(di P. Antonio Maria Sicari o.c.d.)

Sono ormai passati dieci anni, da quando ho offerto ai lettori di Dialoghi Carmelitani una lunga riflessione sul tema “Potere, Autorità e Servizio”, descrivendo poi — in maniera particolareggiata — il loro esercizio all’interno della Chiesa, in genere, e del nostro Movimento Ecclesiale Carmelitano, in specie.

Per svolgere l’approfondimento relativo a questo numero, abbiamo bisogno di richiamare la parte fondativa di quel contributo, che qui di seguito riproponiamo:

(da Dialoghi Carmelitani, ANNO 7, NUMERO 2, Giugno 2006)

 

Le parole nascono da una esperienza e poi subiscono una storia che a volte le approfondisce, a volte le distorce, a volte le corrompe. Prendiamo le due parole che, qui, particolarmente ci interessano: Potere ed Autorità.

Custodire la bellezza delle parole

«Potere» è, alla sua origine, un verbo tutto impregnato di utilità, tanto che la grammatica lo definisce “verbo servile”: poter camminare, poter lavorare, poter amare… e così all’infinito. Il verbo potere apre continuamente spazi e possibilità (appunto!) alla nostra voglia di vivere e di realizzarci. Da dove viene allora che lo stesso verbo — preso da solo, al punto da tramutarlo in un sostantivo «Il potere» — suoni così minaccioso e preoccupante per chi lo esercita e per chi lo subisce? «Avere» potere eleva quest’uomo (non sempre il migliore) al di sopra di coloro che gli stanno attorno e lo guardano con diffidenza, o con una venerazione ancora più preoccupante.

«Autorità», alla sua origine, vuol dire «capacità di far crescere» (da «augēre»): e dunque l’attività di chi si prende cura di ciò che è piccolo, ma prezioso e merita perciò d’essere custodito ed aiutato nel suo sviluppo. Da dove viene, poi, che al termine «autorità» sembri aderire — come una incrostazione — qualcosa di ostico e di minaccioso per la libertà di chi deve obbedire, ed evochi qualcosa di rigido e di inflessibile nell’umanità di chi ne è rivestito? Chi si trova a gestire potere ed autorità sa quasi d’istinto che, per rendersi accetto, deve sapersi presentare in termini di “servizio” (servire la comunità, servire il popolo, la città, la nazione, gli elettori, l’impresa, gli interessi del gruppo…) e così di solito ci si esprime oggi, anche negli ambienti piu profani e smaliziati. Poi, man mano che “potere” e “autorità” si corrompono (già nella nostra mente e nel nostro linguaggio), rischiano la corruzione anche altri termini ed altre esperienze ad essi collegate (dipendenza, obbedienza, appartenenza / libertà, spontaneità, espressività/individuo, persona, comunità): parole che erano pur belle e dolci alla loro origine e che diventano di difficile decifrazione.

Parole “fatte carne”

Molte sono le riflessioni antropologiche e pedagogiche che si potrebbero fare al riguardo. Per fortuna Gesù ce ne ha, in parte, dispensato dato che, sul potere e sull’autorità, ci ha lasciato indicazioni e modelli di assoluta chiarezza: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45). L’evangelista Luca ha addirittura collocato questo insegnamento durante l’ultima cena, mostrandoci i discepoli così spiritualmente lontani dal loro Maestro da contendere per la propria supremazia proprio mentre Egli si prepara a morire: «Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure Io sto in mezzo a voi come Colui che serve» (Lc 22,24-27).

Secondo l’evangelista Giovanni, la reazione di Gesù si spinse tanto oltre da voler dare agli apostoli una sconvolgente esemplificazione del suo insegnamento, nel lavare i loro piedi come uno schiavo: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque Io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto Io, facciate anche voi» (Gv 13,12-15).

La prima predicazione cristiana fu tutta segnata da questo sconvolgente messaggio: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Gesù Cristo. Ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Non cerchi ciascuno il proprio interesse, ma quello degli altri» (Fil 2,5); «Siate sottomessi gli uni agli altri, nel timore di Cristo» (Ef 5,21). In tal modo potere e autorità furono restituiti, nel cristianesimo, alla loro originale funzione di servizio buono, umile, affettuoso, “creativo all’infinito” (così S. Vincenzo de’ Paoli definiva la “carità” cristiana).

