Incontro con Mauro Garofalo

Responsabile relazioni internazionali

Comunità di Sant’Egidio

La pace è un lavoro artigianale
Festa Verso L’Altro (Adro, 3 giugno 2023)

 

(a cura di Massimo Gelmini)

 

 

“La pace è un lavoro artigianale” è una definizione tratta da un’omelia che Papa Francesco tenne nel 2015 a Sarajevo, rivolgendosi ai fedeli di una terra martoriata dalla guerra. In quell’occasione disse esattamente: «Fare la pace è un lavoro artigianale», e poi aggiunse: «Richiede pazienza, passione, esperienza, tenacia». In precedenza, nel 1986, Papa Giovanni Paolo II aveva usato un’espressione analoga, assimilando anche in quel caso la pace ad un lavoro, ad un’attività produttiva che implica uno sforzo quotidiano, tanta dedizione e anche creatività. Si trovava ad Assisi dove era in corso una Giornata internazionale di preghiera per la pace, alla quale partecipavano esponenti delle chiese cristiane, delle comunità ecclesiali e delle religioni di tutto il mondo. Nel suo discorso, papa Wojtyla disse: «La pace è un cantiere aperto a tutti» ed esige che tutti si sentano chiamati a «una responsabilità universale», perché ciascuno possa contribuire alla sua realizzazione. A quell’incontro era presente anche la Comunità di Sant’Egidio: una comunità nata circa vent’anni prima, all’epoca della contestazione, come movimento di persone desiderose si orientare la propria vita nel solco del Vangelo, dedite alla preghiera, alla cura dei poveri e dei bisognosi e alla costruzione della pace. Chiediamo a Mauro Garofalo, responsabile delle Relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio, di raccontarci come è nata nel 1968 la Comunità e come sia avvenuto che da lì a qualche anno essa si sia strutturata dando vita ad una nuova opera, e realizzando la propria vocazione di farsi promotrice di spazi di dialogo e proposte di riconciliazione in diversi contesti di conflitto in ambito internazionale, fino a ricoprire un ruolo di primo piano e a guadagnarsi un riconoscimento a livello mondiale, pur non trattandosi di un’istituzione giuridica titolata a condurre trattative sulla base di un’investitura diplomatica o politica, come potrebbe essere l’Onu o altri organismi sovranazionali.

La comunità di Sant’Egidio nasce da un gruppo di liceali che, nel 1968 — in un periodo di cambiamenti, di tensioni studentesche, di volontà di rinnovamento del sistema e del mondo di allora — si riunisce intorno ad Andrea Riccardi, il nostro fondatore, e decide che si può cominciare a cambiare il mondo a partire dal Vangelo, dalla sua lettura e messa in pratica nella vita di ogni giorno. Si trattava di una decina di persone, un piccolo gruppo proveniente dal ceto benestante, la cui prima scoperta furono i poveri di Roma, gli abitanti delle sue baraccopoli. Roma allora era una città piena di baraccopoli, ma non in estrema periferia, anche in zone centrali, lungo il greto del Tevere, a Ponte Marconi. La scoperta di migliaia di persone che vivevano in condizioni disumane, di bambini che non studiavano, di donne maltrattate, di gente disoccupata fu la manifestazione di un mondo diverso e sconosciuto, e questo provocò uno shock, un impatto molto forte.

L’inizio fu un impegno quotidiano a fianco dei poveri, soprattutto dei bambini, alimentato dalla preghiera. Questa impostazione rimane tuttora. Il nucleo di Sant’Egidio è costituito ancora oggi dalla preghiera quotidiana, dai poveri e dalla pace, come ha ricordato Papa Francesco con una sintesi molto efficace quando è venuto a trovarci, richiamando le tre vocazioni fondamentali e inscindibili, «le tre P: i poveri, la preghiera e la pace». Non è possibile spiegare il lavoro per i poveri senza la preghiera, senza tenere sempre a mente nella preghiera le sofferenze e le necessità dei bisognosi. Non è possibile spiegare quello che abbiamo fatto per la pace, senza considerare che il Signore ci ha sostenuto attraverso la preghiera. 

