La cura della fragilità prenatale
(a cura di P. Fabio Silvestri ocd)
Il nostro primo incontro con il Dott. Giuseppe Noia (per gli amici soltanto ed inevitabilmente… Pino!) avvenne nel 2008, in occasione di uno dei primi appuntamenti di Pietralba, l’incontro internazionale degli Universitari del Movimento. Ricordo ancora come quella volta, al termine della sua relazione (che riguardava il mistero della vita nascente), gli occhi di tanti ragazzi erano lucidi e la gratitudine… evidente: le sue parole erano arrivate al cuore di tutti, con l’efficacia che appartiene soltanto alla verità, in particolare quando è comunicata con passione. E la verità sull’origine della vita, troppo spesso, non ci viene raccontata per davvero, perché la sua logica semplice inquieta chi vorrebbe negarla, e la sua bellezza abbaglia… Con il Dott. Noia nacque allora un’amicizia, che ci portò ad invitarlo di nuovo a Brescia per un incontro cittadino organizzato dal “Gruppo Cultura” del MEC: erano i tempi drammatici – anche per la banalità del dibattito che la accompagnava – dell’introduzione sul mercato della pillola abortiva RU486. Anche in quell’occasione, i presenti rimasero colpiti per la rara sintesi di oratoria e competenza con cui il tema fu affrontato e declinato, con la misura della chiarezza e la solidità della scienza. Il prossimo 23 settembre – anche se non è stato facile “strapparlo” ai suoi molteplici impegni! – il Dott. Noia tornerà a trovarci, nell’ambito della Festa Verso l’Altro, e lo farà con un intervento particolarmente significativo: “Il mistero della generazione. La vita nascente come principio educativo”. Il tema, infatti, pone un riferimento decisivo nel dibattito sulla vita nascente: educare a capirne il valore, saperne cogliere il mistero altissimo, significa anche educare alla vita umana globale, al suo senso profondo, al suo tutto. E sarà bello poter riflettere su questo legame guidati da qualcuno che – al livello professionale e scientifico – è unanimemente riconosciuto come un luminare, pur non cessando mai di essere, contemporaneamente, un testimone autentico della fede in Cristo. Per questa occasione, Dialoghi offre allora ai lettori due scritti del Dott. Noia, di taglio diverso: il primo è dedicato alla cura della fragilità della vita nascente, che è sempre vita di un figlio, qualunque sia la condizione del feto; mentre il secondo è una preziosa testimonianza del percorso umano, professionale e di fede che ha portato il Dott. Noia a diventare un ginecologo di fama internazionale. E, prima ancora, un cristiano che sa di avere una missione.

Il senso della Vita nella “terminalità”
(del Dott. Giuseppe Noia)
Confligge con la natura stessa dell’arco procreativo definire “feto terminale” una vita che inizia. Il dato biologico, però, non può contenere in sé tutto il significato del fatto meraviglioso di un tracciato esistenziale che viene chiamato ad attuarsi dal Creatore nella dimensione del tempo concesso alla vita extrauterina. Ci facciamo aiutare da due affermazioni per capirlo meglio. Una bioeticista, filosofa e antropologa come Hannah Arendt dice: “Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare”. Mentre Chiara Corbella, una mamma piena di amore alla vita e piena di fede, afferma: “Siamo nati e non moriremo mai più!”. Allora si comprende meglio come il concetto di terminalità vada corretto e reinterpretato con quello di un “bambino incompatibile con la vita extrauterina”. Questo è il concetto sul piano biologico, ma la realtà è quella di un figlio che è presente, compatibilissimo con la Vita con la V maiuscola, intesa come realtà non virtuale ma reale. Essa è piena di un mondo di relazioni dettate dall’abbraccio globale tra il figlio e la madre, un intreccio biologico, psicodinamico e spirituale di scambi biunivoci di emozioni, suoni, parole, presenza e comunicazioni amorose, che si sviluppano incessantemente tra il padre, la madre e il nuovo arrivato sin da subito. È una finestra che apre all’eternità, un destino di vita che non finirà mai.
