Dal bisogno di protezione alla relazione

 

(di Alessio Musio)

 

Il tema della sovranità sembra nell’esperienza umana un labirinto: nella ricerca del potere e del controllo, gli uomini finiscono, infatti, spesso per perdersi. A volte solo sul piano teorico, altre anche su quello esistenziale, talvolta da soli, in alcune occasioni trascinando con sé altre persone, se non interi popoli e nazioni. 

Non è un caso che il più importante teorico della sovranità dell’epoca moderna, Jean Bodin, accompagnasse le sue riflessioni politiche sul potere umano a indagini sulla stregoneria: come a dire che chi vuole governare il corso delle vicende, si rende immediatamente conto di non avere in mano davvero la chiave per poterlo fare. Confidare che questa possa essere concessa dagli astri, dagli oroscopi o dalle arti magiche non significa altro, però, che continuare a perdersi all’interno di un labirinto fatto dell’impossibilità di determinare a piacimento il corso degli eventi, di annullarlo quando qualcosa è andato storto, o di plasmare nella misura del proprio desiderio la volontà altrui. 

Del resto, proprio il desiderio appare come qualcosa che, per il solo fatto di porsi nella vita umana, sembra mettere in crisi l’idea stessa di sovranità. Chi desidera, infatti, non decide di farlo, ma se ne accorge, a volte con gioia, altre con sorpresa, altre persino con timore (di qui l’antica preghiera “O Dio concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e di desiderare ciò che prometti”); non è padrone di ciò che desidera, ma ne dipende in quanto ne è mancante. Non è un caso che già gli antichi filosofi cinici, 400 anni prima di Cristo, avessero individuato proprio nel desiderio il più grande pericolo per l’ideale di una piena sovranità, teorizzando che questa potesse essere raggiunta solo al prezzo di un’esistenza priva di desideri. Non ci voleva molto, però, per comprendere che un’esistenza di questo tipo, contrassegnata dall’assenza di qualsiasi desiderio — non soltanto di fama, ricchezza o buon cibo, ma anche di bellezza, di amicizia o di amore… — non fosse soltanto impossibile, ma in fin dei conti in se stessa indesiderabile. 

Per cercare di trovare una via d’uscita dal labirinto, possiamo allora osservare come nella sostanza la questione giuridico‒politica della sovranità non sia diversa dal problema che ciascuno di noi ha di fronte a sé in quanto uomo: quello cioè di potere controllare la propria vicenda biografica, la propria traiettoria esistenziale, le storie a cui si è inteso dare avvio, i rapporti, i legami, secondo la forma del proprio volere e del proprio desiderio. Quanto vale per la vita personale vale, insomma, anche nella vita dei popoli.

Da che cosa nasce, però, andando alla radice, questo bisogno di controllo? Dov’è che va a innestarsi? 

L’origine del tema

Possiamo dire che l’origine riguardi il fatto che gli esseri umani — come scriveva Arendt — sanno benissimo di essere solo gli attori della loro vicenda esistenziale, ma di non esserne anche gli autori. E questo già per il fatto che non scegliamo di nascere, non ne scegliamo il luogo e il tempo, non scegliamo la nostra famiglia, la nostra condizione sociale ed economica di partenza, e neppure scegliamo quel nome a partire dal quale, comunque, tutta la vita ci pensiamo, ci progettiamo e grazie al quale siamo riconosciuti e chiamati (pensare il proprio nome in chiave battesimale è, ovviamente, dare a queste banali constatazioni tutt’altro significato). Certo, all’uomo è dato il potere di iniziare  — «perché ci fosse l’inizio fu creato l’uomo», amava dire Hannah Arendt ricordando una bella espressione di Sant’Agostino — ma questo si dilegua non appena si affida ciò che si è iniziato al normale intreccio delle vicende umane.

Così, chi inizia qualsiasi tipo di storia, sia essa lavorativa, politica, comunitaria o personale–amorosa, si accorge ben presto di dover fare i conti con il fatto che le conseguenze del proprio agire sono spesso imprevedibili. Il poeta tedesco Rainer Maria Rilke probabilmente ragionava di tutto questo e scriveva che «il futuro entra in noi ancor prima di accadere», lasciando intendere come le nostre scelte portino con sé una vita intera di conseguenze che spesso all’inizio ignoriamo, ma con le quali inevitabilmente dovremo fare i conti: il futuro che ci è ignoto, in fondo, è già contenuto nell’intreccio, che resta pur sempre libero, delle nostre scelte.

