(Adriano Pessina)
Che cosa è realmente presente nella nostra esperienza, ormai segnata irrimediabilmente dall’uso delle nuove tecnologie informatiche? Non è una domanda banale, perché la trasformazione della temporalità ricade sulla nostra vita concreta.

In questi giorni assistiamo, sgomenti e impotenti, alle fasi di una guerra che entra nel nostro vissuto attraverso gli schermi dei nostri strumenti digitali. Il “mondo” entra nel nostro campo visivo e uditivo e sembra che tutto ci sia presente. Quello che accade oggi in un luogo lontano ci costringe a pensare al tempo presente attraverso una serie di categorie che vanno ben al di là di quelle che solitamente usiamo quando pensiamo al nostro presente attuale, che si svolge in un luogo preciso e circoscritto. Questo riferimento al “presente” storico ci permette di comprendere e, forse, di approfondire, i cambiamenti che sono subentrati nella nostra vita nel momento in cui abbiamo iniziato a fruire degli artefatti tecnologici.
Una tecnologia in cui presenza e assenza si fondono
Tutto ciò che la tecnologia ci permette di vedere sui nostri schermi è “assente”, si trova altrove, ed è già passato. Si tratta di un’assenza differente da quella che sperimentiamo nell’attesa di qualcuno che conosciamo, o che vogliamo incontrare, laddove tutto è, per così dire, custodito nella nostra coscienza proiettata sul futuro.
Sullo schermo dei nostri artefatti tecnologici, invece, presenza e assenza si fondono, unendo due piani differenti: le immagini, i filmati che vediamo sono presenti nel nostro campo sensoriale, lo condizionano, lo sollecitano, ma ciò di cui sono immagine non esiste già più nella forma in cui si è presentato al nostro sguardo. Per questo motivo noi siamo, per così dire, immuni rispetto a quanto ci diventa presente attraverso la tecnologia: la guerra, la distruzione, la morte, la sofferenza che vediamo restano pur sempre altrove, non siamo “in guerra”, siamo in un altro luogo. Ma, nello stesso tempo, proprio quel mondo altrove stimola le nostre reazioni, genera angoscia, odio, paura.
C’è una grande differenza tra il venire a conoscenza, attraverso le pagine di un giornale che sfogliamo, o il racconto di qualcuno, di episodi che sono lontani: la tecnologia ci immerge sensorialmente nella realtà che proietta sui nostri schermi e acquista la forza di un’evidenza che ci fa dimenticare che, in ogni caso, quel mondo che ci appare è sempre filtrato dallo sguardo e dalla prospettiva di chi lo trasmette e lo modifica per essere funzionale alla comunicazione. Nello stesso tempo, qualunque cosa appaia sugli schermi può essere sostituita con un semplice gesto e il nostro presente può essere avvolto in altre, rilassanti rappresentazioni della realtà. E, ancora, possiamo andare a rivedere ciò che avevamo prima guardato, possiamo fermare le immagini e anche manipolarle, perché ciò che resta della rappresentazione della realtà è soltanto un oggetto digitale che appartiene al mondo digitale. E ognuno di noi ha potuto verificare, nel proprio comportamento e in quello altrui, la facilità con cui si può “uscire” dal luogo in cui si è per immergersi in ciò che compare sullo schermo del proprio cellulare: il confine tra off–line e on–line viene sempre più spesso varcato.
Un cambiamento del senso della temporalità
Questi spostamenti della nostra attenzione paiono modificare in modo radicale il senso della temporalità e l’esperienza del presente. Non sembra più possibile affidarsi all’antica saggezza del Qoelet per cui esiste un tempo proprio per ogni azione: un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Né sembra valere più l’affermazione del Filosofo per cui c’è un luogo proprio per ogni cosa, un luogo a cui naturalmente tendere.
Sarebbe facile descrivere le situazioni in cui le persone al ristorante, nel luogo proprio per cenare e parlare con gli amici, si collegano alla rete per fare altro, per postare le foto di quello che mangeranno, trasformando il tempo della compagnia in un tempo dell’esibizione solitaria delle proprie foto, alla ricerca di consensi altrui, che provengono da altri luoghi.