Questa “formula” evidentemente ha funzionato, perché il gruppo si è allargato ed è cresciuto, prima a Roma, in tante zone della città, poi in Italia e in Europa. Oggi, Sant’Egidio è presente in una settantina di Paesi, in quattro Continenti, con comunità locali radicate nel territorio. Le comunità sono nate con iniziativa autonoma, senza essere state fondate da un’azione missionaria in senso stretto, e sono costituite da popolazione locale. Insieme formano una sorta di famiglia globale, una sorellanza di comunità che condividono la stessa spiritualità, la preghiera quotidiana, l’amore per il dialogo, la passione per la pace e, soprattutto, un impegno gratuito. Ci tengo a sottolinearlo: tutto è gratuito, nulla si paga a Sant’Egidio, perché l’amicizia non si paga. Chi incontra Sant’Egidio entra in una grande famiglia, una famiglia globale, che può contare attualmente circa 70mila, 80mila persone. Non lo sappiamo con esattezza perché non esiste una registrazione dei componenti, una membership card, per entrare a far parte di Sant’Egidio.

La pace è scritta nel DNA di Sant’Egidio e tante delle sue opere portano la pace nel titolo. Pensiamo alle Scuole della Pace, le scuole popolari ispirate al lavoro di Don Milani: doposcuola gratuiti per i bambini in difficoltà dove non si imparano solo le materie scolastiche e non si riceve solo un sostegno nutrizionale o familiare, ma si impara a vivere insieme agli altri, a rispettarsi, a rispettare le diversità, anticipando come in una sorta di profezia quello che dovrebbe essere il vivere insieme nel mondo. 

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I tanti stranieri che in più di quarant’anni abbiamo accolto, persone di tutte le culture, religioni e provenienze, hanno fondato un movimento che si chiama Genti di pace, perché alla scuola della comunità hanno imparato anch’essi ad accogliere e a lavorare insieme. 

E poi ancora la Preghiera per la pace. Nata proprio ad Assisi, in quell’evento storico del 1986 che diede vita allo spirito di Assisi. Grazie ad un’intuizione profetica di San Giovanni Paolo II che portò per la prima volta a riunirsi in un incontro di preghiera per la pace i leader di tutte le religioni. In quell’occasione Papa Wojtyla pronunciò le parole citate all’inizio e insieme disse: «La pace attende i suoi profeti», «la pace attende i suoi artefici», il mondo attende chi lavora per la pace. Quelle parole ebbero un impatto straordinario, perché indicavano una direzione: i cristiani devono essere operatori di pace. È scritto anche nel Vangelo, ovviamente. Ma il Papa invitava nuovamente tutti a farlo. E poi fu uno shock per Sant’Egidio, perché la Comunità aveva cominciato a diffondersi nel mondo, in Paesi in difficoltà, in Paesi in crisi, dove c’era la guerra. E qui si spiega perché il lavoro per la pace è diventato così centrale per noi. Perché la guerra era una ferita in Paesi dove noi eravamo presenti. Era una ferita, una piaga nella nostra carne, sulla nostra pelle, non più soltanto una questione strategica e politico–economica lontana. Erano i nostri fratelli, le nostre sorelle che venivano uccisi per la guerra. In un’altra occasione lo stesso Santo Papa aveva detto «la pace è una questione troppo seria per lasciarla in mano solo ai diplomatici, ai governi; ci devono lavorare tutti». Così nacque l’idea di lavorare per la pace in Mozambico. 

Penso a quella nostra prima comunità africana in un luogo dove da dieci anni imperversava una guerra civile, un frutto avvelenato del colonialismo: i portoghesi avevano lasciato il Paese in uno stato pietoso ed era nata una guerriglia tra un movimento di banditi del Nord (noti come i “bandidos armados”, ufficialmente RENAMO, ndr), finanziati dallo Zimbabwe e dal Sudafrica, e un governo, quello della FRELIMO (Fronte di Liberazione del Mozambico, ndr), di impostazione afro–marxista. Lì ci è voluta una certa dose di creatività per provare a trovare uno spazio in cui farli dialogare. Ci è voluto un lavoro di riconciliazione tra il governo marxista e la chiesa cattolica mozambicana. Un esempio: ai mozambicani non era permesso suonare le campane e non si potevano celebrare messe pubbliche, perché la Chiesa cattolica era percepita come un’eredità del colonialismo e il governo non approvava; dalla parte opposta i ribelli saccheggiavano, attaccavano villaggi e rapivano religiose. Si tennero alcuni primi incontri a Roma, che favorirono una sorta di riappacificazione tra la Chiesa e il governo locale. Fu organizzato da Sant’Egidio il viaggio dell’allora presidente Samora Machel, che incontrò proprio Giovanni Paolo II (che di comunisti se ne intendeva parecchio…) e cominciò un lento lavoro di ricucitura, coinvolgendo anche i ribelli.

