Omero, Virgilio, Mary Poppins e quella brutta storia di Biancaneve
(di Luca Sighel)
Chi non ha visto Grease? Il musical del 1978, che narra le avventure amorose di Danny Zuko e Sandy Olsson, ambientate negli anni ‘50 alla Rydell High School, è accusato di essere “eccessivamente bianco”, omofobo e misogino e perciò messo al bando. Ma è la sorte che hanno avuto anche film cult come Via col vento o classici Disney come Dumbo, Lilli e il vagabondo e Gli Aristogatti. Sono tutti finiti nel mirino della “cancel culture” un fenomeno in espansione che tocca e ha invaso, da qualche tempo, in nome della tolleranza, il mondo della comunicazione e della cultura.

La cancel culture nasce negli Stati Uniti e si pone l’esplicito obiettivo di boicottare tutto quel che, in qualche modo, pare non rispettoso di minoranze e “diversità”, scandaglia il mondo della comunicazione e della cultura, dei miti, delle forme e delle metafore che ci hanno accompagnato almeno nell’ultimo secolo, cercando di eliminare, paradossalmente in nome della libertà di espressione, ogni manifestazione di razzismo, omofobia, misoginia. Così sono sempre più frequenti campagne denigratorie, diffuse attraverso i social, verso film, personaggi, cantanti, attori o vecchie serie televisive colpevoli di non rispettare le differenze e per questo sacrificabili sull’altare del politicamente corretto.
Biancaneve ed il Principe Azzurro
Nel riaprire i battenti, dopo il lungo lockdown, Disneyland, nel rinnovo delle sue attrazioni, ha messo alla fine del percorso della amatissima favola di Biancaneve, la scena del bacio del Principe, con il quale la fanciulla avvelenata viene risvegliata. Ed ecco che è partita una campagna di diffamazione contro la Disney e il suo creatore, già precedentemente accusato per altre presunte comunicazioni razziste, perché, come affermano le due giornaliste del San Francisco Gate, «Biancaneve dorme ed il bacio non è consensuale, quindi non è di vero amore» ed il Principe quindi ha dimostrato mancanza di rispetto delle donne.
Potrebbe sembrare una barzelletta o la fissazione di qualche tanto originale quanto isolata commentatrice, se questa segnalazione non avesse raccolto un movimento di consenso, che mediaticamente ha messo la Disney in una, prima inimmaginabile, posizione di difficoltà.
Esagerato si dirà. Certo! In fondo si tratta di una fiaba ― dirà qualcuno. Caso singolo ed estremo. Forse… Sta di fatto che il clima che si va creando, dentro cui questi vertici di ostracismo e boicottaggio si collocano, fa il gioco di una dilagante e generalizzata forma di revisionismo, che si arroga il diritto di abbattere e screditare tutto quel che non corrisponde ai propri obiettivi, istituendo via web una sorta di tribunale del popolo, una giustizia riparatrice del passato, in cui trovano spazio forme di estremismo e radicalizzazioni cresciute proprio sui social.
Il canone occidentale
A seguito della morte di George Floyd, come ricorderete, si sono verificati parecchi episodi di iconoclastia, abbattimenti di statue, negli Stati Uniti, in particolare, e in Gran Bretagna, ma pure in altri Paesi, anche se in tono minore.
È iniziata una sorta di pulizia storica sommaria, che non si accontenta di qualche film, come Via col vento, o di personaggi “palesemente” (ironia!!) razzisti quali Gli Aristogatti, Lilli e il vagabondo e persino l’apparentemente “irreprensibile” Mary Poppins, la quale pitturandosi di nero il volto (blackface) tra gli spazzacamini, ha “evidentemente” intenzione di scimmiottare e offendere le persone di colore, ma la nuova frontiera della cancel culture si è rivolta alla letteratura e all’arte.
L’ultimo episodio, alcuni mesi fa, ha visto come protagonista la Howard University, l’ateneo simbolo degli afroamericani, che ha deciso quest’anno di cancellare gli studi classici, abolendo il dipartimento per gli studi latini e greci: a partire da Omero e Cicerone ― classificati come “dead white males” (uomini bianchi pericolosi) ― si identifica nella cultura classica una delle fonti della cultura razzista. Sotto attacco è il cosiddetto “codice occidentale”, responsabile di aver diffuso nei secoli una cultura discriminatoria e di dominazione.
Il primo dato che salta all’occhio è che, nella prospettiva di garantire il valore della persona si vedono in questi autori del passato innanzitutto degli uomini “bianchi”, non degli uomini e basta, riproponendo ciò che, in realtà, si combatte.
Certamente si può reagire, come han fatto non pochi uomini della destra americana con sarcastici commenti, ma è altrettanto sicuro che questi sono preoccupanti segnali di uno scontro profondo e di una tendenza che va compresa nei suoi orientamenti e nelle sue conseguenze. Ad onor del vero, si sono alzate non poche voci autorevoli a definire queste scelte di parte del mondo accademico come una decadenza spirituale, un declino morale ed una chiusura intellettuale della cultura americana.