Fa pensare il fatto che anche le immagini della guerra e del dolore possano essere assorbite in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della giornata. Si potrebbe, certamente, sottolineare come la potenza della tecnologia possa diventare, in questa situazione, un energico strumento per aiutarci a pensare alla fragilità delle democrazie, alla facilità con cui un tempo di pace si trasforma in un tempo di guerra, facendoci percepire la domanda sul senso del tempo presente in cui viviamo. Ma questa domanda diventa feconda soltanto se riesce a farci entrare in quella dimensione della temporalità che ci appartiene come uomini che vivono concretamente in un luogo determinato, dentro situazioni concrete e circoscritte, segnate da legami, affetti e rapporti reali.
La logica del tempo opportuno
In questa prospettiva si potrebbe, di nuovo, tornare a pensare secondo l’antica sapienza che parlava del “tempo opportuno”, cioè di quelle occasioni che richiedono azioni precise, non altrimenti rimandabili. Ecco, ci si potrebbe domandare se, almeno in alcuni casi, la tecnologia non possa risvegliare in noi l’esigenza di tornare nel presente storico per compiere azioni e riflessioni su ciò che siamo e che facciamo nella nostra esistenza concreta.
Essere presenti a sé stessi significa tornare dentro quel luogo proprio della coscienza in cui si decide del nostro modo di esistere, oggi interpellato da una violenza e da una ingiustizia che si trova altrove, ma che forse è sottilmente presente anche in noi e a cui si può rispondere soltanto se il presente non è semplicemente una effimera rappresentazione digitale.
Le nuove tecnologie, di cui possiamo facilmente tessere le lodi per tutto quello che ci permettono di conoscere e di fare, portano però in sé il rischio di una radicale “perdita del tempo”.
La perdita del tempo non è semplicemente una perdita di tempo. Non si tratta di un gioco di parole. In fondo la perdita di tempo è pur sempre un’esperienza del tempo. Di solito questa espressione indica il fallimento di un’azione, la mancata realizzazione di un progetto. A volte diventa un giudizio che viene espresso nei confronti del “passatempo”, che è una delle più impegnative forme di distrazione che l’uomo ha inventato per non interrogarsi sul tempo che passa. In questa prospettiva si potrebbe leggere anche quella frenetica attività umana che Pascal definiva “divertissement”, che non è il divertimento, ma l’impegno che assorbe talmente l’uomo da impedirgli di riflettere sul senso ultimo del suo esistere. La perdita del tempo è, oggi, il venir meno della consapevolezza del senso del nostro presente, sostituito dall’esperienza della simultaneità di ciò che accade altrove e che entra nella sfera della nostra percezione attraverso la tecnologia. Perdere il senso del tempo, in fondo, significa disperdersi in un rivolo di azioni e interazioni in cui scompaiono le concrete esperienze della nostra esistenza. Un buon samaritano virtuale può alimentare le nostre buone intenzioni virtuali e anche questo tempo di guerra finisce con insegnarci pochissimo sul senso della nostra esistenza e sulla necessità di pensare qui ed ora a chi siamo e con chi stiamo condividendo un lembo della nostra storia se non torniamo a essere presenti a noi stessi.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 1, Aprile 2022


Adriano Pessina(Monza 1953) è professore ordinario di Filosofia morale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Bioetica e Filosofia dell’esperienza tecnologica e dirige il Centro di Ateneo di Bioetica. Dal 2005 membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita, nominato da Sua Santità Benedetto XVI, nel 2013 viene nominato da papa Francesco nel Consiglio direttivo. È membro della direzione della “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica” e della rivista “Medicina e Morale. Rivista Internazionale di Bioetica”.
Tra i numerosi scritti ricordiamo il volume: L’io insoddisfatto. Tra Prometeo e Dio (Vita e Pensiero, Milano 2016). Partendo dal tema dell’io e della soggettività, nell’incrocio tra domanda di felicità e offerte del mercato globale, il libro di Adriano Pessina affronta il tema dell’insoddisfazione come emerge nella società dell’efficienza e del benessere.