(di Fabio Silvestri ocd)
Perché ai nostri giorni sembra diventato quasi impossibile parlare della gioia dell’uomo, dando quasi per scontato che, in ogni caso, non potremmo permettercela? E questo orizzonte dipende dal mondo che abitiamo oppure dalle nostre scelte? In questo contributo proviamo a riflettere su quale sia la natura primaria della gioia e, insieme, sulla sua fragilità. Per poi chiederci se e come sia possibile una gioia diversa, come quella promessa dall’annuncio cristiano.

La gioia perduta: un programma sociale?
Quando alcuni anni fa Miguel Benasayag pubblicò il volume L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli, 2004) si verificò un autentico caso letterario. D’altra parte con questo testo (scritto in collaborazione con G. Schmit), il filosofo e psicoanalista argentino — residente da anni a Parigi — sollevava il velo dell’inconsapevolezza su uno scenario tanto evidente quanto rimosso. E cioè il fatto che le sofferenze psicologiche e psichiatriche in crescita nel mondo occidentale — in particolare quelle giovanili — spesso non mostrano una diretta origine personale, ma si pongono come riflesso di una tristezza sociale diffusa, pervasa da un senso permanente di insicurezza. Recuperando un’espressione di Spinoza, Benasayag definiva per questo l’epoca odierna come quella delle “passioni tristi”, a motivo di quel senso di smarrimento e di paura del futuro che sembra giunto alle fondamenta stesse della civiltà occidentale.
Lo scorso anno — e quindi a distanza di dodici dal suo primo studio — Benasayag è tornato sul tema con una seconda ricerca, dal titolo eloquente: Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa (Feltrinelli, 2016), quasi a riprendere il filo del discorso da dove lo aveva lasciato. Cioè per prendere atto che la nostra società — proponendo come suoi “valori” dominanti quelli dell’individualismo, della competizione e del consumo — finisce per costruire e radicare, in modo inevitabile e quasi sistematico, la nostra solitudine. Finendo per far crescere, in ciascuno di noi, una percezione di sé sempre più inadeguata a fronte delle prestazioni richieste. D’altra parte, oggi, l’uomo è trattato quasi esclusivamente come un individuo che può permettersi solo affetti di durata limitata e che, soprattutto, non ha legami veri con le vicende del mondo, con la grande narrazione della storia, né con l’universo dei valori spirituali. Se è triste, se soffre, al massimo si potrà provare a “riformattarlo” (in particolare con l’aiuto delle tecno–scienze, come pure programmando in questo senso il suo lavoro), cancellando e riordinando i dati del suo profilo personale, affettivo–sessuale e professionale, come sul modello informatico; ma procedendo così ad un’improbabile riparazione del sintomo, che non può o non vuole considerare la causa reale, cioè quella di una “triste” riduzione antropologica. Che ha come responsabilità principale il fatto di non considerare il valore imprescindibile delle relazioni, come pure quello della verità spirituale dell’uomo, la più profonda.
Un’emozione primaria
Ma a fronte di una vera e propria tristezza socio–culturale (di portata epocale, per altro, come quella descritta), si possono immaginare vie di uscita credibili, cioè soluzioni capaci di riproporre il senso e la gioia del vivere? Cosa rappresenta la gioia nell’immaginario collettivo attuale? E, in modo più radicale, abbiamo il coraggio di chiederci ancora in cosa consista la vera gioia dell’uomo? È chiaro che, per provare a rispondere a queste domande, sarà opportuno procedere per gradi. E cioè cercando di precisare, in primo luogo, quale debba essere una corretta comprensione antropologica della gioia, in particolare al livello psicologico–emotivo; ma poi provando anche a capire, con un secondo passaggio, come si possa parlare di una diversa qualità della gioia, umana e spirituale, là dove questa sia descritta nel senso più propriamente cristiano.
