
La narrazione, il lavoro e la fede di chi ha affrontato il covid-19 nell’interesse di tutti
(A cura della redazione)
Durante il periodo drammatico della prima diffusione del contagio – così come poi durante il tempo in cui l’emergenza si è stabilizzata – abbiamo vissuto tutti alterni sentimenti e percezioni di quanto stava accadendo (in particolare chi ha avuto il dolore di familiari coinvolti). E, in molti, li abbiamo maturati prevalentemente da casa, dove era stato giustamente chiesto di restare. Molti, ma non tutti. Ad alcune categorie professionali, in particolare agli operatori sanitari, è stato infatti chiesto di essere più presenti che mai sul proprio posto di lavoro, a volte sino a dover raddoppiare il tempo del proprio impegno quotidiano e correndo molti più di rischi di prima. Con l’occasione di questo approfondimento, allora, vogliamo ricordare i tanti medici, infermieri e volontari – membri e amici del nostro Movimento Ecclesiale Carmelitano – che si sono spesi con generosità e serietà nel servizio ospedaliero e assistenziale, ai diversi livelli in cui ciascuno è stato chiamato a farlo. Ma in modo particolare, vogliamo esprimere la nostra gratitudine a due di loro, Gabriele Tomasoni e Sandro Cinquetti che, se pur in contesti e con ruoli diversi, sono stati coinvolti in modo diretto nel lavoro “in prima linea” per fronteggiare l’emergenza e per farlo a nome di tutti. La redazione ha dunque chiesto ad entrambi un’intervista, che potesse avere nello stesso tempo il valore di un racconto, di un’analisi e di una testimonianza. E perché, anche in questo modo, la loro preziosa esperienza possa essere donata ad ognuno.
L’emergenza, la risposta, il cuore
Intervista al Dr. Gabriele Tomasoni
In Lombardia, sin dai primissimi giorni, l’entità del contagio e poi quella del numero dei decessi hanno raggiunto rapidamente una dimensione drammatica, pari da sola a quasi la metà dei dati nazionali e di molto superiore a quella di tutte le altre regioni. Come Responsabile della Rianimazione 1 degli Spedali Civili di Brescia (la cui provincia è la seconda più colpita in Italia), Gabriele Tomasoni si è trovato a gestire in prima persona l’irrompere, lo svolgimento iniziale e poi la durata dell’emergenza medico-sanitaria determinata dal covid-19. Questo tipo di coinvolgimento ha richiesto al suo reparto una quotidiana attività di analisi della situazione e di previsione (almeno tentata) della sua evoluzione. Anche per queste ragioni, l’interesse dei media nazionali e internazionali (dalla RAI sino al New York Times) si è concentrato su quanto stava accadendo presso la Rianimazione di Brescia. Con gratitudine per la sua disponibilità – ma anche con una sincera fierezza per il lavoro da lui svolto in tutto questo tempo – la redazione pubblica questa intervista a Gabriele, attuale Presidente del nostro Movimento.
L’emergenza sanitaria che si è verificata in Lombardia è stata la prima a manifestarsi ed è poi rimasta la più intensa. Come l’hai vissuta nel tuo ruolo di medico e come giudichi la risposta che siete riusciti ad offrire?
Sono trascorsi ormai più di due mesi da quando il primo paziente è stato ricoverato nel Centro di Rianimazione che dirigo. Da quel giorno, come un’onda travolgente, ci siamo sentiti investiti dal susseguirsi di richieste di assistenza, da bisogni che richiedevano decisioni immediate, dalla creazione di nuovi reparti di cura per patologie fino a quel momento del tutto inaspettate per la loro aggressività e la loro complessità. Ripensando ora a quanto è accaduto, tutti noi operatori sanitari ci meravigliamo della straordinarietà sperimentata, non solo quella dell’evento ma soprattutto quella della risposta che ha coinvolto ogni operatore in diversi ruoli.
C’è chi giustifica questo impegno quotidiano durato per 40 giorni continuativi motivandolo con l’adrenalina o con il senso del dovere. In realtà, credo che si possa certamente affermare che tutti, chi più e chi meno, hanno saputo offrire quasi con naturalezza un contributo straordinario per il bene dell’altro, cioè per chi in quel momento aveva più bisogno di assistenza.
