dono specialissimo dello Spirito che rende possibile di impiantarci nella Sorgente stessa della vita; allora, tutto nella nostra vita può diventare nuovo, nuovo il nostro modo di abitare il mondo. Questa solitudine buona è l’inizio di quella che possiamo chiamare la dimensione mistica dell’esistenza: si realizza trasformando la radice o il nucleo del sé, il nostro spirito, in un vastissimo spazio di accoglienza per Dio e per tutte le persone con le quali veniamo in contatto e che Egli stesso ci dona.

Buona e cattiva solitudine

Dico subito con decisione che non è semplice vivere permanendo in modo vero in questa dimensione; una riflessione ulteriore sarebbe necessaria per intenderla senza quegli equivoci che possono snaturarla, trasformandola piuttosto in una cattiva solitudine: in una esperienza di smarrimento piuttosto del proprio sé autentico. Mi limito qui a porre almeno due condizioni che la possono rendere autentica; in modo immediatamente comunicativo le qualifico impiegando i termini comunione e storia.

La comunione, in concreto, significa che si tratta di fare un cammino con altri per educarsi e crescere insieme nella buona solitudine; si tratta però, in ogni giorno e aggiungerei in ogni ora della nostra esistenza, di riconoscere che il sé autentico o vero, costitutivo di quanti fanno questo cammino di comunione, è «il Sé nella mente di Dio»: ne troviamo un profilo minimamente adeguato quando cerchiamo di vederci come Dio vede ciascuno di noi e tutti noi insieme. Questa, che chiamerei volentieri, ancora con un termine di Edith Stein, la divina empatia, è il fondamento della Comunione; si concretizza nel cammino ecclesiale, dove i sacramenti ci fanno realmente diventare membra diverse di un unico Mistico Corpo. Senza questa condizione può accadere che la buona coscienza cristiana si corrompa in cattiva coscienza mistica, che le amicizie diventino egoismi a due al plurale; e la solitudine diventa allora solo cattiva solitudine.

Col termine storia mi riferisco invece al fatto che la rivelazione del nostro volto, la trasparenza di noi a noi stessi, sempre crescente e ogni giorno sempre maggiore, se esige la solitudine buona, si effettua in modo oggettivo: se tutti gli incontri che accadono nella nostra storia, fatta di persone, di cose, di eventi, sono visti e intesi nella dimensione mistica come prima l’abbiamo definita – sono visti come dono e intesi come segni, questi incontri gradualmente ci consentono di trovare in modo veramente oggettivo il nostro volto e la nostra destinazione, dunque il nostro compito singolare nella storia umana alla quale siamo consegnati. Senza questa seconda condizione è possibile che la conoscenza che crediamo di acquistare di noi diventi solo la successione delle nostre false immagini, una morfologia delle nostre illusioni; anche in questo caso, la solitudine diventa piuttosto cattiva solitudine.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 1, Giugno 2020