Nel linguaggio antropologico più originario, che è quello del nostro sentire, la gioia va considerata come un’emozione. Anzi, da un punto di vista tecnico, la gioia rientra tra le sei emozioni primarie (secondo la classificazione dello psicologo americano P. Ekman). Per altro, con una particolarità: tra di esse, infatti, la gioia figura come l’unica emozione positiva. Ora, se il significato generale delle emozioni è quello di muovere verso un’esperienza (dal latino e–movere, cioè tendere a far agire, integrando così l’attività dell’intelletto e della volontà), la gioia si presenta come un’emozione di soddisfazione, di pienezza, di senso, che ci “muove” in corrispondenza di una percezione o di un fatto. Più precisamente, una prima emozione gioiosa sarà quella che può derivare dalla soddisfazione di un nostro bisogno primario (ad esempio relativo al mangiare e al bere, alla cura di sé, al riposo, etc.); o dalla dimostrazione di una nostra capacità personale o di gruppo (ad es. sul lavoro, in politica, in uno sport, etc.); o ancora dal raggiungimento di un nostro obiettivo (in quei campi in cui ci era stata richiesta una prestazione). Certamente, l’intensità di questa emozione potrà mostrarsi, in casi simili, con sfumature molto diverse, capaci di farci semplicemente contenti, oppure effettivamente gioiosi, oppure anche più pienamente e stabilmente felici. In più, sarà il corpo stesso a dirci l’intensità dell’emozione o del sentimento provato. Dalle ricerche più recenti, infatti, emerge come la percezione della gioia si traduca in risposte fisiologiche riconoscibili: l’organismo si attiva intensificando leggermente la frequenza cardiaca, aumentando la temperatura corporea, provocando un’irregolarità nella respirazione e ravvivando il tono muscolare. Allo stesso modo, la percezione della gioia può agire positivamente sul piano cognitivo, riuscendo ad ottimizzare l’apprendimento e la memoria; come pure, sul piano comportamentale, la gioia aiuterà ad apprezzare meglio il mondo intorno a sé, suggerendo idee creative, sostenendo attività generose e, più in generale, consentendo una maggiore disponibilità nei confronti degli altri. La gioia interiore, infatti, almeno di regola rifiuta la chiusura: chiede anzi di essere condivisa e predispone a costruzioni sociali.
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Sofferenza e tempo, ferite della gioia?
Ma questa descrizione originaria della gioia, intesa nell’accezione fondamentale dell’emozione o del sentimento che da essa si sviluppa, non può non mostrare allo stesso tempo una sua costitutiva fragilità, che normalmente ci raggiunge in forma di domanda: ma da cosa dipende, allora, la mia gioia? Dipende da me, dipende da altri o dipende dal contesto in cui vivo? E, soprattutto, come fare a conservarla, una volta provata, se la gioia sembra data solo per un istante, e non per durare? Questi interrogativi, che ci collocano davanti alla preziosità ma anche all’instabilità di questa percezione, cominciano a condurre verso il nucleo più profondo del nostro tema. Che a questo punto ci interroga su qualcosa di molto semplice e, insieme, di quasi inarrivabile: se è vero che “c’è gioia e gioia”, in che cosa consiste davvero la gioia dell’uomo? Con questo interrogativo, in particolare negli ultimi due secoli, hanno provato a confrontarsi in molti, ma secondo una prospettiva puramente umana, cioè pensando di poter raggiungere e garantire la gioia dell’uomo prescindendo completamente dal riferimento a Dio. A questo miravano, in fin dei conti, le ideologie più recenti (nazionalsocialista e marxista), che pretendevano di imporre uno schema di felicità sociale, producendo poi solo la tristezza della violenza e della morte; a questo scopo si sono dedicate anche le scienze umane moderne, sostenendo che l’Io potesse imparare a dominare da solo le forze oscure dell’inconscio e delle relazioni; a questo pensava inoltre di poter provvedere anche la tecnica, salvo doversi rendere conto — sino ad oggi — che il cuore dell’uomo non risponde a interazioni automatiche, fossero anche le migliori possibili. Il panorama contemporaneo, infine, pur a fronte di una crescente globalizzazione delle istituzioni, delle leggi e dei valori, nel nome della libertà individuale ha finito per esasperare la disgregazione dei legami (comunitari, familiari e personali), come pure la divisione interiore di un uomo che fatica sempre più a ritrovare la sua identità e il senso del suo agire.