Ma a pesare sull’azione non c’è solo il «fardello» dell’imprevedibilità. Chi si rende conto di aver sbagliato — o più banalmente: chi soltanto si accorge di aver cambiato idea — finisce infatti ben presto per dover constatare di non poter tornare indietro, dato che la nostra biografia non viene mai riavvolta, ma continua a fluire progressivamente in avanti, anche quando cerchiamo di ristabilire una condizione originaria desiderata o rimpianta. È dunque anche l’altra grande caratteristica dell’azione umana, quella della sua irreversibilità (il non poter tornare indietro), a fare in modo che alla libertà di iniziare non corrisponda il potere di controllare ciò che si è iniziato. E già per il semplice fatto che non si agisce mai da soli, ma sempre con altri. Chi decide di stare con noi, poi, non lo fa per la nostra volontà, ma per la sua, e dunque per i suoi progetti, le sue speranze, le sue paure, le sue scommesse, che non sempre coincidono per contenuto e temporalità con ciò che invece ci muove. Gli altri, insomma, non sono al mondo per rappresentare la parte che noi finiamo bene o male per assegnare loro, né per corrispondere alla forma e alla misura dei nostri sempre possibili vuoti.

Si tratta di aspetti della vita umana di cui solitamente non si parla, come se solo nominarli mettesse un poco paura. 

Se la sovranità nasce dalla paura

E proprio la paura è una delle fonti di quella particolare forma di sovranità che è la sovranità di qualcuno nei confronti non di sé ma degli altri, tant’è che una lunghissima tradizione sostiene che il potere e la sovranità appartengono di fatto e di diritto proprio a coloro che si mostrano in grado di proteggere chi da solo non sa come difendersi. Quando la sovranità nasce dalla paura, però, valgono le parole di uno dei suoi più inquietanti teorici del Novecento, Carl Schmitt, il quale non sosteneva soltanto che «chi non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne obbedienza», ma in modo terribile aggiungeva anche che «chi cerca protezione e la ottiene non ha il diritto di negare la propria obbedienza». Basare la sovranità sulla paura, insomma, è possibile, ma significa addentrarsi in un’obbedienza che finisce per esigere un prezzo sempre più alto, come i totalitarismi hanno tragicamente dimostrato. 

Non c’è via d’uscita, dunque, dal labirinto della sovranità?

Se mettiamo da parte la paura, e smettiamo di concepirci come individui isolati, scopriamo che in realtà abbiamo un potere per controllare l’imprevedibilità e l’irreversibilità che l’intreccio delle azioni umane continuamente suscitano: come spiegava Hannah Arendt infatti, nella promessa scopriamo di poter disporre in qualche modo del futuro come se fosse presente, arginando così l’inquietudine dell’imprevedibilità, e nell’esperienza del perdono scopriamo di poter essere liberati dal peso delle conseguenze del nostro agire passato che altrimenti imprigionerebbe la nostra biografia in un tracciato già scritto secondo tramature sempre più cupe. 

La sovranità della relazione

Certo, l’esperienza del perdono deriva primariamente da quella dell’essere‒perdonati e quella della promessa è legata al mantenimento che anche l’altro deve attuare dell’impegno che insieme si è preso. Tutto questo non nega la sovranità, ma significa al contrario che per noi esseri umani la sovranità è possibile solo dentro una relazione in cui reciprocamente si dipenda in modo buono l’uno dall’altro. Nell’esperienza personale come in quella politica non è l’isolamento, insomma, la chiave della sovranità, quanto la capacità di riconoscere la potenza sostanziale delle relazioni. Se nelle masse non c’è sovranità, questa si sprigiona, invece, quando gli uomini «agiscono di concerto», riconoscendo e giudicando insieme della bontà di un progetto

Così, in Chi ha detto «senza di me non potete far nulla» possiamo riconoscere non una logica di sottomissione e comando, ma la consapevolezza del fatto che solo in una sovranità relazionale si può generare e fiorire: quel «senza di me» è, infatti, indissolubilmente legato all’immagine del tralcio e della vite («io sono la vite, voi siete i tralci»). Ed è solo in questo caso che il senso della sovranità relazionale della promessa e del perdono assume quella profondità vitale che su base semplicemente umana non potrebbe invece avere.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 20, NUMERO 1, Aprile 2019