La Politica è… credibilità e comunità

(di Luca Sighel)

 

In un testo del 2020 intitolato La credibilità politica, opera di due fini sociologi e politologi, il Prof. Guido Gili e il Prof. Massimiliano Panarari ‒ già intervistato dalla nostra rivista sul tema del populismo ‒, si offrono articolate riflessioni su un argomento assai attuale quando ci si interroga su quale sia il meccanismo personale e sociale attraverso cui noi riteniamo credibile una proposta, in particolare di tipo politico. Cosa ci spinge, alla fine, a dare il nostro consenso ad una formazione, ad un partito o ad un leader? Un interrogativo che si ripropone ogni volta in cui siamo chiamati alle urne ad esercitare il nostro potere democratico.

 

 

Viviamo una crisi di credibilità, ma abbiamo allo stesso tempo bisogno di fatti, persone, proposte credibili. La credibilità non si configura  semplicemente come una caratteristica personale, ma è una relazione, un rapporto sociale tra chi deve mostrarsi come credibile e chi ripone in lui la propria fiducia. Per questo non è data, ma è sempre, in qualche modo, un lavoro in corso.

Le radici della credibilità: competenza, valori, legame affettivo

Che cosa rende ai nostri occhi una persona meritevole di essere creduta, di essere seguita?

Certamente uno dei fondamenti della credibilità è la competenza: ci fidiamo di chi mostra di sapere e saper fare (è la competenza dell’artigiano o del meccanico). La competenza si è via via sempre più specializzata e, negli anni del mondo globalizzato e social, il concetto stesso di competente ha subito uno scossone: lo abbiamo visto nel pubblico e costante disaccordo dei virologi ed infettivologi che ha insinuato nel pubblico dei dubbi su quella che è da sempre ritenuta la competenza più solida, quella scientifica. Andando ad inficiare “la credibilità dell’esperto”, si è portato a compimento un processo che è progressivo e che alimenta l’illusione che, in fondo, un po’ tutti siamo competenti su quasi tutto, dal ct della nazionale all’insegnante, al medico. 

Dal punto di vista politico la competenza è la capacità di sintesi, di saper leggere le questioni strategiche, di individuare possibili soluzioni e di saperle comunicare e di comunicarsi, ed è, poi, soprattutto la capacità di saper decidere. Ma nella politica sempre più medializzata al candidato è necessaria anche una certa abilità drammaturgica, magari sostenuta da un team di strateghi della comunicazione e del marketing. Nel nostro Paese, a fasi alterne, ci affidiamo a dei tecnici, prestati alla politica sulla base della credibilità che si sono guadagnati nel loro campo, rischiando di scivolare verso una sostituzione della rappresentanza con la competenza o di immaginare una sorta di governo di “sapienti”, dimenticandoci che non è detto che un tecnico sia in grado di muoversi con la stessa sua abilità specifica nell’ambito istituzionale e politico, soprattutto in tempi in cui la credibilità dei politici è ai minimi storici, dopo aver investito negli ultimi tre decenni prima nei partiti personali, che sembrano aver avuto un nuovo sussulto in questa tornata elettorale (basti vedere i simboli presentati), poi in quelli anti-sistema in nome della democrazia diretta. La proposta, avanzata qualche tempo fa da Beppe Grillo, di estrarre a sorte i parlamentari svuota completamente l’idea di una competenza politica distinta e qualificata. 

Altro è il discorso dei valori. Con la fine delle ideologie, essendo sempre meno possibile identificarsi tramite una rappresentanza di culture, idee, concezioni, si è cercato il fondamento della fiducia in valori personali, quali la sincerità, l’onestà, il disinteresse personale, la lealtà verso le istituzioni, gli elettori, gli alleati, verso gli avversari e verso il proprio gruppo. Si tratta di una visione che pone in primo piano una predisposizione personale “morale” del politico e una concezione della politica come ideale e come servizio: in questa legislatura molti di questi valori sono stati messi alle corde.

La terza radice della credibilità è il legame affettivo nei confronti del leader, la relazione di ogni singolo membro della massa con il capo, un rapporto che è ricercato come personale e che non solo si sviluppa in senso verticale, ma che, proprio in virtù dell’attaccamento degli individui al vertice, fonda anche un secondo livello affettivo orizzontale tra gli adepti. L’importanza di questa radice è cresciuta enormemente e ha generato da parte di tutti i leader l’impegno a costruire una strategia della propria immagine attraverso la riduzione delle distanze con i potenziali elettori, un processo di umanizzazione della figura del capo (“sono uno di voi”), la semplificazione del suo linguaggio (“parla come mangi”), l’esibizione pubblica di emozioni e sentimenti privati, ostentando spontaneità e tentando di comunicare autenticità, in una costante ricerca di notorietà e visibilità, che è diventata un imperativo della nuova democrazia mediatica. Diviene centrale la capacità di argomentare in modo chiaro e convincente, ma sono fondamentali lo stile, le espressioni, le posture, la modulazione della voce. In realtà tale modalità è rischiosa, perché con la stessa facilità e velocità con cui i media  esaltano e espongono, possono rapidamente decretare la fine di nuovi leader. Di certo così le prime due radici, competenza e integrità, scivolano in secondo piano per ottenere il riconoscimento dei social media, lasciando da parte anche i contenuti.

