La capacità morale di stare da soli
(di Alessio Musio)
Anche quando siamo fisicamente isolati dagli altri, non siamo mai davvero soli, perché abbiamo un io e siamo sempre in rapporto con lui. Ogni volta che pensiamo infatti parliamo con noi stessi: un dialogo che può accadere in qualunque momento, come quando, essendo coinvolti in qualche vicenda, ci raccontiamo una specie di storia e ci prepariamo a comunicarla agli altri. La nostra esistenza è, così, scandita da un dialogo silenzioso che noi intratteniamo con il nostro stesso io: un io che, non solo si fa sentire parlandoci, ma che, soprattutto, vede ogni cosa che facciamo, diciamo, pensiamo, sentiamo, desideriamo, temiamo, fuggiamo…

Il dialogo ininterrotto con noi stessi
Per questo, se a uno sguardo esterno molte cose possono sfuggire, al nostro io, invece, non sfugge in fondo mai nulla, tanto che sempre lo possiamo sentire mentre ci dice frasi come: “non mentire! Lo sai che, se agli altri puoi raccontarla così, con me non lo puoi fare”. E ancora: “Dai! Lo so che sei ancora arrabbiato. Non è vero che hai perdonato”. Oppure, a scuola o all’università: “So che dici aver capito, ma è evidente che non hai capito un bel niente”. E nei legami impegnativi: “Mi è chiaro che vuoi sembrare indifferente, ma è ovvio che non lo sei, altrimenti non cercheresti con tanta cura di recitare la parte dell’impassibile”. E così via, a volte in modo scherzoso, altre in modo drammatico.
È per questo che Hannah Arendt insisteva sul fatto che ciascuno di noi è sempre un «due-in-uno», non per istituzionalizzare in termini antropologici chissà quale forma di schizofrenia psichica, ma per insistere sul fatto banale, ma decisivo, che mentre quando non siamo d’accordo con qualcuno possiamo a un certo punto «alzare i tacchi» e svignarcela», non possiamo mai svignarcela da noi stessi. Sicché il problema fondamentale diventa quello di essere d’accordo con sé, non mentendosi.
«Io sono il partner di me stesso quando penso e sono il testimone delle azioni che compio. Io conosco questo agente. E sono condannato a vivere con lui», ed è per questo che diventa decisivo il fatto che possa «esserci armonia e disarmonia con l’io». Perché, se siamo in conflitto con noi stessi, è come se dovessimo vivere e passare le nostre giornate con il nostro «peggior nemico». «Nessuno può volerlo. Se facciamo il male, dobbiamo vivere con un malfattore, e se alcuni magari preferiscono fare il male piuttosto che subirlo, nessuno però gradisce vivere con un ladro, un assassino o un bugiardo».
Così, mentre avere a che fare con un mentitore che sia altro dall’io è una disgrazia che può sempre capitare, quando il mentitore coincide in modo strutturale con l’io stesso, si realizza una situazione destinata a distruggere la consistenza personale sul piano morale.
Infatti, se pensare è più del semplice aver coscienza, perché significa parlare con se stessi, vale a dire con questo secondo io sempre presente alle mosse, alle intenzioni, ai desideri del primo, l’unica condizione per riuscire a metterlo a tacere consiste nello smettere di pensare.
L’assenza di pensiero
Si tratta di un’affermazione di grande significato ma che può sembrare paradossale, dal momento che, si potrebbe dire, mai l’uomo, nella misura in cui agisce, liberamente anziché spontaneamente, smette di pensare. La tesi è, però, più profonda: ciò che si intende è smettere di pensare al significato reale di ciò che si sta facendo, il che significa smettere di pensare a che tipo di persone stiamo diventando con le nostre azioni. Compiendo, contro il parere del nostro secondo io, una determinata azione che sappiamo essere sbagliata, ci accingiamo, infatti, a diventare una persona (in senso morale) con cui in realtà non ci piacerebbe stare e che non vorremmo essere.
Così, diventa facile comprendere come l’assenza di pensiero – che non è altro, in fondo, che l’incapacità di stare da soli con se stessi, cioè di reggere la compagnia del proprio io – non abbia nulla a che fare con la stupidità. Tanto che, al contrario, come osservava sempre la pensatrice della banalità del male, la si può anzi incontrare in persone dall’intelligenza elevata. E un cuore malvagio non ne costituisce la causa, dato che, semmai, proprio la malvagità può essere causata dall’assenza di pensiero.
Così quando Arendt osservava che «il miglior modo di non farsi scoprire per un criminale è […] quello di dimenticarsi ciò che ha fatto e non pensarci più», lo scriveva pensando proprio a come, invece, il «pentimento sia un modo di non dimenticare ciò che si è fatto», ma «di tornarci su», dato che in fondo «non si può ricordare qualcosa a cui non si è pensato e di cui non si è parlato con se stessi».
Si insiste spesso sul fatto che sia giusto aver paura della solitudine. Perché l’uomo per vivere davvero e fiorire ha bisogno di una trama di relazioni e perché la sofferenza, a differenza del dolore inteso unicamente in senso fisico, deriva proprio dalla perdita di relazioni che hanno per noi il valore della sostanzialità. Nondimeno, esiste però anche un’altra paura della solitudine, questa volta non buona, che non è tanto quella di stare da soli, quanto quella di trovarsi di fronte alla compagnia più radicale che si possa pensare: quella con se stessi. Una paura non buona, questa, si diceva. Perché è solo dalla capacità di radicarsi in questa compagnia che deriva, in fondo, anche la possibilità di avere buone relazioni con gli altri, di scoprire quello che solo loro ci possono mostrare di noi stessi, facendoci, magari a volte, anche uscire dal ristretto perimetro che ci siamo costruiti con la catena delle nostre azioni. Come sapeva bene quella donna, di cui si parla nel Vangelo di Giovanni, che ha potuto commuoversi e cambiare dopo aver incontrato «un uomo» che le aveva detto «tutto quello che aveva fatto» (Gv, 4,1-42): un altro Io amico del suo stesso io.
Letture per approfondire:
- Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, trad. it., Einaudi, Torino 2003
A. Musio, Chiaroscuri. Figure dell’ethos, Vita e Pensiero, Milano 2017, pp. 138-156
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 1, Giugno 2020