Gli incontri avvenivano a Sant’Egidio, un piccolo monastero di Roma che era stato dato in gestione a noi, un gruppo di studenti universitari. In questo luogo cominciarono a incontrarsi confidenzialmente proprio i ribelli e il governo. Fu una mediazione lunga, difficile, che durò ventisette mesi. Ai lavori di mediazione collaborò anche qualche governo, in particolare quello italiano e gli stessi Stati Uniti, e si interessarono le Nazioni Unite, fino all’accordo finale che venne firmato il 4 ottobre 1992. In realtà, il documento finale era stato approntato per la firma il 3 ottobre, ma quel giorno sorsero dei problemi e la firma fu ritardata. Evidentemente la pace doveva proprio essere firmata il 4 ottobre, giorno di San Francesco.

La firma sorprese e procurò un certo clamore e ampia curiosità a livello internazionale, su chi fossero questi mediatori di Roma. Si sapeva infatti che la Sant’Egidio era una piccola–media organizzazione umanitaria cristiana con sedi a Roma e in qualche altro posto del mondo, ma nessuno si aspettava che potesse gestire una trattativa di pace. Fu allora che qualcuno coniò e ci attribuì il nickname di “Piccola Onu di Trastevere”. In effetti, per noi fu un miracolo e l’inizio di una storia, perché da quell’accordo che ha garantito la pace in Mozambico per tanto tempo ci siamo trovati de facto accreditati come mediatori internazionali. Alla porta del piccolo monastero hanno iniziato a venire a bussare anche altri che si dichiaravano interessati alla negoziazione svolta per il Paese africano.

Sono trascorsi 31 anni da quel 1992, durante i quali si è compiuta a Sant’Egidio almeno una trentina di mediazioni. Principalmente riguardano conflitti in Africa, ma non solo. Attualmente ci sono almeno due o tre mediazioni in corso a Sant’Egidio: Sud Sudan, Centrafrica, Ciad, ma stiamo lavorando anche per Mozambico e altri Paesi.

Prima di soffermarmi su qualcuno di questi dossier, vorrei dire qualche parola sul tempo che stiamo vivendo noi oggi, come cristiani, come parte della Chiesa e come gente che ama la pace. Noi viviamo in un tempo isterico, un tempo che ha completamente sdoganato e normalizzato la guerra. Per quanto leggiamo e vediamo ogni giorno sui media, sul social network, ci troviamo in un’epoca di terribile e prepotente semplificazione, attraverso la quale è facile e quasi automatico schierarsi da una parte o dall’altra senza entrare mai nella complessità dei problemi, delle storie, dei contesti. Le semplificazioni ci rassicurano perché ci dicono dove dobbiamo andare, ma non ci aiutano a capire le situazioni, a risolvere le contrapposizioni e a favorire la costruzione della pace. 

Se guardiamo agli ultimi quindici anni, vediamo nascere sempre nuovi conflitti e nessuno che si sia veramente concluso. Pensiamo alla Siria, per fare un esempio, che ha patito dodici anni di guerra, sospesa senza un vero vincitore, con un popolo distrutto: quattrocentomila morti, sei milioni di persone che hanno dovuto prendere altre strade, spesso fuggendo in Europa, il dramma del terremoto che qualche mese fa ha aggiunto nuove distruzioni. Pensiamo alla Libia: una crisi che si è aperta e non si è mai conclusa; anche in questi giorni stanno avvenendo scontri tra Tripoli e Bengasi. Pensiamo allo Yemen: una tregua fragile che è stata rotta in vari momenti. Pensiamo ai numerosi conflitti in Africa, molti dei quali neanche li conosciamo.

In questo scenario frammentato, violento, caotico, segnato da conflitti di ogni genere (piccoli, grandi, regionali, etnici, religiosi), ci chiediamo dove sia la mobilitazione che si ebbe ai tempi dell’Iraq (ricordiamo i tre milioni di persone in piazza nel 2003, le bandiere della pace ovunque?), dove sia finita quella tensione per la pace. Se dimentichiamo qual è il valore della pace, mettiamo in dubbio il nostro stesso futuro. Dobbiamo tornare a San Giovanni Paolo II che sapeva che cos’era la guerra perché l’aveva vissuta e aveva forte in sé il senso di essere stato risparmiato per una missione. Diceva ad Auschwitz, di fronte al baratro più profondo del male: «Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la Seconda guerra mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest’esperienza: “Mai più la guerra!”».

