Sintesi e commento dell’Enciclica di Papa Francesco
(di Samuele Donà ocd)
La terza enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, così come la precedente Laudato sì del 2015, ha un’anima francescana. Firmata ad Assisi il 3 ottobre scorso, vigilia della festa di San Francesco, porta un titolo che è una citazione del Santo, patrono d’Italia e dell’attuale pontificato, dal valore programmatico. Già, perché questa lettera «Sulla fraternità e l’amicizia sociale» si colloca tra le encicliche sociali, e come tale ci offre soprattutto criteri per l’agire. Ma in che modo, e fino a dove, la fraternità può diventare un programma per l’azione economica, politica e comunitaria? E in che senso questo orientamento si può proporre anche ai non cristiani? Gran parte di questo contributo abbozza una risposta alla prima domanda, mentre, la seconda, decisiva, questione, è affrontata nell’ultimo paragrafo.

I sogni infranti di Papa Francesco
Non fa sconti, Papa Francesco, nel descrivere le “ombre di un mondo chiuso”. L’analisi è acuta e, come tutte le parole profetiche, ferisce. Di questo primo capitolo dell’enciclica colpisce soprattutto l’ampiezza di sguardo: non a caso, un profondo conoscitore di Papa Bergoglio vi scorge le tracce di S. Ignazio, «che invitava a pregare immaginando come Dio vede il mondo» (A. Spadaro, La Civiltà Cattolica, 17.10.2020). E come lo vedono, questo mondo di oggi, Dio e il Suo vicario in terra?
La diagnosi spazia da una politica in crisi, ridotta a marketing elettorale, a una concezione povera dell’essere umano e della sua dignità, che produce la cultura dello scarto. C’è di mezzo, è ovvio, la questione dei diritti umani fondamentali e della colonizzazione culturale del consumismo occidentale, ma si parla anche di paure, che tutta la nostra tecnologia non ha saputo eliminare, e di pandemie; di come l’ambiente digitale in cui viviamo e comunichiamo ci abbia resi «prigionieri della virtualità» (FT, n. 33).
Questa lunga trattazione non è però un cahier de doléance sociologico, o un’invettiva moralistica. No, tutt’altro: sull’accumulazione dei tanti sogni infranti, piuttosto, si appoggia l’orizzonte di senso di ciò che si dirà poi sulla fraternità. E l’orizzonte è «quello di un mondo che corre verso destini di guerra – giacché, commenta M. Borghesi, – I Papi non scrivono encicliche sulla fraternità per una terra tranquilla» (L’Osservatore Romano, 13.10.2020). Dinanzi a questo fosco orizzonte, Papa Francesco indica alcuni cammini di speranza che hanno al centro proprio la fraternità.
Un estraneo sulla strada
Per cominciare questo cammino di fraternità, c’è un’icona fondamentale con cui misurarsi (forse addirittura con la quale scontrarsi): «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti…» (Lc 10,25-37). È il drammatico impatto con «l’estraneo sulla strada», il cui volto sfigurato pone al buon samaritano e a ognuno di noi la domanda: che c’è fra me e lui? Dalla risposta che daranno le nostre azioni, dipenderà il rapporto tra me e gli altri uomini, tra me e me stesso, e tra me e Dio. Certo: tutti avremmo qualcos’altro da fare, e tutti abbiamo qualcosa in comune con ogni personaggio della vicenda (dal poveraccio ai briganti, dai sacerdoti al samaritano…). Ma – osserva il Papa – l’impatto con “l’estraneo sulla strada” sfronda il discorso: «semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo» (FT, n. 70). Ecco perché questa enciclica può parlare di una fraternità universale, comprensibile cioè a qualunque essere umano in ascolto della comune umanità bisognosa.
C’è dell’altro, ed è il motivo per cui questo secondo capitolo è ancor più prezioso: l’impatto con “l’estraneo sulla strada” riporta il discorso di Fratelli tutti al piano personale. Un’enciclica sociale come questa, cioè, non interpella solo i potenti della Terra e le loro decisioni: arrestarsi qui «sarebbe infantile». Essa interpella invece ognuno di noi, in quello «spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni» (FT, n. 77). Vediamo allora le direttrici principali per guidare il nostro “farci prossimi”.