Non dobbiamo, tuttavia, chiudere gli occhi davanti alle corruzioni, sempre ricorrenti anche in ambito ecclesiale. Alcune sono semplicemente grossolane: non mancano, certo, cristiani che esercitano il potere alla maniera mondana, biecamente, finalizzandolo all’interesse personale o a quello della propria parte, lasciandosi guidare dalle proprie passioni, soggiogando gli altri (soprattutto i più deboli), cercando in ogni modo il proprio benessere e il proprio successo, o anche solo la propria quiete. Altre corruzioni sono più nascoste ed eleganti. Ad esempio: la furbizia lessicale spesso usata nel mondo (quella di chiamare “servizio” il proprio potere, per catturare i consensi), può diventare nelle comunità cristiane una “furbizia morale”.

Il potere di Cristo

Cristianamente, invece, potere ed autorità — fosse pure quella di un pontefice, o di un sacerdote, o di un laico elevato in dignità — cambiano natura solo quando chi li esercita si lascia coinvolgere nel miracolo che Gesù ha vissuto e incarnato nella sua stessa persona: il miracolo dell’assoluta identità tra amore, potere (autorità) ed obbedienza. Il potere di Gesù è stato totale, Egli sapeva che il Padre “aveva posto tutto nelle Sue mani” al punto che, al termine della Sua vita, poté assicurarci: «Ogni potere Mi è stato dato in cielo e in terra. Ma nemmeno per un istante Cristo poteva appropriarsene: il potere era tanto più Suo, quanto più restava “potere del Padre”. E non si trattava di sentimenti o di intenzioni, e neppure di “coscienza”: si trattava dell’«io stesso» di Cristo, un «io» tutto e sempre ricevuto dal Padre, tutto e sempre restituito al Padre. Se il mistero trinitario e quello dell’Incarnazione devono significare qualcosa per noi, essi ci obbligano anzitutto a stare davanti ad una “persona” (quella di Gesù, Figlio di Dio fatto uomo), il cui «io» non ha mai bisogno di appropriarsi di niente, nemmeno di se stesso: in Lui l’obbedienza non è mai intaccata, in nessun modo, dal potere, (nemmeno dal “possesso di sé”). Per Lui esistere significa assieme (in un unico amalgama) “saper d’essere infinitamente amato” ed essere, perciò stesso, “infinitamente disponibile ad ogni obbedienza”, ed essere dunque “infinitamente capace di amare e di salvare”, infinitamente potente.

Il nostro «io» di creature — e di creature peccatrici! — e, invece, continuamente bisognoso di affermarsi e di possedersi, oltre che continuamente impaurito dal proprio limite e dalle proprie miserie e, dunque, continuamente teso a nutrirsi di sé e degli altri. Da questa situazione ci può redimere soltanto una vera e profonda conversione al cristianesimo, come reale e quotidiana assimilazione a Gesù: in termini di “potere” ciò significa la nostra totale obbedienza allo Spirito di Cristo (e ai doni con cui tale Spirito governa il mondo) e il nostro progressivo lasciarci assimilare dall’Eucaristia: da ciò che oggettivamente ci accade in essa, e da ciò che essa esige da noi. Nella Chiesa, insomma, e in ogni comunità cristiana, il potere e solo dello Spirito Santo; a tutti i credenti — qualunque sia il ruolo che dovranno poi ricoprire o il ministero che dovranno svolgere — spetta solo “l’obbedienza incondizionata”. E quando nella comunità c’è bisogno di «autorità», allo scopo di armonizzare al meglio l’obbedienza di tutti (anche di chi episodicamente e chiamato a comandare), essa deve essere vissuta alla maniera di Cristo: “eucaristicamente”, distribuendo in cibo la propria vita.»

Contro il Dio Creatore

Col passare degli anni, il discorso teologico e pedagogico non può certo mutare, ma possono mutare certe applicazioni e certe sottolineature, quando l’autorità è chiamata ad esercitarsi su alcune nuove urgenze e l’obbedienza è chiamata ad applicarsi su questioni e comportamenti piuttosto inediti. Cercheremo dunque di valutare qualche cambiamento epocale di cui siamo testimoni e che esige nuovi pronunciamenti autorevoli e nuove obbedienze.