Forse viviamo uno spaesamento generazionale: abbiamo perso una generazione di testimoni, non c’è più chi ci racconta l’orrore della guerra. O, in altre parole, abbiamo vissuto così tanto tempo in pace da perderne la sensibilità. Stiamo sprecando la pace, stiamo disprezzandone il dono.

Dobbiamo riprendere a parlare di pace come l’unica scelta ragionevole. E superare questa narrazione tecnologica della guerra, descritta come se fossimo dentro un videogame, con droni che vengono pilotati a migliaia di chilometri per colpire un obiettivo, aerei invisibili, coperture satellitari. C’è questa convinzione che se un approccio è tecnologico sicuramente sarà efficace, perché la tecnologia migliora le prestazioni sempre. Ma la guerra non è mai efficace, non risolve mai i problemi per cui è stata scatenata. È uno strumento, per così dire, obsoleto. È esemplificativo quello che è accaduto in Afghanistan, dove siamo rimasti per più di due decenni con lo scopo di portare la democrazia, combattere l’estremismo e fornire opportunità per un futuro sostenibile agli afgani. Dopo vent’anni di presenza con una coalizione internazionale enorme, dopo tanti miliardi spesi e dopo centinaia di migliaia di morti, ce ne siamo andati lasciando il Paese di nuovo in mano ai Talebani. Similmente, pensiamo alle ragioni che la Russia ha portato per giustificare la guerra di invasione e la sua aggressione in Ucraina: uscire dall’isolamento internazionale e dal progressivo accerchiamento Nato ai suoi confini. Cosa ha risolto la Russia? Nulla. Oggi è molto più accerchiata di prima. Nel frattempo, l’Ucraina è stata distrutta.

Noi, a Sant’Egidio, pensiamo che la pace sia sempre possibile, che debba essere resa sempre possibile. Ma questo comporta che si lavori non solo nella mediazione ma anche per tenere aperti gli spazi di pensiero e gli ambiti culturali che riguardano la pace, senza arrendersi alla semplificazione prepotente.

 

Restando sull’argomento di questa guerra nel cuore d’Europa, non possiamo eludere il dibattito molto polarizzato che c’è stato in Italia da quando la guerra è scoppiata un anno e mezzo fa. Un dibattito che ha visto contrapporsi per l’appunto due posizioni antitetiche: quella che sostiene la necessità di rispondere militarmente, come gli ucraini sembrerebbero aver deciso di fare, quindi inevitabilmente sovvenzionando con l’invio di armi e con un riarmo internazionale la scelta degli ucraini di continuare a combattere, e quella che ritiene necessario mantenere aperti tutti i canali diplomatici ricercando una soluzione non militare. Se vogliamo evitare la semplificazione e stare dentro la complessità dei fenomeni, non possiamo nascondere che quello che sicuramente è in gioco, in questa guerra epocale, non è solo l’indipendenza o la sovranità territoriale dell’Ucraina ma la gran parte dei valori che hanno costituito la società occidentale, l’ordinamento civile europeo: i valori di libertà, democrazia, libera iniziativa, giustizia. Si è detto che una pace subita — qualcuno l’ha definita una resa — non sarebbe una vera pace, perché sarebbe tradita l’integrità dei quattro pilastri che la sorreggono e che Papa Giovanni XXIII elencava nella Pacem in Terris: la verità, la libertà, l’amore e anche la giustizia. C’è un discrimine, un limite oltre il quale la pace cessa di essere giusta e quindi non è più vera pace?

Non c’è pace senza giustizia. Su questo dobbiamo essere tutti d’accordo, così come siamo d’accordo che serva un’equa separazione delle risorse. Ma senza la pace non rimane nulla, solo distruzione e armi che sparano. Se non si ferma la violenza, tutto è perduto. Ripeto: la giustizia deve essere perseguita tenacemente e non c’è alcun dubbio che gli ucraini abbiano il diritto di difendersi e che l’occidente debba sostenere l’autodifesa. Ma è stato fatto veramente tutto il possibile per una vera trattativa? Oppure siamo caduti in un circolo vizioso di accuse reciproche e demonizzazioni? A me pare che questo sia avvenuto quando ho visto l’indifferenza o la scarsa considerazione con cui sono state subito liquidate alcuni ipotesi di trattativa, inclusa la proposta di Papa Francesco, il quale — unica voce ragionevole — pur chiarendo sempre chi è l’aggressore e chi l’aggredito, chi ha ragione e chi ha torto, ha nominato un nuovo inviato personale, il cardinale Matteo Zuppi, e continua a pregare e a sperare per la pace. 