Nel nome di una tolleranza e un’inclusività (gli autori antichi sono etichettati come “poco inclusivi”) li si combatte come la matrice culturale e sorgente originaria della cultura razzista, considerandoli irrimediabilmente invischiati con la cultura suprematista bianca, riflettendo sul passato lo scontro politico di una parte della cultura degli USA.
In una lettera, ormai divenuta tanto famosa quanto strumentalizzata, firmata da 150 intellettuali, si sottolinea l’inquietante risvolto di tale cultura dell’ostracismo e della cancellazione: un movimento di opinione che per difendere le minoranze finisce con il cadere in forme di conformismo ideologico altrettanto intolleranti.
Queste idee nascono e si sviluppano come community ideologiche ed unilaterali, trovando nella comunicazione in rete e nei social un amplificatore, che radicalizza le posizioni e, attraverso processi sommari, chiede la gogna per i colpevoli. Sono realtà in crescita in tutti i settori e poiché spesso non si fondano su dati verificati e/o verificabili risultano essere facilmente strumentalizzabili e spesso vittime di architetti e strateghi del consenso e della diffamazione.
Il fenomeno degli inquisitori digitali è però in aumento e inizia a coinvolgere anche il nostro Paese, come testimoniano le critiche mosse ad alcune pubblicità che hanno suscitato polemiche e per questo sono state ritirate.
E forse ha ragione, dalle pagine de Il Foglio, Antonio Gurrado che, con non celato sarcasmo, si chiede, dopo essersi imbattuto nella novella di Pirandello La casa dell’agonia ― dalle immagini e paragoni decisamente scorretti ―, come mai la cancel culture non abbia ancora preso di mira Pirandello, la sua statua sia ancora integra e i suoi libri non siano stati messi all’indice e tolti dalle biblioteche perché opera di un vetero razzista. Dovremmo fare una bella revisione e pulizia di non pochi autori della nostra letteratura. Forse l’effetto sarebbe alleggerire anche i libri scolastici di antologia, no?
Qualche riflessione
La necessità di comprendere gli errori del passato, per poterne trarre scelte utili per il futuro, è da sempre uno degli obiettivi dell’indagine storica, per altro suggerita per la prima volta proprio da quei classici che oggi sono messi al bando. Ma la volontà di ripulire, igienizzare da ogni scoria il passato, la visione e l’interpretazione di quel che ci ha preceduto è sempre l’anticamera di forme striscianti e nuove di intolleranza, che aprono a tentativi di controllo del linguaggio, delle immagini, di quel che è lecito, concesso o proibito dire, esprimere, pensare.
Non sono nuovi, nella nostra storia, questo vento di giustizialismo giacobino e questo odore di ideologia e voglia di “sangue”, in una manichea interpretazione della realtà, dove sono proibite e non tollerate le sfumature, ma tutto è, o vorrebbe essere, limpido, chiaro, distinto, definibile e definito. Serve conoscenza, approfondimento, mediazione, un paziente lavoro di riflessione e autocritica, non cancellazione e giustizialismo mediatico.
Qualcuno dovrà, poi, provare a spiegare come è avvenuto il cortocircuito tra l’idea di inclusione, che è divenuta in ogni ambito una parola chiave, forse più usata che compresa, per legittimare contesti accoglienti, e una cultura che, così accanita nella difesa di chi ha meno diritti, finisce per negare a sua volta ogni altra idea e diritto.
Potrebbe essere utile inoltre valutare come l’incontrollata circolazione di contenuti ed informazioni non verificate aumenti la contrapposizione e generi, nel mondo della comunicazione social, ondate di indignazione, protesta, rabbia, panico: la gestione comunicativa della pandemia ha testimoniato tutte le fragilità del mondo della comunicazione. Certamente questo dipende anche dalla sovraesposizione mediatica delle nostre vite e dalla progressiva eliminazione dei confini tra sfera privata e pubblica.
Al centro c’è, ancora una volta, il tema della libertà di espressione: se sia necessario porvi dei limiti e dei confini ― evitando una forma di espressione senza limiti, come la rete pretenderebbe e di fatto legittima ―, o sia accettabile ogni tipo di manifestazione comunicativa, anche quella che, per contrapposizione, diviene offensiva e scorretta, o se, invece, sia possibile preservare la possibilità di essere in disaccordo, senza timore di catastrofiche conseguenze di ostracismo e accusa.
Il rapporto con la storia ed il nostro passato, il desiderio di giustizia e di una società e un mondo inclusivi ed accoglienti ed il mai domo bisogno di libertà pongono profondi interrogativi sulla nostra identità personale e collettiva, per la quale nei classici così vituperati qualche inizio di risposta potremmo forse ritrovare.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 3, Giugno 2021