Intervista al Prof. Angelo Panebianco

(a cura di Raffaele Castagna)

L’attuale crisi dell’Unione Europea sembra dipendere da numerosi e diversi fattori, non sempre facilmente decifrabili; ma dal futuro dell’Europa dipende inevitabilmente molto del futuro degli Stati nazionali, tra i quali l’Italia. Come capire i processi ad oggi in corso, al livello economico, politico e culturale? E quale incidenza possono avere i recenti flussi migratori sull’identità culturale e valoriale europea? Su temi così complessi, Dialoghi offre ai suoi lettori l’opportunità del confronto con il Prof. Angelo Panebianco, politologo, saggista ed accademico, oltre che apprezzato editorialista del Corriere della Sera.

 

 

Un secolo fa l’Europa viveva la drammatica crisi dell’”inutile strage” della Prima Guerra Mondiale. L’Europa attuale vive una dimensione certamente molto diversa, eppure appare innegabile come essa sia attraversata da una profonda crisi. A suo giudizio, le ragioni di quest’ultima vanno individuate nelle recenti difficoltà di carattere economico‒finanziario, oppure riguardano principalmente la questione di un’identità non ancora definita dell’Europa, della sua difficile unità valoriale‒culturale e, di conseguenza, di prospettiva politica?

Credo siano vere entrambe le ragioni. La recessione economica ha certamente accelerato, aggravato, o forse addirittura contribuito ad innescare la crisi che oggi affligge l’Unione Europea. Occorre però sottolineare il fatto che tale crisi ha alle proprie origini anche cause più remote, le quali risiedono in diverse ambiguità di fondo che hanno caratterizzato il costruirsi di questa Unione. Si tratta di punti critici che non sono stati affrontati a loro tempo e che si manifestano concretamente adesso. Fra questi rientra il problema di una non ben definita identità europea da un lato e, dall’altro, l’eccessivo ottimismo che covava all’origine dell’idea che le identità nazionali — cioè gli Stati nazionali con la loro storia e cultura — rappresentassero “ostacoli” facilmente superabili. Ma cancellare un’identità non è possibile e oggi paghiamo lo scotto di una visione non corretta che ha guidato il costituirsi dell’Unione Europea e che è durata, purtroppo, molto tempo. Ad alimentare tale miopia ha contribuito il fatto che per molto tempo l’unità economica e politica europea ha rappresentato un’impresa di grande successo, portando vantaggi, stabilità e sviluppo economico a tutti gli Stati membri. Con il sopraggiungere della crisi economica sono cominciate le prime incrinature che oggi, cresciute, minacciano la stabilità dell’Unione e che hanno iniziato a far sorgere atteggiamenti di sospetto reciproco fra gli Stati europei. Si sta creando, in particolare, una spaccatura fra l’Europa del sud, che attribuisce all’egoismo dei Paesi del nord, come la Germania, la colpa delle proprie difficoltà economiche e, dall’altro lato, l’Europa del nord che pensa che i Paesi del sud vogliano vivere alle spalle dei Paesi finanziariamente a posto. Una dinamica di questo tipo non può che minare le fondamenta stesse sulle quali si è costruita l’attuale UE.

In questo senso, nell’analisi della crisi europea, alle problematiche economiche va attribuito un peso maggiore rispetto a quelle culturali?

No, non è così. I fattori culturali hanno lo stesso peso di quelli economici. Se si parla in maggior misura di aspetti economici è perché nel lungo e più recente periodo l’Europa ha goduto per molto tempo dei vantaggi portati dal mercato unico. Per buona parte della sua storia dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Europa è stata unita solo da un punto di vista economico. Con l’arrivo dell’euro hanno cominciato ad emergere anche le esigenze e le criticità dei fattori culturali. La moneta unica, d’altra parte, richiedeva ai Paesi membri un salto di qualità dal punto di vista dell’integrazione politica e sociale: a quel punto le contraddizioni e le debolezze dell’Europa in costruzione sono venute a galla.

Quale idea di Europa può e deve essere rilanciata in vista delle elezioni della prossima primavera?