Qualcun altro afferma che questo periodo si è vissuto come un sogno, che è volato via in un attimo… Ed effettivamente, come sovente accade dopo un evento di alta tensione, si può guardare a ciò che è appena passato con l’assenza di una vera percezione del tempo trascorso. Forse questa percezione ridotta è necessaria per reggere quello stress inevitabile e intenso. Tuttavia, anche qui, la realtà è stata un’altra: è stata fatta di episodi concreti, di storie drammatiche e di storie felici. La realtà è stata scandita da numeri che tutti noi abbiamo ossessivamente ascoltato, ogni giorno, per provare a capire come si stava muovendo il contagio. Perché dietro a quei numeri c’erano sofferenze individuali e familiari che noi operatori condividevamo in prima persona. Mentre, nello stesso tempo, non potevamo non astrarci da quel dolore per poter curare in modo razionale, cioè riferendoci a quelle poche evidenze scientifiche, di cui fino a quel momento eravamo a conoscenza, circa questa patologia virale.
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Coinvolto come Responsabile della Rianimazione 1 degli Spedali Civili, nel contesto sopradescritto, oggi non mi sento ancora di esprimere un giudizio complessivo né sulla organizzazione ospedaliera, né su quella territoriale.
Certamente – avendo vissuto dall’interno sia l’aspetto organizzativo che clinico – posso esprimere apprezzamento per come in 24 ore sia l’ospedale dove lavoro, sia le altre cliniche della città hanno riorganizzato le loro attività, finalizzandole ai nuovi casi che nel corso di pochi giorni crescevano in modo esponenziale. L’Ospedale Civile, in particolare, ha raggiunto picchi di 850 pazienti covid e così complessivamente anche le altre strutture ospedaliere. Cito poi i dati della Rianimazione perché è il mio settore: in una settimana si è passati da 26 posti letto ad 85 posti. Questo può dare l’idea dell’impegno organizzativo richiesto, ma soprattutto della capacità di risposta che c’è stata.
Un secondo aspetto positivo lo riferisco alla immediata collaborazione tra il personale ospedaliero. E questo sia all’interno del nostro ospedale che nella rete delle strutture regionali. Ogni ospedale ha trasformato interi reparti deputati alle differenti specialità in reparti dedicati all’assistenza respiratoria. E il personale abitualmente dedito alla chirurgia ha saputo rimettersi alle competenze di altri colleghi per collaborare nell’assistenza dei malati covid.
In più, a livello regionale, il Centro di Coordinamento delle Rianimazioni ha creato una rete lombarda per dare risposta regionale ad emergenze locali. Malati che non avevano possibilità di essere ricoverati a Brescia per sovrannumero, venivano trasportati in eliambulanza a Milano, Varese, Como.
Anche la solidarietà professionale ha funzionato.
Gli aspetti più critici sono stati sollevati in ambito territoriale. Su questo, non avendo dati operativi, posso offrire il mio giudizio come osservatore. Ci si domanda in particolare se l’isolamento dei malati sia stato tempestivo. A questo proposito va però ricordato che molto probabilmente il virus già circolava dal mese di gennaio e nessuno aveva intanto la percezione del potenziale contagio. Inoltre in Lombardia i focolai non sono stati circoscrivibili come in Veneto o in altre regioni. A Brescia, in particolare, il 15 febbraio migliaia di persone si sono assembrate per la fiera di S. Faustino, mentre a Bergamo la partita di calcio Atalanta-Valencia ha radunato decine di migliaia di spettatori. Questi possono essere stati i luoghi e le occasioni di maggiore diffusione. E ancora oggi è difficile capire quali potessero essere le strategie corrette e la corretta tempistica da adottare.
Credo che le principali criticità siano da attribuire alla mancanza di tamponi che, per quanto non altamente specifici, avrebbero potuto individuare i potenziali portatori. Altra criticità la individuo, come peraltro è risaputo, nella mancanza di DPI (mascherine): per questa ragione molti operatori non sono stati tutelati nella fase iniziale, quando ancora non era manifesta la gravità della patologia e la virulenza del coronavirus. Infine, voglio sottolineare la necessità, in situazioni di emergenza, di una coesione nazionale e di unità di strategie. Negli Ospedali è stata un elemento vincente. Forse, se anche a livello istituzionale/politico ci fosse stato un reale coordinamento, tanti disguidi non si sarebbero presentati.