Quella preghiera per la pace di Assisi da cui siamo partiti è stata portata avanti per anni e si ripete ancora oggi, ogni anno in una città diversa, in presenza di leader religiosi che si riuniscono nello stesso luogo per accrescere una conoscenza reciproca e per camminare e pregare insieme in un pellegrinaggio di pace. Il prossimo settembre si terrà a Berlino. L’anno scorso si è svolta a Roma, e all’inaugurazione erano presenti il presidente Mattarella e il presidente francese Macron. In quell’occasione, il leader dell’Eliseo tenne un discorso nel quale, con riferimento all’Ucraina, disse: «La pace è impura». Non esiste la pace perfetta. La pace è quel momento in cui ognuno perde qualcosa per permettere a tutti di vivere insieme. 

Augurarsi una vittoria militare dell’Ucraina è comprensibile, perché si tratta di riconoscere l’ingiustizia subita da quel Paese. Ma contare solo sulla sconfitta della Russia o sulla caduta di Putin potrebbe rivelarsi un errore strategico fondamentale, oltre che un esito estremamente difficile (la Federazione Russa è una potenza militare, detiene il potere di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite). Forse ci vuole veramente una pace impura. Bisogna provare, al di là di ogni ragionevolezza militare o politica, a tenere aperto questo spazio. D’altra parte, la mediazione altro non è se non la ricerca di quello che unisce, mettendo da parte quello che divide, come affermava Giovanni XXIII, un altro Papa che alla pace credeva convintamente.

Spesso siamo indotti a pensare che la mediazione, la negoziazione e la ricerca della pace comportino una forte convergenza di intenti, una sintesi unitaria e compatta delle posizioni e degli interessi, ciascuno dei quali mantenga la propria rappresentanza. In questi termini si tratterebbe di risolvere esattamente un problema che ammette una soluzione. La pace impura, nell’accezione usata da Macron, indica che probabilmente il problema stesso è mal posto, e che non è scontato che ne esista un’unica soluzione esatta e soddisfacente per tutti gli attori coinvolti, ai quali è chiesto anche di ridimensionare le proprie pretese, di rinunciare a una parte, di accettare un compromesso. Questa valutazione porta a una domanda più specifica sul vostro metodo, sulla metodologia che adottate per gestire i vostri contatti. Come si svolgono operativamente i vostri incontri, quali regole seguite per organizzare i vostri tavoli con guerriglieri e rappresentanti delle nazioni? Come riuscite a favorire una conciliazione, a rendere accettabile per le parti in causa un accordo?

Proviamo sempre ad aggirare questa domanda, sulla metodologia di Sant’Egidio, che ci è stata rivolta molte volte. E il motivo è che non esiste una metodologia. Forse ci sono dei dettagli che contribuiscono al fatto che la gente venga veramente a Sant’Egidio a parlare: una sorta di potere di convocazione, oltre alla fascinazione di Roma. Io credo che non esistano gli accordi di pace perfetti: tanto più ben confezionati, specifici su tutti gli argomenti e minuziosi sulle cause della guerra, tanto più non funzionano. Spesso la comunità internazionale produce dei documenti perfetti dal punto di vista giuridico, militare, tecnico, ma che poi non funzionano. Perché la guerra non è solo un problema strategico–militare, politico ed economico. La guerra è un veleno, una contaminazione che avvelena le vite degli uomini e delle donne di interi Paesi, una malattia che va guarita. Per guarirla non basta un pezzo di carta. Bisogna convincere le persone che hanno scelto per la violenza a tornare indietro sui loro passi. Serve la disponibilità a proporre un cambiamento, un processo di conversione. Se c’è una differenza, uno specifico della metodologia di Sant’Egidio, credo consista nel fatto che — nelle relazioni con le persone, con i nostri interlocutori — crediamo che un rapporto fedele e paziente possa far guarire da questa malattia. 