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Possiamo individuare tre grandi attraversamenti o salti culturali che i capitoli centrali dell’enciclica invitano a compiere (G. Costa – P. Foglizzo, Aggiornamenti Sociali, 11.2020). Evidentemente la nostra sintesi non mira ad esaurire un discorso molto più complesso, ma soltanto ad incuriosire il lettore introducendo tematiche tutte da esplorare nelle pagine dell’enciclica.
Il primo attraversamento, o salto, richiede di andare “oltre” un mondo di soci. “Socio” è – secondo P. Ricoeur, qui esplicitamente menzionato da Papa Francesco – «colui che è associato per determinati interessi» (FT, n. 102), cioè colui che, vivendo da individuo, fa il bene solo se gli conviene: il paradigma libertario su cui poggia la nostra società del desiderio risponde perfettamente a questa logica. L’invocazione che vi predomina è: “libertà!” In questo contesto, la «fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica» (FT, n. 109). Cosa si oppone a questo mondo di “soci”? La virtù della solidarietà, che nasce dal sapersi uniti da una comune origine e dal medesimo destino, e quindi responsabili gli uni degli altri, soprattutto dei più fragili.
Ciò ha delle conseguenze pratiche: la comune origine di tutti richiama il principio della destinazione universale dei beni, cioè la non assolutezza della proprietà privata. Quest’ultima, infatti, va sempre considerata una forma di amministrazione per il bene comune (lo ricordano non solo i padri della Chiesa e San Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, ma perfino la Costituzione italiana all’art. 42). Il medesimo destino verso cui camminiamo, poi, viene incarnato dalla nozione di “popolo”, a cui «è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali» (FT, nn. 158, 163).
“Oltre” le frontiere…
Ma “solidarietà” e “popolo” non bastano. I diversi popoli debbono collaborare, la fraternità ha da essere universale. Questo dinamismo, per svilupparsi pienamente, richiede quindi un ulteriore salto: il superamento delle frontiere. Frontiere in senso proprio, innanzitutto: il Papa apre il capitolo quarto dell’enciclica proprio con il tema a lui caro dei migranti e della loro integrazione, ma parla anche del diritto a non migrare, cioè al diritto di ogni popolo ad avere adeguate possibilità di sussistenza nella propria terra (FT, nn. 38, 132). C’è però un aspetto più innovativo che viene introdotto a partire dai fenomeni migratori e dalle urgenze ad essi relative.
Ci riferiamo al superamento delle frontiere (o meglio: barriere) culturali. Su questo tema, si avverte un lungimirante equilibrio dei fattori in gioco, forse più latino-americano che statunitense-europeo (a proposito di scontro di civiltà!). Ebbene – dice Papa Francesco –, le diverse culture possono e devono arricchirsi reciprocamente, ma con un limite: nella misura in cui esse non vengono sacrificate sull’altare dell’indistinzione astratta e globalizzante. «Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali» (FT, n. 143).
Si potrebbe obiettare che tali esortazioni appaiono belle, ma velleitarie e forse un po’ moralistiche. Non è così. Il fondamento di questo secondo superamento (“oltre le frontiere”) non è infatti uno sforzo della volontà ma, ancora una volta, la presa d’atto di una realtà esistente: quella del nostro essere interdipendenti, e non soltanto a livello di singoli (questo lo abbiamo capito meglio grazie al Covid), ma anche a livello globale, di popoli. «Oggi o ci salviamo tutti o nessuno si salva. La povertà, il degrado, le sofferenze di una zona della terra sono un tacito terreno di coltura di problemi che alla fine toccheranno tutto il pianeta. […] La consapevolezza del limite o della parzialità, lungi dall’essere una minaccia, diventa la chiave secondo la quale sognare ed elaborare un progetto comune» (FT, nn. 137.150).
Si tratta, soltanto, di trarre le conseguenze operative di questa interdipendenza.
“Oltre” le ideologie populiste o libertarie
Arriviamo così all’ultima tappa dell’enciclica, che si può far partire dal capitolo quinto, «La migliore politica». Ancora una volta Papa Bergoglio sorprende, analizzando con grande finezza i pericoli del populismo chiuso, da un lato, e del liberalismo individualista, dall’altro. Entrambe le prospettive possono, però, venire valorizzate in ciò che di buono contengono, e questo a partire dalla carità: essa viene vista come un motore di trasformazione della storia che include «mito e istituzione» (FT, n. 164). La ricerca, nelle diverse situazioni, delle soluzioni possibili, viene significativamente chiamata «carità politica», e fa cercare «il bene di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione sociale che le unisce» (Ft, n. 182).