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Ci può aiutare il resoconto dello scambio tra i presuli polacchi e il Papa, avvenuto il 27 luglio 2016, durante la Gmg di Cracovia, dove leggiamo queste parole da lui pronunciate: «Noi stiamo vivendo un momento di annientamento dell’uomo come immagine di Dio (…). In Europa, in America, in America Latina, in Africa, in alcuni Paesi dell’Asia, ci sono vere colonizzazioni ideologiche. E una di queste — lo dico chiaramente con “nome e cognome” — è il gender! Oggi ai bambini — ai bambini! — a scuola si insegna questo: che il sesso ognuno lo può scegliere. E perché insegnano questo? Perché i libri sono quelli delle persone e delle istituzioni che ti danno i soldi. Sono le colonizzazioni ideologiche, sostenute anche da Paesi molto influenti. E questo è terribile. Parlando con Papa Benedetto, che sta bene e ha un pensiero chiaro, mi diceva: “Santità, questa è l’epoca del peccato contro Dio Creatore!”. È intelligente! Dio ha creato l’uomo e la donna; Dio ha creato il mondo così, così, così…, e noi stiamo facendo il contrario. Dio ci ha dato uno stato “incolto”, perché noi lo facessimo diventare cultura; e poi, con questa cultura, facciamo cose che ci riportano allo stato “incolto”! Quello che ha detto Papa Benedetto dobbiamo pensarlo. È l’epoca del peccato contro Dio Creatore!. E questo ci aiuterà».

50 anni fa: la Chiesa e il mondo

Mi pare che questo giudizio così “autorevole” di Papa Benedetto XVI, accolto e rilanciato dal suo successore, individui esattamente il cambiamento epocale in cui siamo immersi. Finora l’autorità e l’obbedienza ecclesiale si sono esercitate nel campo della “redenzione”, che vede l’umanità divisa in religioni diverse e in diverse “confessioni cristiane”, e la Chiesa ha dovuto per secoli elaborare il tema del suo rapporto con popoli e culture di ogni specie. E lo ha dovuto fare tenendo conto che la fede è un dono che deve essere liberamente accolto. Non sempre è stato facile conciliare l’urgenza e il dovere della missione con la necessaria pazienza e la giusta tolleranza. Negli ultimi decenni è perciò diventato urgente per i cattolici il tema del dialogo tra la Chiesa e il mondo contemporaneo, nel quale realizzare “l’unione della verità con la carità, dell’intelligenza con l’amore”: la costituzione conciliare Gaudium et Spes e l’enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI hanno segnato un punto d’arrivo. La Chiesa ha dunque chiesto ai cattolici che “autorità e obbedienza” fossero vissute con una illimitata cordialità, ma proprio allo scopo di essere soggetti abilitati a un dialogo autentico con tutti gli uomini di buona volontà.

Non mancava tuttavia, già nell’Ecclesiam Suam, la percezione di un dramma: il fatto che, già allora, la negazione di Dio rendesse quasi impossibile il dialogo: «Noi sappiamo però che in questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione; sappiamo anzi che molti, in diversissime forme, si professano atei. E sappiamo che vi sono alcuni che della loro empietà fanno professione aperta e la sostengono come programma di educazione umana e di condotta politica, nella ingenua ma fatale persuasione di liberare l’uomo da concezioni vecchie e false della vita e del mondo, per sostituirvi, dicono, una concezione scientifica e conforme alle esigenze del moderno progresso. È questo il fenomeno più grave del nostro tempo» (n. 103). Cinquant’anni fa si sperava ancora, in ogni caso, che restassero margini di dialogo, anche se molto limitati: «L’ipotesi d’un dialogo si fa assai difficile in tali condizioni, per non dire impossibile, sebbene nel nostro animo non vi sia ancor oggi alcuna preconcetta esclusione verso le persone che professano i suddetti  sistemi e aderiscono ai regimi stessi. Per chi ama la verità, la discussione è sempre possibile. Ma ostacoli d’indole morale accrescono enormemente le difficoltà, per la mancanza di sufficiente libertà di giudizio e di azione e per l’abuso dialettico della parola, non già rivolta alla ricerca e all’espressione della verità obiettiva, ma posta al servizio di scopi utilitari prestabiliti »(Ecclesiam Suam, n. 106). Con un certo sconforto l’enciclica di Paolo VI doveva riconoscere che, davanti a conclamate posizioni ateiste, la Chiesa non aveva molte possibilità: «È per questo che il dialogo tace» (n. 107). E tuttavia sosteneva che restava possibile ««anche nel silenzio, un vigile amore».