Fedeltà e pazienza sono due caratteristiche fondamentali. Quando la comunità internazionale nomina un mediatore, questi ottiene un mandato politico a termine e entro un dato periodo deve produrre dei risultati. Se non accade, il mandato viene affidato a un altro mediatore che si porterà la sua equipe e la sua ricetta per affrontare il problema, e si riparte da capo. Pensiamo a quanti inviati ONU ha avuto la crisi siriana. In Libia dal 2011 ad oggi se ne sono susseguiti sei o sette. Sant’Egidio crede nella pazienza e nell’attesa che i tempi maturino per la pace. Questo non vuol dire non avere fretta, non avere urgenza per la pace, ma perseverare nella fedeltà. Noi per lavorare alla pace nella Casamance — una regione in Senegal dove da più di 30 anni c’è una guerriglia indipendentista — abbiamo aspettato ventidue anni, e tre presidenti, fino a quando un presidente ha deciso di aprire uno spazio alla mediazione, e questo ha permesso sette anni di cessate il fuoco. Fedeltà e pazienza sono quindi legate anche al tema del mandato, cioè da dove ci provenga l’incarico per avviare una negoziazione: l’unico mandato al quale rispondiamo è quello di chi viene a Sant’Egidio a chiedere una mediazione, a chiedere la pace.

Poi, l’ascolto. Il nostro approccio implica la disponibilità ad ascoltare e a mettersi nei panni dell’altro. E vi assicuro che a volte ascoltiamo cose che non vorremmo sentire. Ma solo in questo modo può nascere quella prossimità, quella empatia che permette di avviare un processo di cambiamento.

Ci sono ancora due ulteriori aspetti piccoli ma non secondari che ci contraddistinguono: la neutralità assoluta e la mancanza totale di interessi. Chi viene a Sant’Egidio lo fa perché è convinto della scelta e sa benissimo che a Sant’Egidio non subirà pressioni politiche, ma incontrerà uno spazio di discussione neutrale, confidenziale, senza condizionamenti basati su agende o progetti di qualsiasi tipo. Il protagonista a Sant’Egidio è colui che viene a discutere per una possibilità di pace. Secondariamente, noi non abbiamo interessi economici da difendere, né giacimenti di petrolio da sfruttare o miniere di diamanti da scavare. Analogamente per questo lavoro sulla pace non accettiamo finanziatori. 

Aiuta poi molto il dialogo interreligioso che ci sta particolarmente a cuore. Perché costruire per trent’anni ponti di dialogo tra comunità religiose ti accredita come un uomo di fede, anche di fronte a chi non ha la tua stessa fede.

C’è infine un credito umanitario. Sant’Egidio è impegnata nella cura dell’Aids in Africa, in dieci Paesi, e costruisce scuole della pace nel mondo. Questo credito è “spendibile” a favore della pace. E così comprendiamo come tutto sia legato e interconnesso. Ecco le tre “p”.

I tempi lunghi dei processi di pace rimandano al titolo che è stato scelto per questo incontro, Il giorno prima della pace,  che è anche il titolo di un saggio del 2016 di Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire, esperta di esteri e America Latina. Il libro tratta della guerra più lunga d’occidente, quella combattuta in Colombia per più di mezzo secolo, conclusasi in sordina e in modo imprevisto nel 2016 con un accordo di pace tra le FARC e il governo colombiano, al cui epilogo deve aver contribuito anche la pressione esercitata da papa Francesco che aveva visitato il Paese poco tempo prima. Chi ha vissuto gli effetti di una guerra così lunga sulla propria vita, ha sviluppato una sorta di assuefazione alla violenza e una sfiducia su cosa sia la pace, dovuta all’attesa delusa del suo compimento che viene spostato sempre un giorno più in là. Quando alla fine la pace improvvisamente viene firmata, ci si è talmente abituati alla sua mancanza che si continua a vivere nella paura e nell’angoscia che non si tratti di una pace definitiva, durevole ma solo una pace d’inchiostro, fragile ed effimera. Come riuscite a far maturare la consapevolezza che la pace per cui state lavorando sia solida e risolutiva? Come vivete voi stessi la frustrazione derivante dalla precarietà di un accordo che dovrebbe sigillare un percorso lungo e tortuoso di mediazione?

Ci ricordiamo bene il giorno prima di quella pace. Perché, qualche giorno prima della firma, i leader del Fronte Armato Rivoluzionario non volevano firmare temendo una trappola. Si era all’Avana e alcuni leader del Farc chiamarono Sant’Egidio per chiedere ulteriori garanzie da parte di Papa Francesco, cioè pretendendo che la Chiesa in qualche modo assicurasse la veridicità di quell’accordo. Il giorno prima della pace è il momento dei dubbi, è il momento della paura, perché lasciare le sicurezze, accettare la nuova vita, è qualcosa che sconvolge. Ma quando si arriva al momento, al giorno della firma e a quello successivo, comincia il tempo di un importante lavoro che si deve esplicare veramente in tante direzioni. 