Anche qui è possibile un’obiezione: quale criterio guiderebbe mai questa carità politica, in una società plurale, dove ogni giorno nuovi desideri sembrano doversi imporre? È caritatevole porre dei limiti e orientare il cammino in una certa direzione? Francesco è, ancora una volta, spiazzante: il criterio è la verità. «La carità ha bisogno della luce della verità che costantemente cerchiamo» (FT, n. 185). Non a caso, abbondano qui le citazioni di Caritas in veritate di Benedetto XVI. Questa verità si mostra anzitutto nella dignità di ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi. «Ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione. Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita» (FT, n. 195).
Ciò ha delle conseguenze concretissime: implica, per esempio, un’opzione preferenziale per chi subisce una minaccia contro questa dignità. Ancora, il mettere al centro la dignità dell’uomo nella sua unità impone un’azione assistenziale che miri a sviluppare il complesso delle potenzialità di ognuno, e non soltanto a soddisfare alcuni singoli bisogni.
Passi di fraternità quotidiana
Sì, ma come muoversi? In conclusione, Papa Francesco delinea alcuni spunti metodologici che possono valere anche nella vita quotidiana di ognuno. Ci limitiamo a menzionarli, rimandando all’enciclica per un eventuale approfondimento. Essi sono il dialogo come metodo, sia pure con la prospettiva tutt’altro che relativista appena enunciata; la pace e il perdono come obiettivi immediati; la memoria come antidoto alla reiterazione degli errori; la presa d’atto che la guerra e la pena di morte sono un «fallimento […] dell’umanità» (FT, n. 261).
Solo filantropia? Fratelli tutti, “gli altri” e il Padre
L’ultimo capitolo di FT amplia lo sguardo al contributo che anche le religioni non cristiane possono portare alla fratellanza universale. È noto che l’enciclica stessa è debitrice in larga parte allo storico incontro tra Papa Francesco e l’Imam Ahmad Al-Tayyeb ad Abu Dhabi nel 2019. Lo stesso Pontefice cita ampiamente la Dichiarazione sulla fratellanza umana ivi sottoscritta, come conclusione dell’enciclica (FT, n. 285).
Quest’ultima parte costituisce il punto di coagulo di alcune opinioni critiche, che si possono ricondurre a due punti principali: primo, è stato affermato che questo documento testimonia una tendenza nella Chiesa contemporanea, per la quale «a caratterizzare il cristianesimo è sempre di più la dimensione della Caritas e sempre meno quella della Trascendenza» (S. Natoli, Cristianesimo come etica universale?, Morcelliana 2020), lamentando soprattutto la scomparsa di un riferimento esplicito al Dio di Gesù Cristo. Secondo, l’enfasi sulla fraternità porterebbe a identificare la possibilità di salvezza esclusivamente col farsi vicino del fratello, dimenticando che «la condivisione del dolore non è la stessa cosa della definitiva liberazione dal male» (ibid.).
Il miglior modo di prendere sul serio queste critiche è quello di ascoltare senza precomprensioni l’enciclica, e soprattutto quest’ultima parte, nella quale possiamo leggere: «Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere […]. La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile» (FT, n. 273). E ancora: «Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera» (FT, n. 277).
Non bisogna dimenticare – come osserva un acuto pensatore contemporaneo – che l’enciclica è destinata più di altre, e con un’intenzione esplicita in tal senso, ad una diffusione al di fuori del cristianesimo. Questa prospettiva ha indotto il Papa a puntare molto sull’aspetto orizzontale della fraternità, senza censurare però in alcun modo «la ragione della fraternità dei cristiani: riconoscere un solo Padre, che è nei cieli» (J.L. Marion, L’Osservatore Romano, 17.11.2020). E – ricordando che già K. Rahner metteva in guardia da un Dio capace, sì, di condividere la nostra sofferenza, ma non di tirarcene fuori – aggiungeremmo: la ragione della fraternità dei cristiani è anche riconoscere un Fratello che, oltre a soffrire con noi, ha saputo donarci la Risurrezione.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 1, Febbraio 2021