La cura della gravidanza è sempre possibile
Sulla base di questa visione della “terminalità non terminale” (sembra un gioco di parole ma, nei fatti, è la verità di questa relazione), le condizioni di fragilità malformativa fetale cui ci riferiamo sono quelle in cui la storia naturale genetico-strutturale è, purtroppo, già conosciuta come una condizione clinica che non potrà avvalersi di cure prenatali o postnatali che possano cambiare la sua evoluzione. Parliamo della anencefalia, dell’agenesia renale bilaterale, delle displasie renali gravi precocissime, delle triploidie, delle sindromi di nanismo tanatoforo. In tali casi però non è vero che non c’è più niente da fare: se non possiamo curare i bambini ci possiamo prendere cura di queste gravidanze perché, rispettando il progetto genitoriale della coppia, ci prendiamo cura di queste famiglie. L’idea fondante è quella che un bambino non ancora nato è sempre un figlio.
La difesa della vita prenatale dalla “cultura del tempo”
Oltre ai bambini intrinsecamente incompatibili con la vita, vi sono altre tipologie di gravi malformazioni fetali che vengono considerate incompatibili con la vita extrauterina, terminali, non a motivo della realtà biologica intrinseca alla malformazione ma dalla cultura del tempo; perché questa spesso è soffocata dall’ignorare, dal non conoscere la condizione clinica su cui si discetta e sulla sua evoluzione, chiudendosi ai più recenti progressi della scienza prenatale e rendendo incompatibili con la vita condizioni fetali che, se curate prenatalmente, sono compatibilissime con una buona evoluzione postnatale. In questa categoria ci sono condizioni come le gravi tachiaritmie e bradiaritmie fetali, la rottura precoce delle membrane amniotiche sotto la ventesima settimana (p-Prom), le gravi incompatibilità di sangue madre-feto, le idropi fetali non immuni, le gravi uropatie ostruttive con megavescica, le emoglobinopatie, l’idrocefalia isolata e la spina bifida, e tutte le malformazioni strutturali che possono essere curate sia in maniera invasiva che non invasiva sia pre-natalmente che post-natalmente. È proprio questa categoria di gravidanze dove più emerge la differenza tra l’Hospice per l’adulto e l’Hospice Perinatale: nel primo la storia naturale della grave malattia cambia solo raramente, nel secondo invece condizioni considerate incompatibili con la vita extrauterina, e che hanno sopravvivenze esigue (10-12% riportato in letteratura), con i trattamenti invasivi palliativi prenatali e con le terapie invasive e non invasive prenatali, arrivano ad una sopravvivenza del 72%.
Continua a leggere
La difesa della vita prenatale dall’amplificazione del rischio
Una terza categoria di condizioni incompatibili con la vita extrauterina su base culturale (non intrinseca cioè all’anomalia vera e propria) sono tutte quelle condizioni fetali che solo teoricamente possono portare a gravi anomalie del feto, attraverso una proiezione non scientifica del problema e quindi a un completo travisamento della storia naturale di quella patologia. È il caso della trasmissione verticale delle malattie infettive (rosolia, citomegalovirus, varicella e toxoplasma) o di altre patologie materne, per le quali, la non conoscenza delle storie naturali (cioè l’evolversi della patologia e delle sue conseguenze, sia nella vita prenatale che postnatale) in cui l’amplificazione del rischio non è scientificamente e rigorosamente valutato, porta a una sentenza di morte e non ad una diagnosi. Dinanzi a tutto questo mondo di a-scientificità e di proiezioni amplificate sul danno attuale e potenziale del bambino non ancora nato, la scelta di “terminare” quella gravidanza (cioè la scelta di un aborto volontario tardivo) aleggia pesantemente nei pensieri e nella coscienza delle donne. La povera coppia entra in un tunnel di confusione e di angoscia dove l’ansia ingigantisce il problema esistente e prepara gradualmente il rifiuto. È per tal motivo che occorre sottolineare il peso fondante della chiarificazione scientifica che riduce l’amplificazione del rischio e salva tanti bambini. È quello che chiamiamo il “salvataggio culturale” dall’aborto da ignoranza, cioè dal non conoscere esattamente ciò che oggi la scienza ci dice e può fare.