Una di queste è il disarmo: si tratta di cercare e andare a parlare con decine, centinaia, migliaia di persone (giovani, spesso giovanissimi, a volte meno giovani) che hanno vissuto per mesi, per anni, con un kalashnikov in mano (l’arma più utilizzata dai ribelli insieme alle granate). A questi guerriglieri bisogna spiegare che quello strumento che hanno in mano non è l’unico modo per garantirsi da vivere. Che ci sono altri modi di sopravvivere, diversi dal tirare una granata su un villaggio o mettere una barricata su una strada e far pagare un pedaggio sotto la minaccia di un fucile. Qui si capisce l’importanza dei corsi di formazione per insegnare le tecniche di coltivazione o fornire le competenze meccaniche per riparare un camion quando si guasta. Questo passaggio non avviene tanto facilmente, anche perché la comunità internazionale non crede più tanto al disarmo e pensa più a gestire questi gruppi che non a smantellarli, perché il cambiamento richiede un lavoro paziente.

Un’altra direzione importante da battere è lavorare sugli effetti anche indiretti del cambiamento climatico, arginandone le conseguenze. Un esempio è quello che accade in Africa, dove è saltato quell’accordo millenario tra pastori e agricoltori: il pastore che possiede centinaia o migliaia di vacche, a causa della desertificazione porta le mandrie nelle terre dei contadini, che a loro volta si oppongono alla devastazione e reagiscono, coalizzandosi in conflitti che si allargano fino a diventare scontri tra intere comunità e a procurare stragi impensabili.

Papa Francecso bacia i piedi del presidente Salva Kiir (11/04/2019) al termine del ritiro spirituale in Vaticano per i leader del Sud Sudan.C’è un episodio importante avvenuto qualche anno fa, nel 2019, che ha avuto una rilevanza mediatica e anche sostanziale grandissima. Ricordiamo tutti papa Francesco che si inginocchia, baciando i piedi dei signori della guerra sud sudanesi che erano convenuti a Roma in occasione degli esercizi spirituali indetti proprio per loro. Fu un gesto clamoroso e un’intuizione profetica del nostro pontefice. Tra l’altro si svolse in un contesto ecumenico, perché si era in presenza del responsabile della chiesa anglicana, l’arcivescovo di Canterbury, e del mediatore della Chiesa di Scozia. Sei stato recentemente in Sud Sudan. Il Paese sta passando con difficoltà attraverso instabilità che allontanano la transizione democratica creando anche malumori a livello internazionale. Permane la conflittualità tra le fazioni maggioritarie, mentre le componenti minoritarie escluse dall’accordo non accettano la spartizione di potere tra i gruppi dominanti. Cosa ha prodotto quel gesto storico di papa Francesco? Quali effetti ha lasciato? Potrebbe portare dei frutti?

Un’efficacia c’è stata, se consideriamo lo stato di ostilità da cui si proveniva. Lo Spiritual Retreat (il ritiro spirituale, ndr) era stato convocato per due elementi: l’SPML (Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan, ndr) di Salva Kiir Mayardit, che è ancora il presidente, e l’SPLM–IO (in opposition) di Riek Machar che è il primo vicepresidente. Ma prima dello Spiritual Retreat questo governo di unità nazionale non esisteva, cioè esisteva solo sulla carta. C’era un accordo di pace, un tomo denominato R–ARCSS (Revitalised Agreement on the Resolution of the Conflict in the Republic of South Sudan, ndr), un acronimo in cui la “R” indica un accordo resuscitato a partire da uno precedente, che però non funzionava. Il primo vicepresidente del paese, capo dei Nuer, la seconda etnia del paese, viveva a Khartoum in esilio, guardato a vista dai soldati. Lo Spiritual Retreat ha sbloccato questa situazione, Riek Machar è tornato a Juba e insieme ad altri partiti si è avviata la formazione di un vero governo di unità nazionale. Perché vi rendiate conto del livello di contrapposizione: a Juba, fino a poco tempo fa, si poteva vedere il muro di cinta del palazzo del Presidente della Repubblica crivellato di colpi a causa degli scontri avvenuti dentro il palazzo presidenziale.