Se il discorso si limita a riforme o cambiamenti in vista delle elezioni della prossima primavera, credo che non ci sia tempo per rilanciare molto… In un’ottica di più vasto respiro, a detta di molti specialisti e studiosi di processi di integrazione che da diversi anni stanno riflettendo sul tema, l’idea principale è questa: ci sono diversi Paesi europei non interessati all’integrazione, ma soltanto ai vantaggi che può dare il mercato unico. La volontà di questi Stati dovrebbe essere comunque rispettata. Per far ciò si dovrebbe costituire un’area più ampia di Stati per i quali valgano soltanto le leggi del mercato comune, garantendo loro una totale indipendenza di governo e amministrazione politica, e un’area più ristretta dove si tenti un esperimento di “confederazione leggera”. Con questo termine non intendo la realizzazione di un “super‒Stato”, che non avrebbe senso e non sarebbe nemmeno possibile; ma di una comunità di Paesi in cui invece sia possibile coordinare al meglio gli sforzi comuni nell’ottica di un’unione non soltanto economica, ma anche politica e culturale, mirata a garantire l’interesse di ogni singolo membro nell’alveo di una collettività virtuosa.

Oggi si parla frequentemente di “sovranismo”, per indicare l’orientamento di quelle forze politiche che, in diversi contesti, sostengono la necessità di difendere alcuni spazi decisivi di “sovranità” nazionale. Ma quale vera differenza intercorre fra “sovranismo” e “sovranità”? In particolare, che significato va attribuito al concetto e alla tutela della sovranità nazionale in un contesto che non è più principalmente nazionalistico?

Il concetto di “sovranità” è un concetto giuridico. La piena sovranità non è mai stata raggiunta da nessuno Stato nella storia, è sempre stata un’aspirazione più che una realtà. Le nazioni sono sempre state condizionate da innumerevoli fattori esterni ed interni. Ciò che mi sembra utile affermare come principio, nell’ambito dell’Unione Europea, non è l’auspicio che gli Stati singoli si annullino all’interno di una sovrastruttura più grande, perché ciò non è possibile e perché ogni Stato garantisce una serie di funzioni vitali per i territori che controlla; ma semmai che gli interessi nazionali debbano essere declinati tenendo conto delle interdipendenze reali. L’idea che qualche Stato dell’UE possa perseguire un proprio interesse a prescindere dalle altre nazioni europee è, nel mondo attuale, qualcosa di impossibile, se non proprio una sciocchezza. In questo periodo storico, tenendo conto dell’equilibrio internazionale, l’unico modo per soddisfare l’interesse nazionale di uno Stato membro è coordinarsi con gli altri Stati che fanno parte dell’Europa e del mondo occidentale. Quest’ultimo si regge su due pilastri che sono da un lato i rapporti inter‒atlantici e dall’altro un’efficace interazione fra Stati europei. Questi due pilastri sono fondamentali per garantire la pace, la stabilità e la prosperità delle democrazie occidentali.

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Come possono essere capiti e descritti i nuovi equilibri esistenti al di fuori del nostro continente e come potrà e dovrà muoversi l’Unione Europea per non essere travolta dall’intraprendenza di altri Paesi a livello politico, economico e commerciale?

Attualmente lo scenario internazionale contempla questa situazione: da un lato ci sono alcune potenze emergenti, la più importante delle quali è naturalmente la Cina; e dall’altro c’è una potenza che si percepisce, a torto o a ragione, in declino, ossia gli Stati Uniti. Se questa raffigurazione è corretta ciò significa sostanzialmente che il mondo andrà verso un sistema multipolare. Nessun analista geopolitico o nessun esperto di relazioni internazionali possiede un’idea chiara su che cosa tale scenario comporterà per il futuro. I sistemi multipolari del passato — quello che c’era in Europa nella prima modernità o altri di differenti epoche, ad esempio nell’Italia rinascimentale, nella Grecia classica o nell’India arcaica — operavano all’interno della stessa area culturale. Nell’Europa cristiana si è contemplata, in alcuni periodi, la presenza di moltissime nazioni e potenze, ma tutte si muovevano nella medesima area culturale. Nel caso presente stiamo invece parlando di un multipolarismo che fa capo ad ambiti e tradizioni culturali molto differenti tra di loro. A ragione di ciò è pressoché impossibile prevedere quali esiti darà uno scenario mondiale come quello che si prospetta. D’altra parte bisogna però anche considerare che non è detto che gli Stati Uniti siano davvero in declino e che non è detto che, a parte la Cina e forse l’India, ci siano altri grandi Paesi emergenti. Se, ad esempio, fra questi ultimi annoverassimo la Russia, come molti sono propensi a fare, dovremmo però considerare che si tratta di un Paese in realtà economicamente depresso. La Russia ha certamente due grandi punti di forza, ovvero un armamento che deriva dall’Unione Sovietica — e che ne fa la seconda potenza nucleare del mondo — e il fatto di essere collocata al centro del continente eurasiatico, il che le consente di partecipare a tutti i giochi politico‒diplomatici di quel vasto territorio. Ma ciononostante si tratta di un Paese che non è riuscito ad essere altro che un esportatore di energia e che dipende ancora dalle tecnologie occidentali. Sono ragioni in base alle quali esiterei a definirlo un Paese emergente. Se quindi anziché verso una multipolarità il mondo andasse incontro a uno scenario con due grandi attori protagonisti, ossia gli USA e la Cina, allora il ruolo dell’Europa avrebbe un maggior peso nell’equilibrio mondiale in quanto culturalmente vicino a una delle due superpotenze. Quale di questi due scenari si realizzerà resta però, ad oggi, un grande punto interrogativo.