La “medicina condivisa” per il bene del figlio
Una risposta a questa condizione di disagio in cui si viene a trovare la famiglia che affronta una gravidanza patologica è la medicina condivisa: una sinergia operativa tra scienza, famiglie e fede, che abbraccia visivamente tali coppie, su un cammino fatto di tappe relazionali importanti, perché possano uscire dalla solitudine e dalla desolazione. In concreto, questo si traduce nel dare significato alla scelta di accompagnare il loro bambino e nel concreto esprime l’obiettivo di non silenziare tutta la progettualità di scelte, desideri e momenti fatti per quella gravidanza. Si può così ripristinare tutto il senso di amare il proprio figlio, indipendentemente dalla presenza della malattia e della sua gravità come sicuramente avrebbero fatto se quel figlio avesse avuto l’età di pochi mesi o 1 o 2 anni dopo la nascita.
È chiaro che, da un lato, l’accompagnamento di un bambino incompatibile con la vita extrauterina non è un tracciato poetico di sorrisi e serenità costanti: c’è una umanità che soffre e l’accoglienza e la condivisione di questo dolore va puntellato da sostegno medico, psicologico, affettivo e spirituale; dall’altro lato, però, è il percorso che, come dimostrato anche da alcuni studi, appare più in linea con tutto quel sistema relazionale e affettivo che lega il nascituro ai genitori, nonché, con la salvaguardia della salute materna in tutti i suoi aspetti. Per la coppia, l’accompagnamento del proprio bambino permette di non lasciare incompiuto il progetto d’amore che caratterizza quel desiderio genitoriale e di non subire il devastante impatto che, sul piano umano e psicologico, segue alla decisione di porre fine alla vita di un figlio “fragile”.
E, tutto questo, nella piena consapevolezza che non si elimina mai la sofferenza eliminando il sofferente…
(www.ilcuoreinunagoccia.com – tit. orig.: Il senso della Vita nella “Terminalità”. Curare e “prendersi cura” delle fragilità prenatali)
Essere medico, essere dono
«Io sono stato creato in dono per chi mi sta vicino e chi mi sta vicino è stato creato in dono per me» (C. Lubich)
(del Dott. Giuseppe Noia)
Come medico, mi sono chiesto quale fosse il “cuore” di questa mia scelta e, avendo avuto una scuola personale di esempi tutti dediti al servizio, mi sono reso conto del “dono” che posso essere per gli altri. Il dono è quello di fare qualcosa di vero, di sentirsi utile, di essere mezzo per lenire la sofferenza, di dare sollievo a chi vive la “condizione” del dolore fisico, psicologico, in definitiva di mettere a disposizione degli altri i migliori anni e… le migliori risorse della mia vita, il “meglio di me”.
Questo itinerario interiore, però, non l’ho compiuto in una piena e completa consapevolezza iniziale, ma quasi con una dedizione istintuale e nell’idea che il medico “doveva fare così”. Avevo anche la segreta ambizione di tutti i giovani sognatori di diventare “grande” in qualche cosa e quindi ho cominciato a lavorare per poter fare ricerca scientifica. Ma, cominciata la specializzazione in Ginecologia, mi resi conto che, per il mio tempo, la risposta a diventare “grande” in qualche cosa mi spingeva più verso le persone che verso un laboratorio, più verso la clinica che verso la ricerca di base.
In quegli anni il valore della vita umana, ai suoi albori, veniva legalmente e scientificamente attaccata (la legge sull’aborto è del maggio 1978 e la prima nata da fecondazione extracorporea è del luglio dello stesso anno). Capii molto bene che il nucleo del problema, non solo scientifico ma anche giuridico, etico e sociopolitico, era l’embrione e tutto ciò che intorno a lui ruotava: la coppia, la famiglia, l’affettività, la sessualità umana. Era lui il segno di contraddizione, era il valore della vita e quella più debole il campo di battaglia, era la verità sulla persona umana, la posta in gioco!