Di conseguenza, per cominciare ad abbozzare una risposta diversa — che cioè non ignori la verità spirituale dell’umano — abbiamo bisogno di prendere le mosse da due dimensioni che nell’esperienza comune sembrano necessariamente legate alla percezione della gioia, e che ci offrono indizi importanti: l’assenza di emozioni o sentimenti negativi, da un lato, e il riferimento al tempo, cioè alla durata, dall’altro. Almeno seguendo un’impressione istintiva, infatti, noi crediamo innanzitutto che la gioia sia possibile solo là dove non ci siano tristezza, dolore e paura. E tuttavia sappiamo anche come la vita sia costellata di confronti con il limite, con le contraddizioni e con la fatica: tanto che l’idea di una gioia pura, cioè non sfiorata da queste dimensioni negative, si rivela presto un’utopia; e anzi, dove venga coltivata come ideale (nella vita lavorativa, nella vita familiare, etc.), rischia di assomigliare piuttosto al tentativo di una fuga, attuata per non assumersi le responsabilità del presente. In realtà, là dove si rifiuti questa lettura semplificata della realtà (che suggerirebbe la ricerca di una gioia “incontaminata”), diventa decisivo chiedersi se la gioia, per essere vera, debba davvero prescindere dalla sofferenza; oppure se sia possibile anche una gioia nella sofferenza, cioè sperimentata pur conservando con quest’ultima un misterioso legame. In secondo luogo, il problema principale della gioia, lo sappiamo, è che non dura. O almeno questo ci sembra, perché la gioia non la si può programmare, ma soltanto giunge, né poi si lascia ridurre ad un oggetto controllabile; ed è questo che ci induce a provare ad afferrarla, a trattenerne il lembo, a mettere le mani su ciò che pure si presenta come dono, a volte per altro inatteso. Ma un dono non può essere ridotto ad un possesso, neanche temporale, pena la sua perdita.
Ecco dunque che muovendo dall’una e dall’altra osservazione, siamo giunti al punto cruciale del nostro ragionamento. Se la vera gioia dell’uomo esiste, allora dovrebbe essere qualcosa di sperimentabile anche nel limite della sofferenza, come pure nel limite del tempo: e senza smettere mai di rispettare la sua natura più profonda, cioè di essere un dono.
L’annuncio della “notizia gioiosa”
Quella che davvero serve all’uomo, allora, a quello di oggi e a quello di sempre, è una risposta sulla gioia che tenga insieme, in qualche modo, tempo ed eterno, fragilità della carne e senso ultimo delle cose. Ora il cristianesimo, a partire dalle sue fonti insostituibili che sono i Vangeli, ci racconta e afferma che questa risposta esiste. Ma ci racconta anche che questa risposta non arriva nella forma di un manuale, né come codice di una legge: essa ci viene raccontata, invece, — in tutto l’arco del suo sviluppo — dalla vita di un uomo. Un solo, limitato e concretissimo uomo, ma che è stato riempito interamente dall’immensità di Dio. Dentro un solo, limitato e concretissimo tempo, quello della sua vita terrena, ma che è stato riempito interamente dal tempo di Dio. E che nel suo solo, limitato e concretissimo corpo — e ancora di più nel suo cuore — si è confrontato fino in fondo con il dolore dell’uomo. In una sola parola, la fonte più propria della gioia, il punto di incrocio tra la domanda dell’uomo e la risposta del cielo, è il mistero profondo e unico dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Quell’inafferrabile mistero che, secondo i primi testi cristiani, non ha avuto altro scopo che l’annuncio di una gioia sconfinata. Perché mentre scrivevano per la Chiesa futura, quei testimoni sorpresi, ancora contemplavano ciò che i loro orecchi avevano udito, ciò che i loro occhi avevano visto, ciò che le loro mani avevano toccato: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1,1–4).
Tuttavia il riferimento alla gioia, nel Nuovo Testamento, non è certo solo quello dei testimoni. I Vangeli, infatti, ci dicono qualcosa che normalmente consideriamo senza il giusto rilievo: e cioè che tutta la vita di Gesù, prima ancora di essere altro, è stata un’intensa e splendida vicenda di gioia. Il Vangelo è infatti la “lieta novella”: cioè è la “notizia di una gioia” che, sin dall’inizio, viene annunciata dall’angelo ai pastori (cfr. Lc 2,10); così come è «una grandissima gioia» (Mt 2,10) quella che i Magi provarono nel vedere la stella. Dall’angelo Gabriele, d’altra parte, Maria era stata invitata a rallegrarsi di quell’annuncio, cioè a “restare nella gioia” (cfr. Lc 1,28). Ed era questa stessa profonda emozione che aveva percepito anche Giovanni Battista quando, al saluto di Maria, aveva «danzato di gioia» nel grembo di sua madre Elisabetta (cfr Lc 1,41.44).