Il fenomeno dei flussi migratori sta mettendo a nudo la fragilità e le contraddizioni di un’Unione Europea che non ha ancora maturato la realtà e la percezione di una propria identità. In quale rapporto stanno attualmente queste due dimensioni?

Quello dei flussi migratori, insieme alla crisi economica, è un altro fattore scatenante dell’attuale crisi politica dell’Europa. Ciò dipende prima di tutto dal fatto che in un’epoca ottimistica — in cui non soltanto non c’erano flussi migratori di così vaste dimensioni come quelli attuali, ma addirittura non se ne ipotizzava nemmeno l’eventualità — si pensò di ratificare il trattato di Schengen dando così il via alla libera circolazione delle persone in Europa. Tutto questo è stato realizzato senza valutare adeguatamente che la precedente attenzione che ogni Paese esercitava sui propri confini prima di tale trattato si sarebbe dovuta trasferire successivamente sui confini dell’Europa stessa. Il fatto che ciò non sia accaduto è un altro segnale della scarsa percezione dell’Unione Europea come istituzione unitaria. I flussi migratori in arrivo, lungi dal consolidare l’idea di unità, hanno invece contribuito a indebolirla, grazie anche all’azione di quei gruppi politici che possono trarre vantaggi elettorali dal presentare l’Unione Europea come capro espiatorio di tutti i mali, anche di quelli di cui oggettivamente non può essere responsabile, e che affliggono ciascun singolo Stato.

In un editoriale di qualche tempo fa (Corriere della Sera, 13 gennaio 2014), lei affermava che per Paesi come l’Italia — là dove risultino superate certe soglie di ingressi e di divario nei tassi di natalità — sarebbe legittimo chiedersi se non fosse opportuno dare più spazio a fenomeni immigratori che permettano poi una reale integrazione, come quelli legati al mondo cristiano–ortodosso, piuttosto che lasciare la forte prevalenza a quelli provenienti dal mondo islamico… Come conciliare le politiche di accoglienza con limitazioni sostenibili e prudenti?

Credo che bisogna innanzitutto intendersi su che cosa significhi l’espressione “politica d’accoglienza”. Ovviamente non può e non deve mai significare accoglienza di tutti senza “se” e senza “ma”, perché ciò significherebbe mandare in tilt qualunque sistema democratico. Nessuna democrazia è in grado di reggere l’impatto di un’immigrazione di massa entro i propri confini senza venir messa a repentaglio. Accogliere significa in parte anche filtrare. Una politica di immigrazione che non sia demagogica deve avere la forza di poter dire “tu sì, tu no” a chi vuole varcare i confini del Paese. Questo non per motivi egoistici, ma di semplice sopravvivenza. Ad esempio, è chiaro che un’improvvisa disponibilità di molta manodopera non qualificata all’interno di un dato Paese rischia di scatenare una guerra fra le classi meno abbienti, perché incide pesantemente sui salari. Mentre, viceversa, un afflusso di manodopera qualificata, in settori di cui un Paese è sprovvisto, dà un vantaggio a chi arriva e un vantaggio a chi riceve. Una saggia politica di immigrazione dovrebbe dunque tenere conto delle possibilità del Paese che rappresenta, delle sue possibilità di assorbimento, sia al livello culturale‒valoriale che al livello lavorativo.

In un contributo più recente (Corriere della Sera, 2 gennaio 2017) — che come il precedente ha poi provocato un ampio dibattito — con riferimento alla tensione tra mondo islamico e mondo occidentale lei si domandava: «Perché sono così poche le persone disposte a riconoscere i fatti, e cioè che c’è una guerra anche “religiosamente motivata”?». Cosa intendeva evidenziare con questo interrogativo?