Il leader carismatico e il bisogno di comunità

La logica del leader carismatico che si è imposta su quella dei partiti, in crisi di identità, idealità e rappresentanza di una base che fatica a riconoscersi in essi, ha orientato e concentrato la scelta politica sui singoli capi politici di movimenti o neopartiti e richiede un’azione di costante rinnovo della fiducia, quasi un quotidiano plebiscito.

Ne deriva una forte polarizzazione delle posizioni, che si configurano come atti di difesa o sostegno, al limite del tifo, per il leader in cui ci si identifica, con una sostanziale perdita della capacità di dialogo costruttivo per un interesse comune.

In questo orientamento sembra riproporsi “la nostalgia dell’uomo forte”, come insegnava Max Weber, sempre riaffiorante dal passato, con esempi che vorremmo dimenticare nel secolo scorso, ma che trova degni rappresentanti anche ai giorni nostri, soprattutto se guardiamo fuori dai confini italiani, quali Putin in Russia, il turco Erdogan, l’ungherese Orban, tutti i leader che guidano i loro Paesi con governi formalmente democratici, ma ritenendosi investiti di una missione salvifica del popolo e della sua identità, con il favore dell’opinione pubblica di cui sono abili manipolatori. Si vota innanzitutto un leader, in cui è riposta tutta la credibilità dell’azione che si propone di incarnare e rappresentare.

I due autori di questo saggio, che approfondisce e problematizza con sguardo imparziale ed equilibrato i punti che qui diamo per sommi capi, ritengono che per un politico sia indispensabile, al di là delle forme che la credibilità politica potrà assumere, il «riconoscimento reciproco, la capacità di guidare e governare gli altri, assumendo tutte le responsabilità e i rischi che ciò comporta, ma favorendo e promuovendo reali processi di ascolto, di partecipazione e di coinvolgimento attivo dei cittadini a tutti i livelli e in tutte le fasi della vita politica».

Il crescente astensionismo racconta di uno scollamento progressivo e sempre meno arginabile tra gli elettori e i candidati, processo non solo italiano, che svuota dal basso il meccanismo democratico.

La voglia di comunità e la società nuda

In questa fase di stanchezza della democrazia però si osserva il riemergere, paradossalmente, di “voglia di comunità”, alimentata, forse, anche dalle restrizioni di questi anni. In realtà la parola “comunità” è stata usata e stravolta in molti contesti, spesso forzandone il significato. Ma essa evoca sempre un legame fraterno, quel valore di “fraternitè”, un po’ dimenticato dopo la Rivoluzione francese a vantaggio di libertà e uguaglianza che hanno guidato e nutrito le democrazie liberali e i regimi socialisti.

La comunità si contrappone all’individualismo, ma come non cadere in una fratellanza forzata, che degeneri in forme di totalitarismo, o rinchiudersi in una fratellanza elettiva di alcune derive puritane americane o, ancora, finire con l’identificare la comunità con un’appartenenza unicamente nazional-territoriale?

Oggi, in una certa misura, lo sviluppo di forme comunitarie si è trasferito sulla rete e questa è una trasformazione dei legami, che non sono più diretti, che non è possibile trascurare, ma che creano effettivamente una sorta di “comunità relazionali”. La forte domanda di comunità si spiega con la crescente atomizzazione delle relazioni sociali e un individualismo sempre più sradicato e ripiegato su sé stesso, assai diverso da quello del self made man del modello capitalista.

La credibilità politica- Gili, PanarariLa società di massa e la globalizzazione hanno accelerato questa perdita, andando a lacerare le strutture intermedie, quei corpi intermedi di associazionismo in cui le persone potevano incontrarsi e riconoscersi, confrontarsi e discutere. È questo, in verità, il terreno in cui sorge e si alimenta la partecipazione sociale e politica. Se questa fascia si indebolisce o viene a mancare, commentano gli autori, «si crea una società nuda, in cui, da un lato, gli individui appaiono soli ed indifesi rispetto ai condizionamenti ed alle manipolazioni che provengono dall’alto, e, dall’altro lato, le istituzioni sono direttamente esposte alle pressioni che provengono dal basso, da una massa atomizzata di individui, che può essere conquistata e diretta da agitatori e manipolatori di professione». Come a dire che, affinché i cittadini non siano vittime di demagogie o scivolino nella palude dell’astensionismo, magari rancoroso, la credibilità per la politica si gioca nel costruire o ri-costruire un legame con la società concreta come pluralità di comunità, sapendone riconoscere i diritti e le ragioni.

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 3, Settembre 2022