La Sua Gioia
Ma, al di là della discrezione dei Vangeli, non sembra azzardato provare ad immaginare almeno qualcosa anche di quella gioia che Gesù stesso ha vissuto durante la Sua crescita: di fronte alla bontà, alla bellezza e alla purezza di Sua madre o alla forza tranquilla ed operosa di Giuseppe; come anche al dischiudersi del mondo sotto il Suo sguardo stupito di bambino, chiamato a conoscere i nomi nuovi delle cose… E come potrebbe essersi svolto, tutto questo, senza che il cuore del Figlio di Dio non sentisse la gioia della vita, riconoscendo in essa e ad ogni passo le tracce e i segni dell’amore del Padre Suo? Per questo, il Suo sentimento di gratitudine si farà poi vivo con forza quando si troverà di fronte a ciò che riconoscerà come più innocente e vero, cioè più vicino al modo con cui è uscito dalle mani del Padre: come quando Gesù — con un moto di gioia interiore — ringrazia il Padre perché le cose più grandi sono state svelate ai piccoli (cfr. Lc 10,21‒22). Ma è questa stessa gioia che Gesù sembra esprimere tutte quelle volte in cui ringrazia il Padre per i miracoli che compie nel Suo Nome: zoppi che camminano, ciechi che vedono, sordomuti che odono e parlano, lebbrosi che guariscono, posseduti liberati, prostitute ravvedute, ladri che donano… come potrebbe, tutta questa vita ridonata, non essere stata motivo della Sua gioia più profonda? L’intera esistenza di Gesù — che pure ha subìto l’incomprensione, la falsità ed anche il rifiuto — è stata in realtà in tutto un’avventura di gioia.
Ed è proprio qui dentro che si nasconde il Suo segreto più grande. Perché si può dire che sarà questa stessa gioia — o, meglio, l’offerta fatta a noi di questa gioia — a condurre Gesù alla sofferenza e alla morte. Nel giorno della Sua ultima cena, infatti, cioè nel momento più santo e delicato della Sua vita, Gesù rivelerà le intenzioni più profonde della Sua missione. E ciò che dirà sarà qualcosa di inaudito. Perché dirà che tutta la Sua vita, così come tutta la sofferenza e la morte che accetterà di vivere, non avranno altro scopo che di donare a noi la Sua gioia, affinché la nostra sia piena: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Una gioia che, se chiesta nel Suo nome, non perderemo più («nessuno vi potrà togliere la vostra gioia»; Gv 16,23), perché capace di trasformare dal di dentro persino il senso del dolore, persino il senso della morte («la vostra afflizione si cambierà in gioia»; Gv 16,24). Ecco perché quel Giorno, abbandonato il sepolcro, le donne tornarono in fretta dai discepoli, «con timore e gioia grande» (Mt 28,8); ed ecco perché gli stessi discepoli, contemplando le Sue mani e il Suo costato, «gioirono a vedere il Signore» (Gv 20,20).
Ma in cosa consiste, allora, questa gioia così preziosa, per la quale Gesù fu (ed è) disposto a morire? No, non è solo un’emozione, né solo un sentimento fugace. È invece la Sua relazione con il Padre, fonte dell’amore, nella quale siamo invitati a rimanere anche noi, come veri figli (Gv 15,10). Questa è la Verità dell’Amore, questa è la Verità della Gioia. Abitare questo amore, per poterlo ri–donare, per la gioia di molti. Ecco dunque l’unica risposta possibile alle passioni tristi dell’uomo contemporaneo, ed ecco l’unico superamento possibile della sua solitudine: una Passione d’amore, profonda ed allegra, ma che conosce ed attraversa ogni ferita dell’uomo, con la forza paziente del dono. Con il senso sacro di ogni relazione.
Questa pace infatti, che è stabile e diversa, non è necessario rapirla, ma solo accoglierla. Né teme il tempo: perché si è fatta nostra carne — per sempre — la Gioia di Dio.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 18, NUMERO 4, Dicembre 2017