L’Europa oggi può essere certamente definita come l’area più secolarizzata del mondo, il luogo in cui è meno presente il “sacro” nella vita pubblica e privata della società. Non è così per gli Stati Uniti né per il resto del mondo. Questo significa che in Europa, molto più che altrove, diventa molto faticoso anche il solo fatto di riconoscere l’esistenza di motivazioni religiose nei conflitti. È molto più facile, per la nostra forma mentis, ricondurre le cause di ogni conflitto a motivi economici o di interessi (comunque) di potere. In realtà i conflitti nella storia hanno spesso avuto come prevalente motivazione quella religiosa. Non tenere in considerazione questo fattore significa non essere più in grado di leggere la realtà e di agire di conseguenza in misura adeguata. Questa situazione ha ricadute non solo ad alti livelli di geopolitica, ma anche nella semplice dimensione quotidiana e civica. Riporto, a questo proposito, un esempio di cronaca recente. Poco tempo fa, in un ospedale del nord Italia, una signora di religione islamica protestò perché la vicina di letto, italiana, riceveva quotidianamente il marito e il figlio. La signora musulmana non poteva infatti accettare la presenza di altri uomini, diversi da suo marito, nella camera in cui dormiva. Alla fine la donna italiana venne cambiata di stanza. Questo costituisce un chiaro errore di metodo e di prospettiva nell’affrontare il problema. Anziché difendere un concetto semplice (esprimibile così: “offriamo vera assistenza a chiunque, ma alle nostre condizioni”) si è preferito evitare un mini‒conflitto di civiltà. In realtà l’effetto di scelte simili a lungo andare è esattamente contrario, perché episodi come questo producono reazioni di rabbia che comunque si diffonde fra le persone, in particolare là dove manchino le ragioni di alcune scelte e orientamenti. Questo esempio, nella sua semplicità, la dice lunga su come sia sbagliato il diffuso approccio al problema culturale della gestione dell’immigrazione e di come sia necessaria una politica dotata di forte coscienza storica e sociale in grado di rispondere alle sfide della contemporaneità. Più in generale, su questo come su altri temi, l’auspicio è che la politica e la riflessione culturale possano ritrovare uno spessore autentico, per poter affrontare nel modo adeguato le sfide decisive del presente e del futuro. 

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 4, Dicembre 2018

 

Angelo Panebianco dopo aver conseguito la laurea in Scienze politiche presso l’Università di Bologna nel 1971, ha ottenuto un Degree in International Affairs dalla Johns Hopkins University presso il suo Bologna Center. Ha svolto attività di ricerca presso la Harvard University, l’Università della California a Berkeley, la London School of Economics and Political Science. Dal 1985 al 1990 ha fatto parte del comitato di redazione della rivista di cultura e politica Il Mulino , pubblicata a Bologna; mentre dal 1991 al 1996 ha fatto parte del comitato di direzione. Dal 1989 è docente alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna. Negli anni novanta è stato tra i fondatori della Facoltà di Scienze Politiche Roberto Ruffi lli dell’Università di Bologna, nella sua sede di Forlì, e direttore dell’omonima biblioteca. Dal 1991 al 1995 è stato presidente dell’indirizzo politico–internazionale del corso di laurea omonimo, insegnando Scienza politica e Politica internazionale. È professore all’Alma Mater studiorum Università di Bologna, dove insegna Sistemi internazionali comparati presso la Facoltà di Scienze Politiche. Ha inoltre insegnato Teoria politica e Geopolitica presso la Facoltà di Filosofi a dell’Università Vita–Salute San Raffaele di Milano.
Tra i suoi scritti principali di rifl essione politica ricordiamo innanzitutto Modelli di partito (Il Mulino, 1982), poi tradotto in sei lingue, e L’analisi della politica (Il Mulino, 1989). Agli studi internazionali ha dedicato numerosi saggi, tra cui La dimensione internazionale dei processi politici , in G. Pasquino (ed.), Manuale di Scienza politica (Il Mulino, 1986) e Hans Morgenthau: teoria politica e fi losofi a pratica, in D. Campus – G. Pasquino (ed.), Maestri della scienza politica (Il Mulino, 2004); nonché i volumi Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza (Il Mulino, 1997) e Le relazioni internazionali (Jaca Book, 1992). Nel 2004 ha pubblicato Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera (Il Mulino, 2004), mentre più recente è L’automa e lo spirito. Azioni individuali, istituzioni, imprese collettive (Il Mulino, 2009).
È un ormai noto editorialista del Corriere della Sera: alcuni dei suoi interventi sono raccolti in L’Italia che non c’è. Riflessioni e polemiche (Rizzoli, 1994), mentre gli altri sono rintracciabili in rete al link: www.corriere.it/fi rme/angelo-panebianco