Gli Spedali Civili di Brescia hanno retto l’impatto dell’emergenza e garantito la continuità dei trattamenti sanitari ordinari?
Nella prima e più difficile fase Brescia è stata, dopo Bergamo, la città più colpita per numero di contagiati (ed è ad oggi la Provincia più colpita dopo quella di Milano). I grafici oggi disponibili dicono come e quanto i numeri dei ricoveri siano cresciuti nei giorni caldi dell’epidemia. Solo la collaborazione tra tutto il sistema sanitario ospedaliero ha permesso di rispondere in modo adeguato ad una situazione che, per il grado di emergenza generato, può essere definito “di guerra”.
Strutture mobili (tenso-strutture) di pre–triage e altre strutture dignitose perfettamente attrezzate sono state allestite nelle lavanderie, con capienza fino a 120 posti. Come già detto si sono resi disponibili 85 posti effettivi di Terapia Intensiva. Oggi pensiamo di utilizzarli per migliorare i servizi di assistenza intensiva.
I gruppi di coordinamento si sono riuniti sin dalla domenica 23 febbraio per poi trovarsi sistematicamente al termine del lavoro di reparto e non infrequentemente fino a sera inoltrata.
Nella situazione di emergenza e di sovraffollamento è inevitabile che i livelli assistenziali trovino nuovi assetti che, in alcune situazioni, possono essere recepiti come mancanza di cure. Qualche esempio che potrei citare – come esperienza vissuta in Pronto Soccorso e in qualche altro reparto medico – deve però essere contestualizzata nei primi giorni dell’emergenza, quando cioè si verificava una sproporzione tra i pazienti che richiedevano un’assistenza ventilatoria e gli stessi ventilatori disponibili. Tale dato di fatto poneva inevitabilmente l’obbligo di valutare ciò che era più necessario nell’immediato e ciò che era rimandabile, ma comunque supportato con altri mezzi assistenziali. Tutti i pazienti sono stati comunque presi in carico, con mezzi di volta in volta adattati.
Con questo non voglio negare che in condizioni di normalità sanitaria tutti i pazienti avrebbero potuto ricevere un’assistenza migliore (l’analisi va cioè fatta in riferimento al contesto).
La situazione fronteggiata dagli ospedali ha comportato il rischio di dover applicare nuovi criteri etici per pensare le dinamiche di inclusione ed esclusione dai processi di cura e di assistenza?
Sicuramente la nuova situazione ha indotto alcune Società Scientifiche (compresa la Società dei Rianimatori) a suggerire nuove linee di comportamento, per alcuni aspetti discutibili sia da un punto di vista etico che normativo. Il rischio di un documento dettato dall’emergenza e dall’emotività è connesso alla possibilità che venga adottato come base dei criteri assistenziali in condizioni di normalità sanitaria. Linee guida, documenti di bioetica, leggi che regolamentano scelte assistenziali, fino all’ultima legge sul testamento biologico già sono riferimento per le scelte di cura da parte di noi medici.
Ci sono già prospettive di revisione e di miglioramento del sistema sanitario, da sviluppare anche sulla base dell’esperienza fatta con questa emergenza?
Ritengo che ogni esperienza debba sollecitare un cambiamento e un miglioramento della situazione antecedente. Soprattutto in sanità, un ambito complesso che ha come finalità il benessere della persona. Già prima dell’emergenza covid si era impostato un lavoro e una riorganizzazione del sistema sanitario che fosse attenta alla cronicità. Credo che dopo l’epidemia dovremo ancora di più organizzarci, per garantire un’assistenza territoriale attenta alle molte situazioni correlate al covid. Già è operativa l’assistenza supportata dalla telemedicina e già si sta attivando una rete di supporto a domicilio con figure specialistiche. In sintesi, dobbiamo ridurre le presenze in ospedale dei pazienti che possono essere curati a casa e qualificare il ricovero per acuti.
Nelle prime settimane dell’emergenza, come sei riuscito – da cristiano – a stare davanti alla paura della sofferenza e della morte di così tante persone, mentre dovevi affrontarla anche tu?