Il Paese, tuttavia, è ancora nel caos. Perché ci sono elementi che non erano stati presi in considerazione da quell’accordo e che non sono stati contemplati da quella struttura politica (vengono chiamati non signatories, i non firmatari) con cui noi parliamo, essendo riusciti ad avviare un dialogo tra loro e il governo. Si parla di scontri interetnici tra Dinka e Nuer, tra Nuer e Shilluk, tra Shilluk e Bari, cioè una complessa geografia etnica che in assenza di un vero parlamento e senza elezioni democratiche non riesce a trovare la strada per una convivenza pacifica. Serve una vera convinzione per la pace, non basta una struttura politica, per quanto ben congegnata. 

Ma lo Spiritual Retreat è stato un evento scioccante, non solo per i sudanesi del sud, ma anche per noi. Io stesso non riuscivo a credere ai miei occhi. Ha parlato a noi, al nostro livello, mettendoci in discussione e obbligandoci a chiederci: se il Papa si mette in ginocchio e bacia i piedi dei signori della guerra, per implorare, cosa dobbiamo fare noi? 

E poi il papa in Sud Sudan ci è andato. E quando papa Francesco girava per le strade di Juba, dove in genere non c’è grande allegria, è stata una festa di popolo enorme e commovente, che ha richiamato gente dalle province, gente che ha visto la capitale per la prima volta in quell’occasione. Ricordo il viaggio a piedi durato 9 giorni del vescovo Carlassare per raggiungere Juba e incontrare papa Francesco.

Questo non è poco. Gli effetti sono lì per restare, io credo. 

Lasciamo il Sud Sudan per spostarci a Nord, in Sudan. Qui da qualche settimana sono ripresi di nuovo i combattimenti e l’ombra della guerra civile si stende sul futuro di un Paese che ne ha conosciute almeno altre due in precedenza. La situazione appare molto complicata e si fa fatica a orientarsi. Sembra non avere retto la temporanea collaborazione di convenienza tra i due storici leader delle due fazioni rivali prevalenti, c’è uno scontro riguardante l’ammissibilità nell’esercito regolare di milizie che sono responsabili di massacri in Darfur e in Yemen, c’è anche un’interferenza internazionale provocata dall’interesse che il Sudan riscuote per la sua strategica collocazione geografica e per l’economia delle attività estrattive dell’oro. Tra queste componenti e possibile lenti interpretative, è interessante il  ruolo della società civile sudanese, che si rivelò determinante per la caduta del dittatore al–Bashir, ma ora pare un po’ silente e assente dallo scenario attuale. Ritenete che questa società civile possa avere una parte rilevante nella risoluzione della crisi? Ne facilitereste il coinvolgimento in un processo di pace?

È vero. Qualche tempo fa c’è stata anche una risoluzione dell’Onu che incoraggiava il presidente al–Burhan e Hemeti, che è il vicepresidente, a cedere progressivamente gli spazi di potere alle organizzazioni della società civile che in Sudan, a Khartoum ma anche altrove, è complessa, coraggiosa e molto interessante. C’è una grande partecipazione di sindacalisti, partiti politici di piccola e media taglia, associazioni culturali, giovani, donne e anche la Chiesa e le chiese. E come hai detto, potrebbe essere una strada. 

Questo era già avvenuto in realtà, perché i militari si erano impegnati a traghettare il Paese da un regime militare, quello di al–Bashir, fino a un potere civile, tanto che il primo ministro per un lungo periodo è stato espressione della società civile. Quindi la strada era già stata intrapresa. Cosa è successo? Innanzitutto, bisogna dire che la struttura economica dell’esercito in Sudan è potentissima, poiché fanno capo ai militari centinaia di imprese che detengono di fatto il potere economico del Paese, fanno affari con tutto il mondo e puntano a conservare la posizione privilegiata che ricoprono. 

La situazione è deflagrata perché Hemeti e al–Burhan non sono riusciti a mettersi d’accordo non tanto sul fatto se debbano essere smobilitate le RSF (Milizie di Supporto Rapido, ndr), ma in quanto tempo questo debba avvenire, se due o dieci anni, e su questo aspetto si stanno massacrando tra di loro e insieme il popolo. C’è in corso una mediazione saudita con l’appoggio americano e delle Nazioni Unite. Hanno già chiesto due tregue che non sono state rispettate. Non si sono fermati nemmeno davanti ai luoghi di culto.

 

 

 

© Dialoghi Carmelitani, ANNO 24, NUMERO 2, Giugno 2023