Per me, specializzando di Ostetricia e Ginecologia, la ricerca di base poteva aspettare: altre urgenze mi spingevano a spendere la vita; sentivo che impegnandomi in quel campo (la difesa della vita nascente) avrei speso bene la vita per Qualcuno. Infatti quattro anni prima avevo incontrato Gesù Cristo attraverso la realtà umana e spirituale di un sacerdote, don Giuseppe De Santis, che viveva vicino a Narni, in Umbria. Aveva frequentato Padre Pio per circa vent’anni e ne era diventato un figlio “speciale” per doni e santità di vita. Lo conobbi per una serie di combinazioni! (Padre Pio diceva: «Chi combina le combinazioni?»). Lui cambiò la mia esistenza nel senso che mi fece capire, attraverso la filosofia delle piccole cose, il significato più profondo dell’“essere dono per gli altri”, visto che lui lo era stato per me. Con piccoli atti d’amore mi aveva vivificato la vita e io volevo e dovevo fare come lui. Pochi mesi prima di conoscerlo, dopo alcuni anni che non andavo più a messa, in una chiesa vicino Piazza Bologna, i Martiri Canadesi, ascoltando quel canto che dice “Dio si è fatto come noi per farci come Lui” scoppiai in un pianto irrefrenabile: era pazzesco che Dio “si facesse” come noi, ma ancora più pazzesco ne era il motivo: «per farci come Lui». Dio si era fatto come noi, si era fatto embrione: questa realtà mi ha spaccato il cuore perché, come sempre nell’Amore, chi ama di più, prende l’iniziativa. Lui si era fatto dono e nella gratuità più assoluta (che interesse aveva Dio se non solo il suo immenso Amore?). Ecco quindi i dati esperienziali che fondarono l’idea di essere dono per gli altri. Ma “il dono per me”? Come si sarebbe ottenuto?
Alla scuola di don Giuseppe ho imparato che servire è veramente regnare e sotto la sua guida fui spinto a lavorare per le ragazze madri, a fare volontariato, a fare qualcosa che come medico mi caratterizzasse in una certa gratuità. I numerosi viaggi a Lourdes dove si paga per servire il malato ne furono l’emblema. Le ragazze madri della casa di Primavalle di Madre Teresa mi furono “maestre”. Mese dopo mese vedere che chi non aveva nulla (marito, casa, averi, condizioni sociali) accoglieva il bimbo, mentre chi aveva tutto non accoglieva il bimbo, cioè la grazia di Dio, fu uno shock. Ho pensato: “Chi ha il cuore non occupato è più pronto ad amare”. Bisognava fare spazio nel cuore, spesso occupato e preoccupato per tante cose inutili. E piano piano le pazienti stesse sono diventate dono per me.
Continua a leggere
Ho capito il potere della «sapienza», il potere del «sapere», quel sapore, cioè, che l’intelligenza e la volontà acquistano quando la mia esperienza clinica e scientifica viene “donata” per tranquillizzare nelle diagnosi (la verità, sì, ma nella carità); per curare quando è in pericolo la vita delle mamme e dei loro feti, per condividere la sofferenza (molto spesso) e la gioia (meno spesso) delle coppie sterili, impegnandosi a trovare risposte eticamente degne al santo desiderio di avere un figlio; nel lenire il dolore devastante di aver abortito volontariamente il proprio figlio o nel proporre terapie cliniche e psicologiche che aiutino ad elaborare il lutto dell’aborto spontaneo ricorrente; nell’aiutare l’universo femminile dell’adolescenza alla scoperta del valore della corporeità, della sessualità e dell’affettività in un mondo che banalizza e materializza l’anima del dono della vita; facendo scoprire alla donna che va in menopausa che il dono della “fecondità” spirituale non finirà mai. Non sempre questo approccio è pieno di risultati quantificabili, ma per chi si preoccupa di fare il consuntivo della propria vita in termini di risultati c’è una risposta di don Giuseppe che a me pare illuminante: «Saremo giudicati sull’impegno nel fare le cose e non sui risultati; saremo giudicati sull’amore!».