In un’intervista a Radio Vaticana la giornalista mi poneva la domanda se la mia Fede, in questa situazione di dolore, avesse avuto scossoni. La mia risposta decisa è stata negativa. No! Anzi, credo che ogni situazione difficile ti metta in discussione: non tanto sul significato dell’esperienza vissuta, perché il male è male, ma sulla difficoltà a leggere quella stessa prova come ciò che può rinsaldare il rapporto d’amore con Chi ti vuole bene, cioè con Colui che ti ha collocato lì, perché tu potessi e possa essere Sua presenza. L’amore che il Signore ha per noi non può essere dato per scontato ed anche il nostro ha bisogno di essere messo alla prova per essere rinsaldato. È il bello della fede, è il bello dell’amore.
Proprio nelle prove più faticose si può trovare la bellezza e la bontà che fanno emergere la vera essenza di ciascuno di noi uomini. Siamo destinati per un bene più grande. Così, anche lo stesso fatto di stare di fronte ad un morente, mi ha chiesto gesti di verità, ogni volta che mi sono trovato a dirmi: “Chiudo gli occhi e me ne vado con indifferenza… o gli prendo la mano, gli faccio una carezza e… dico magari una preghiera?”
Coordinamento e servizio, per il bene di tutti
Intervista al Dr. Sandro Cinquetti
Una dimensione decisiva, per fronteggiare l’emergenza sanitaria causata dal covid-19, è stata quella dell’elaborazione e dell’organizzazione regionale degli interventi, operate in particolare dalle aziende sanitarie. Il Veneto, tra le regioni più colpite (attualmente la quarta, dopo Lombardia, Piemonte ed Emilia), ha impostato questo servizio privilegiando una regia unitaria per l’offerta dei servizi tra strutture pubbliche e private, con particolare attenzione all’assistenza territoriale. La redazione di Dialoghi ne ha parlato con Sandro Cinquetti, Direttore del Servizio Igiene e Sanità Pubblica dell’Azienda ULSS 2 Marca trevigiana, in questo tempo direttamente impegnata nella gestione dell’emergenza sanitaria a servizio della Provincia di Treviso. Insieme ai nostri lettori, ringraziamo dunque Sandro, che per il Movimento è Responsabile della Comunità di Conegliano, sia per il suo prezioso lavoro, offerto a beneficio di tanti, che per la sua testimonianza.
In che cosa è consistito principalmente il tuo lavoro di medico in questo periodo di epidemia?
Dirigo il Servizio di Igiene e Sanità Pubblica (SISP) dell’Azienda Ulss2 Marca trevigiana, un’Azienda di 10.000 dipendenti, che serve il territorio della provincia di Treviso, con una popolazione di 900.000 abitanti. Il mio Servizio ha specifiche competenze sulla prevenzione delle malattie infettive, sia ordinaria (indagini epidemiologiche, vaccinazioni, ecc.) sia straordinaria, nelle situazioni emergenziali. L’impegno sull’epidemia di covid-19 è stato quindi, fin da subito, importante. In particolare, con una squadra che si è via via costituita dalla metà di febbraio in poi, fino all’attuale consistenza di oltre 120 operatori (medici igienisti, assistenti sanitari, infermieri, medici specializzandi in igiene, amministrativi, professionisti di altre discipline ad attività ridotta a causa dell’epidemia), il SISP si occupa:
- della “presa in carico” di tutti i soggetti covid-positivi o con sintomatologia sospetta;
- dell’indagine epidemiologica per individuare i “contatti” dei soggetti covid-positivi, ovvero i loro conviventi o persone con cui essi si siano intrattenuti in modo significativo nei giorni precedenti l’insorgenza dei sintomi o la positività al covid, se asintomatici;
- delle disposizioni contumaciali per queste persone: isolamento e quarantena;
- della sorveglianza attiva sui soggetti isolati o quarantenati: telefonata quotidiana per la valutazione dello stato di salute e di eventuali necessità assistenziali;
- della costante comunicazione con la popolazione generale e con i medici del territorio (medici e pediatri di famiglia, guardia medica, ecc.), mediante canali dedicati (telefono h24 e mail riservata);
- dell’esecuzione dei tamponi diagnostici in ambito extra-ospedaliero, sia a favore dei soggetti con sintomatologia sospetta, sia per gli operatori professionalmente esposti (personale sanitario, forze dell’ordine, operatori di servizi essenziali, ecc.);
- del rilascio delle certificazioni mediche ufficiali per la giustificazione dell’assenza lavorativa o della riammissione in collettività dopo guarigione.