Oggi: il dovere dell’annuncio

Siamo così giunti al punto nodale della questione. Oggi il confronto più aspro che la Chiesa deve sostenere non riguarda più l’ateismo che spinge gli uomini ad affermare che “se Dio non c’è tutto è permesso” (ipotesi faticosa perché impone almeno che sia discussa e provata la non esistenza di Dio). Oggi il confronto è con una colonizzazione ideologica universale che lascia ad ognuno la sua fede (se proprio ci tiene!), ma impone a tutti il “tutto è permesso”, aspettando che la negazione di Dio risulti da sé, come inevitabile conseguenza. “Tutto è permesso”: è questo per la nostra epoca il grimaldello per attuare a livello planetario quel “peccato contro il Creatore” di cui Papa Benedetto XVI ha parlato a Papa Francesco.

Ma se questa è la situazione, una conseguenza è inevitabile: se è vero che l’ateismo di una volta costringeva al silenzio (e a un vigile amore), l’ateismo di oggi (la pratica negazione del Creatore e della Sua opera), imposto alle famiglie e insegnato capillarmente anche ai bambini, non impone forse alla Chiesa il dovere di uscire dal silenzio e di gridare sulle piazze, senza limitarsi a sporadiche affermazioni di principio? A tranquillizzare chi ha autorità basta l’affermazione che le posizioni morali della Chiesa sono già ben conosciute e che non occorre ripeterle continuamente, infastidendo gli interlocutori? A tranquillizzare i cristiani che vogliono ancora essere obbedienti, basta la decisione personale e generica di aderire alla dottrina di sempre? Se davvero l’attacco è al Creatore e quindi anche alla costituzione della realtà (e in primo luogo alla stessa ragione umana), la questione non è più limitata al problema dei “principi non negoziabili” (anche se dichiararli tali sarebbe già una prima forma di magistero e di obbedienza), ma è diventata la questione della «realtà non negoziabile» e dell’«uomo non negoziabile». Una questione che dà ad ogni cristiano (e soprattutto a chi è autorevole) l’autorevolezza di alzare un insopprimibile grido che non si lascia tacitare. E dovrebbe essere un grido di cui la Chiesa intera dovrebbe essere fiera, in capite et in membris.

D’altronde è proprio il caso di chiedersi: ci sarà pure una occasione in cui urge attuare quello che San Paolo chiedeva al suo fedele discepolo Timoteo: “Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina” (II,4,2)! Se non è questa l’occasione opportuna — è proprio perché molti la dichiarano inopportuna —, allora quando?

La prima misericordia

Infine, il fatto che siamo in un clima ecclesiale impregnato di “misericordia per tutti”, non deve certo farci dimenticare che — nel cambiamento epocale del “peccato contro il Creatore” — la vera misericordia non deve essere offerta a chi si ostina diabolicamente a organizzare e diffondere un tale peccato, ma deve prendersi cura di tutte le loro vittime: dei bambini resi programmaticamente incerti della propria identità sessuale e malamente incuriositi; dei giovani distolti da una vera vocazione al matrimonio e stimolati alle più inedite e frammentarie sperimentazioni sessuali; delle famiglie programmaticamente indebolite o rese inconsistenti, o comunque ingiustamente equiparate a ciò che famiglia non è; delle donne madri staccate dal “frutto del proprio grembo” (o con la violenza dell’aborto o con un surrogato di maternità); e di quei bimbi privati, fin dalla nascita, della loro culla naturale, per finire in braccio alla innaturale custodia di chi li  ha programmati. E non bisognerà temere di indicare il peccato, chiamandolo col suo vero nome, anche a coloro che si sono lasciati già “colonizzare”: non per condannarli, ma per ridare loro la gioia di essere creature e di avere un Creatore.

Gesù chiamava tutto questo: “il Principio!”, ricordando ai suoi ascoltatori che “non è mai lecito separare ciò che Dio ha unito” (Mt 19,6-7). Il che voleva dire anche che “non è mai lecito unire ciò che Dio ha separato”. E così, rifacendosi al principio, Gesù estendeva il Suo insegnamento a tutti gli uomini, rifiutando come menzognera ogni particolare casistica.

Insomma, quando si tratta del Creatore, è misericordia non voler togliere nessuno dalle Sue braccia.  

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 2, Giugno 2016