Ci si deve chiedere, allora: il medico ha bisogno di imparare l’arte del relazionarsi? Credo che non ci siano regole valide per tutti sull’arte del relazionarsi, ma che ognuno può impararle dal libro della propria vita. È vero, profondamente vero, che la povertà più grande del nostro tempo è quella delle relazioni ma il medico deve imparare “l’arte del relazionarsi” guardandosi dentro, non solo con gli occhi della mente e del corpo, ma soprattutto con gli occhi del cuore. Oggi più che mai il medico deve educare gli occhi del cuore perché essi possano vedere cose che gli occhi del corpo non vedono. Un cuore educato, allenato “a darsi” acuisce l’intuizione clinica del sintomo e fa guardare a tutta la persona, alla sua storia personale e al contesto in cui vive, e non solo ad una parte del suo corpo, cosicché la persona malata, sofferente, avverte le “vibrazioni” umane del medico che si interessa di lei. Il rapporto di transfert fiduciale nasce e aumenta se c’è un vero interesse per quella persona da parte del medico. Il malato lo “sente” dai modi con cui è trattato e dal tempo che gli si dà. Così inizia una precoce “predisposizione terapeutica” del paziente che si traduce anche in nuove energie, speranze, buon umore e che lo fa uscire dall’“hangar” della solitudine in cui spesso viene parcheggiato o si auto-parcheggia dinanzi al problema medico “perché non c’è tempo per ascoltarlo e si devono fare tante altre cose!”.
Nella moderna medicina, lavorando in équipe multidisciplinare, l’approccio è spesso sbilanciato: molta tecnologia, molte riunioni e discussioni, molta onestà nella ricerca scientifica, ma poca relazionalità verso il paziente, i suoi parenti, il suo contesto esistenziale. Apparentemente tutto ciò sembra poco rilevante, ma quante volte il percorso diagnostico, con la complessità delle metodologie e delle tecnologie ci toglie la “relazione clinica con il paziente?”. Questo modo di fare, questa povertà di metodologia relazionale è un grave danno alla professionalità e spiego perché: il medico è la figura che scientificamente, giuridicamente, socialmente e umanamente dovrebbe saper gestire il dolore, la sofferenza fisica e psicologica dei suoi pazienti. Mi sembra invece di assistere sempre più alla “fuga” del medico dinanzi alla gestione del dolore e della sofferenza. Abbiamo esempi recentissimi e meno recenti di tentativi di fuga o comunque di approcci sbagliati alla gestione del dolore e della sofferenza. Valgono per tutti i gravi problemi all’inizio (aborto) e alla fine (eutanasia) della vita. Qual è l’atteggiamento culturale prevalente e più diffuso? Dinanzi ad un’eventuale sofferenza che un bambino con malformazioni può creare si propone l’eliminazione del sofferente, così come dinanzi a condizioni di sofferenza in fase terminale di un uomo adulto si opta per la stessa scelta.
È veramente tragico e inumano pensare di eliminare la sofferenza eliminando il sofferente, ma questo accade sempre più frequentemente! Qual è allora la mutazione del cuore che si è verificata?
Se non si contempla il mistero del dolore e della sofferenza umana entrandovi attraverso Chi si è fatto dolore e sofferenza, cioè Gesù Cristo, è difficile gestire il proprio e l’altrui dolore. Capisco che offrire una chiave di lettura e di azione siffatta, per il medico che non crede, è di difficile attuazione, ma nel confronto rispettoso delle idee la propongo come fatto esperienziale intimo, amicale e personale, nella ricerca dei “perché” ultimi e del “senso” vero della nostra esistenza.