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Credo che il punto di forza dell’attività della mia Azienda Sanitaria, come in generale delle Aziende Sanitarie del Veneto, sia stato la capacità di gestire a domicilio la grande maggioranza dei pazienti affetti da covid (tre su quattro fin dall’inizio dell’epidemia, ora quattro su cinque e più). Questo grazie agli strumenti di sanità pubblica sopraindicati, ad un buon rapporto con la medicina di famiglia, ad un ampio utilizzo dei tamponi diagnostici, ad un consistente impegno degli infermieri dedicati all’assistenza domiciliare, addestrati da una lunga esperienza in tema di cure palliative. Ha molto aiutato una “catena di comando” unica per l’ospedale e per il territorio: nel Veneto, infatti, salvo le Aziende Ospedaliere-Universitarie di Padova e di Verona, tutte le altre Aziende Sanitarie comprendono ospedali, medicina territoriale e medicina preventiva. Anche i piccoli ospedali privati religiosi attivi in provincia si sono subito rivelati collaborativi.
I momenti più difficili sono stati, a Treviso, quelli di inizio epidemia, con la necessità di far fronte a un grosso focolaio epidemico nel reparto di geriatria dell’ospedale principale; una quindicina di giorni con grave carenza di tamponi e con pesanti proteste da parte della popolazione; le ultime tre settimane con importanti focolai nelle case di risposo.
La generazione dei nostri nonni, autentico tesoro della nostra società, ha subito più delle altre l’aggressività del virus. Si sarebbe potuto proteggerla di più, per non uscire da quest’emergenza con l’idea che ad 80 anni la nostra vita ha meno valore?
Grazie alla forte gestione domiciliare, anche di persone anziane con sintomatologia impegnativa, la mortalità per covid non ha assunto, a Treviso ed in Veneto, i toni drammatici di altre aree del nostro Paese. Certo, anche nel mio territorio il problema dei nonni nelle case di riposo, evidentemente più ampio e complesso rispetto all’emergenza covid, ma da questa sicuramente acuito, si è imposto nella sua evidente gravità. Strutture non abituate a gestire un rischio infettivo di tale portata, con organici ridotti dai casi di malattia nel personale, hanno evidenziato la loro fragilità protettiva, specie nei contesti con problemi gestionali preesistenti.
La crisi sanitaria e le misure di contenimento adottate hanno dimostrato più che mai che la salute non è un bene privato ma pubblico. Come andrebbe più efficacemente salvaguardato questo bene di tutti (cioè di cosa non può fare a meno un sistema sanitario pubblico)?
La domanda, nella sua complessità, è molto interessante. Prima di rispondere riporto due indicazioni normative a mio avviso fondamentali:
- “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” (articolo 32 della Costituzione);
- “Il dipendente osserva la Costituzione, servendo la Nazione con disciplina ed onore” (articolo 3 del codice di comportamento dei dipendenti pubblici).
Queste due testate d’angolo del diritto pubblico, declinate nella concretezza del fare, consentono di costruire, forse di ri-costruire, dopo questa drammatica emergenza, un modello di risposta ai bisogni di salute solido, equo ed onesto. Va inoltre recuperata la corretta definizione di S.S.N., definita dalla legge 833 del 1978: “Servizio Sanitario Nazionale”, non “Sistema Sanitario Nazionale”, come spesso si legge. La parola “servizio”, ben diversa dalla parola “sistema” (ormai purtroppo usata da tanti, anche nella presente domanda e addirittura nell’ultima legge di riforma sanitaria della Lombardia), assume un significato profondo, per i cristiani (“il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”) e non solo (“Servire il popolo!”).
Dentro tutta questa vicenda cos’ha significato per te essere cristiano?
Ogni giorno, mi ha accompagnato il “nada te turbe” di Santa Teresa. Guardando poi i miei colleghi ed i miei collaboratori, talvolta sovrastati dalla fatica, ho spesso recitato questa “preghiera” di Bruce Springsteen, tratta da “Into the Fire”: “Possa la tua forza darci forza/ possa la tua fede darci fede/ possa la tua speranza darci speranza/ possa il tuo amore darci amore”.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 21, NUMERO 1, Giugno 2020