Che cosa significa generare
(di A. Musio)
Sempre più spesso si parla della generazione come di un diritto e del figlio come della sua istanza di realizzazione. Ma un diritto è tale solo se c’è qualcuno che ha il dovere di realizzarlo. E se la tecnica sembra assolvere asetticamente a questo compito, ci si dimentica che un simile diritto avrebbe senso solo nei confronti di un potere politico violento che intendesse proibire agli uomini di generare. Lo sguardo di coloro che generano non può essere, allora, ripiegato su si sé: “la totale non-autosufficienza” di chi nasce rappresenta infatti da sempre la radice stessa della figura della responsabilità umana.

L’amore, diceva un pensatore contemporaneo, ha senso solo in una «logica accusativa». Se non mette al primo posto l’amato, che rappresenta «il suo accusativo amoroso», l’amore, non solo è sul punto di finire, ma probabilmente non è mai neppure cominciato. Quando si ama solo se stessi, foss’anche semplicemente il modo in cui l’altra persona ci fa sentire, si dimentica che l’atto dell’amare è transitivo e che il suo senso è quello di far uscire il soggetto da se stesso per riempirlo della pienezza della vita.
La stessa dinamica vale, o dovrebbe valere, anche nel caso della generazione che rappresenta l’atto transitivo per eccellenza. Il frutto della generazione è infatti il figlio e il figlio è anche il suo senso. Sempre più spesso, invece, oggi si parla della generazione come di un diritto e del figlio come della sua istanza di realizzazione.
Ma quando si usa questo linguaggio occorrerebbe ricordarsi che generare significa essere semplicemente l’occasione del sorgere di un nuovo essere umano, il quale, in fondo, è sempre qualcuno di cui non si può sapere prima come sarà: l’imprevisto, inteso come soggetto anziché come evento. Sta qui la radice dell’unicità e irripetibilità di ogni essere umano, da cui deriva l’impossibilità della sua sostituzione, secondo una logica che contrasta con il dato di fatto che tutte le relazioni e funzioni sociali sono invece pensate — anche per il bene stesso della società — per essere sostituibili. Certo, se un potere politico decidesse di impedire agli uomini di generare, allora sì
avrebbe senso parlare di un diritto a generare e rivendicarlo con forza sarebbe, anzi, una forma di resistenza da cui dipenderebbero probabilmente le sorti della civiltà umana.
Ma al di fuori di un inquietante scenario di questo tipo — di cui il Novecento ha conosciuto comunque terrificanti realizzazioni — parlare in positivo di un diritto a generare non ha alcun senso, già per il fatto che questo lessico sposta l’attenzione dal figlio ai generanti. Di qui la legittimazione di uno sguardo che li ripiega narcisisticamente su se stessi e in cui il figlio finisce per essere travolto da logiche che ne feriscono la dignità. Infatti, se la generazione fosse un diritto, allora lo diventerebbe immediatamente anche il figlio stesso, aprendo a quella logica proprietaria che, come in certi trattati di economia, già da molto tempo lo inscrive esplicitamente nella serie dei beni commerciali pensati per le piccole soddisfazioni e i bulimici desideri dei consumatori.
Ed è qui che la tecno–scienza giunge a proporre le sue “soluzioni” secondo una logica che stravolge la generazione, non facendola passare più dall’unione corporea tra un uomo e una donna, ma delegandola alla scienza e alla medicina, sulla base di paradigmi sempre più a–relazionali. L’ipotesi — che trova talvolta incomprensibile sostegno anche in molti autori auto–proclamatisi “pro–life” — di una gestazione e di un parto realizzati attraverso la finzione meccanica di un utero artificiale, chiamato a sostituire il corpo della madre, diviene in quest’ottica il simbolo stesso di quel ripiegamento su se stessi e di quella dimenticanza della dignità del figlio che la logica del diritto a generare inevitabilmente finisce per portare prima o poi con sé.
E pensare che, come spiegava Jonas, nella generazione è in gioco, invece, il paradigma stesso della responsabilità. «Nella totale non–autosufficienza — scriveva — di ciò che è generato è per così dire ontologicamente programmato che i procreatori lo tutelino dal rischio di ricadere nel nulla e ne assistano il divenire ulteriore. L’accettazione di questo era implicita nell’atto della procreazione. Mantenere tale impegno […] diventa un dovere ineludibile verso l’essere che ora esiste nel suo pieno diritto e nella sua totale dipendenza da quell’impegno». Nella prospettiva di Jonas, insomma, la generazione istituisce dei doveri più che delinearsi come un diritto, e l’attenzione è tutta nei confronti del figlio, del neonato, «il cui solo respiro — scriveva ancora — rivolge inconfutabilmente un “devi” all’ambiente circostante perché si prenda cura di lui».
Per questo occorrerebbe cogliere nella generazione il paradigma stesso della responsabilità. È interessante, in proposito, riflettere sul fatto che Jonas — pensatore ebreo tedesco arruolatosi da volontario nell’esercito inglese per combattere contro il nazismo — fosse chiaramente un autore intransigente nei confronti di ogni forma, sia pure in limine, di stato totalitario. Ma non gli sarebbe mai passato per la mente di parlare della generazione come di un diritto nel senso che abbiamo spiegato: nella sua prospettiva, il lessico della generazione non può essere quello individualistico dei diritti, ma quello del dovere di prendersi cura di quell’imprevedibile essere che è ogni nuovo generato. Ed è in questo dovere e in questa capacità di cura che si edificano davvero l’etica e la politica.
Se, come si diceva all’inizio, la generazione è l’atto che meglio rappresenta la logica transitiva dell’amore — la sua dinamica accusativa e non riflessiva — occorre anche dire che quella paterna e materna rispetto al neonato è una relazione unica. Perché è l’unica relazione, quando è all’altezza dell’ideale che le dà forma, in cui il legame con l’altro precede la conoscenza delle sue qualità, mentre negli altri casi la segue sempre. In questo senso è una relazione tutta incentrata sul chi è l’altro, e non su che cosa è. Una relazione che, come dice Cavarero, giunge sino a parlare “la lingua del nonostante”, in cui l’altro è amato nonostante quei suoi difetti che prima o poi inevitabilmente emergeranno, per il semplice fatto del suo esserci.
Sta qui in fondo il motivo per cui ciascun essere umano, persino l’adulto e l’anziano, hanno costantemente bisogno di essere generati di nuovo.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 19, NUMERO 4, Dicembre 2018