Offrire l’incontro con Gesù Cristo è offrire di passare attraverso una porta che appare stretta e difficile, ma che poi si rivela così profondamente umana e appagante da non doversene pentire mai. Anche noi prima di nascere, nel canale del parto, eravamo pieni di angoscia, ma quanta gioia quando il nostro primo respiro si è fuso con il mondo! Un’autentica relazione alla luce della fraternità si può realizzare offrendo ai colleghi “il meglio di me” o quello che è stato “il meglio di me” e per la mia vita. Ho potuta sperimentare l’efficacia reale di questa proposta, e continuamente la sperimento, quando invito colleghi con percorsi interiori, i più disparati e differenti, [ad ascoltare la storia di chi] accompagna i propri figli, in presenza di gravi malformazioni, sino alla morte naturale, senza optare per l’aborto volontario […].
“Toccare” queste esperienze mi fa ricordare quello che mi ha detto, personalmente, Madre Teresa il 25 maggio 1996: «Voi medici siete dei privilegiati perché, quando toccate con le parole, il cuore, e con le mani, il corpo, delle persone che soffrono, voi toccate, in quelle persone, Gesù Cristo sofferente». La migliore arte di relazionarsi è questa: affrontare la sofferenza e il dolore con la consapevolezza che possiamo solo lenirlo, non sradicarlo dalla realtà umana: e questo è tanto, soprattutto quando, incapaci di curare, condividiamo!
(http://www.mdc-net.org/it/da-leggere/biblioteca/171-essere-medico-essere-dono.html)
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 20, NUMERO 3, Settembre 2019
Giuseppe Noia è nato a Terranova di Sibari il 14/01/1951. Si è laureato in Medicina e Chirurgia, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”; presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma ha conseguito la Specializzazione in Ginecologia ed Ostetricia, nel 1980, e in Urologia, nel 1988. È Professore Associato di Medicina dell’Età Prenatale presso la facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica; del corso di laurea in Medicina e Chirurgia della Scuola di Specializzazione in Ostetricia e Ginecologia del Policlinico “A. Gemelli” (dal 1983); del corso di laurea in Ostetricia e del Corso di perfezionamento e dei Master in Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Di recente è stato nominato Consultore del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita della Santa Sede (2018). È membro della Commissione Scientifica della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana ed è Presidente dell’Associazione Italiana Ginecologi Ostetrici Cattolici (AIGOC). È Fondatore e Presidente della Fondazione Il Cuore in una Goccia Onlus. È Direttore dell’Hospice Perinatale Centro per le Cure Palliative Prenatali “S. Madre Teresa di Calcutta”, presso il Policlinico Gemelli I.R.C.C.S. a Roma. È membro di molte Società Italiane ed Internazionali di Ostetricia e Ginecologia. È autore di 477 pubblicazioni, su riviste nazionali e internazionali, tra le quali i volumi: Noia G. – Caruso A. – Mancuso S., Le terapie fetali invasive, Società Editrice Universo, Roma, 1998; Noia G., Il figlio terminale, Nova Millennium Romae, Roma, 2007; Noia G., Terapie fetali, Poletto Editore, Milano, Novembre 2009; Noia G., Una goccia d’amore cambia il mondo: Madre Teresa e l’Università Cattolica, Edizioni Cantagalli, Siena, 2016; Noia G., Le cure prenatali. Nuovi percorsi di risposta alla diagnosi prenatale patologica, Falco Editore, Cosenza, 2017.
La Fondazione Il Cuore in una Goccia (www.ilcuoreinunagoccia.com) è un ente senza scopo di lucro, apartitico e apolitico, che ha lo scopo di favorire, sostenere e promuovere l’attività di ricerca scientifica e la diffusione di una cultura pre-concezionale, prenatale e postnatale che tuteli la vita e la salute della madre e del bambino. Si rivolge, dunque, in primis, alle famiglie, alle donne e ai bambini, ma anche al mondo medico-scientifico con finalità di ricerca, informative e di diffusione di approcci medico-paziente che non vadano a ledere e mortificare la dignità e la sacralità della vita nascente e delle famiglie ad essa legate. I quattro campi di attività in cui la Fondazione si impegna sono: prevenzione, informazione, terapia e accompagnamento in relazione a tutte le fasi della vita nascente, la fase pre-concezionale, quella pre-natale e quella post-natale.