Dal fallimento di Putin al futuro delle democrazie
Intervista a Vittorio Emanuele Parsi (a cura di Massimo Gelmini)

A tre mesi dall’avvio di questa guerra che Putin ha definito “un’operazione militare speciale”, al di là delle riduzioni propagandistiche o strumentali che sono state fatte da una parte e dall’altra, è possibile individuare la radice profonda, le motivazioni politiche, storiche e culturali che hanno portato al conflitto aperto?
A me sembra chiaro che l’obiettivo di Putin era riproporre lo status della Russia come grande potenza, a livello di Cina e Stati Uniti. Cioè mettere la Russia nel futuro del mondo, essendo il futuro del mondo immaginato fino al 23 febbraio come una questione sino-americana, o al massimo allargata all’Unione Europea, in cui si discuteva se i rapporti potessero essere più o meno conflittuali, più o meno cooperativi, ma dove la Russia non c’era. E non c’era per molte valide “ragioni”: perché ha un regime politico estremamente non attrattivo; perché è un regime autoritario; perché ha una cleptocrazia sfrenata (il patrimonio degli oligarchi russi detenuto all’estero è stimato di diverse volte superiore al prodotto interno lordo russo); perché ha un regime che ha un’ideologia che si riduce alla fine a un nazionalismo russo xenofobo e a un tradizionalismo politico, religioso, culturale, imbalsamato; perché, ancora, ha un’economia assolutamente poco attraente; perché partecipa al commercio internazionale per il 2%, pur essendo un grande produttore di gas, di petrolio e di qualche altra materia prima — questo a dire che, se si toglie quello, praticamente non c’è niente che i russi vendono.
La Russia è rimasta nel passato e, in questo conflitto, ha scelto il ricatto energetico, il ricatto alimentare, la guerra, come strumento per esserci, nuovamente. C’è una consapevolezza che noi abbiamo raggiunto grazie agli errori e alle conquiste di questo secolo, che sono state il tentativo di avere un mondo regolato anche dalla forza della legge e non solo dalla legge della forza, il tentativo di limitare l’occorrenza della guerra il più possibile. La consapevolezza, acuita con il ritiro dall’Afghanistan, che lo strumento militare per risolvere le controversie e per imporre la propria volontà non solo eticamente non è giusto, ma non funziona più. Questo è stato un errore tipicamente occidentale. Ed è un errore che hanno fatto i russi in questo momento. Tutte queste, secondo me, sono le cause della guerra. Credo anche che ci fosse, e ci sia tuttora, un allineamento russo-cinese che risale già al 2008, poi rafforzato nel 2014, e che è stato molto evidente nelle fasi iniziali di questa guerra, per mettere in discussione la preferibilità dei regimi democratici rispetto ai regimi autocratici, la superiore legittimità dei regimi democratici rispetto ai regimi non democratici. Oggi forse questo allineamento tra Russia e Cina è un po’ meno solido, perché i cinesi da un lato condividono con i russi l’idea di indebolire, diciamo così, la centralità degli Stati Uniti o dell’Occidente, inteso come Europa e Stati Uniti nel sistema internazionale; però allo stesso tempo sostengono da decenni un disegno di leadership complessiva — economica, tecnologica, politica e un giorno anche militare (ma non è quello il tema su cui investono) —; hanno parlato sempre e continuano a parlare di armonia e, lei capisce che una guerra di aggressione di una grande potenza verso un vicino non è certo un buon manifesto per l’armonia, anzi, indebolisce la credibilità del concetto stesso di armonia. E i cinesi a questo sono molto attenti, e forse in Cina vedono che quell’errore che gli occidentali hanno fatto per tanti decenni, per secoli — quello per cui alla fine, se non si è in grado di argomentare le proprie ragioni, si possa sempre usare la forza militare per risolvere la questione —, in questi anni si è appunto progressivamente mostrato come non efficace. È un errore disponibile per chiunque lo voglia fare: è disponibile oggi per i russi in Ucraina, potrebbe essere disponibile domani per i cinesi a Taiwan. Io credo che all’interno della leadership cinese ci sia una parte del Partito Comunista che si chiede se Xi non abbia commesso un grande errore nel dare un disco verde a Putin, se in fondo alla Cina convenga o meno vedere una vittoria di Putin che significherebbe la sconfitta dell’Unione Europea. Sì, certo, procurerebbe l’indebolimento degli Stati Uniti, ma forse anche una crisi irreversibile per l’Unione, e quindi un eccesso di egemonia russa sull’Europa, la crisi di un mercato importantissimo per i cinesi come il mercato occidentale, europeo. A me pare che in questo momento i cinesi si interroghino se, tutto sommato, non convenga loro preservare questo sistema e affermare questo concetto di armonia in una direzione che sia non la leadership della Cina — cioè, la volontà di essere il primo del mondo — ma uno status di partnership paritaria: il non voler essere secondi a nessuno. Tra voler essere primo e non voler essere secondo a nessuno c’è un’enorme differenza. Perché in un caso parliamo di egemonia vera e propria — e in fondo gli Stati Uniti sono stati, anzi sono ancora questo. Nel secondo caso parliamo invece di una equal partnership, cioè un luogo in cui Cina, Stati Uniti, Europa e tutti quelli che vogliono stare in un sistema del genere, possono entrare a condizione di riuscire a sminare, a depotenziare il dilemma della sicurezza, il rischio di minaccia militare reciproca. Ecco, questo è un mondo non perfetto, ma è un mondo aperto. Certo dipende da una serie condizioni. Per l’appunto: se Putin non vince; se in Europa la linea di Von der Leyen, di Draghi, di Macron, della Presidente del Parlamento Europeo (Roberta Metsola, ndr) prevale sulla linea di Orban, di Salvini, di Conte; se negli Stati Uniti non torna Trump e se in Cina viene indebolita la leadership solitaria di Xi.Continua a leggere
Il quadro è certamente complesso e lei l’ha delineato in tutte le sue sfumature e problematiche. Torniamo all’operazione militare: Mosca ha quindi commesso questo errore di ritenere la guerra risolutiva per questioni di ordine politico ed economico. Ma com’è possibile che la grande potenza russa, per quanto sicuramente indebolita su molti fronti compreso quello militare, abbia commesso un errore così grave da non essere poi in grado di sostenere l’azione offensiva a cui aveva dato origine e da subirne anche le conseguenze?
I cimiteri della storia sono pieni di grandi operazioni militari che si sono rivelate un fiasco: Mussolini pensava di conquistare un po’ di gloria con la guerra di Grecia, ma per avere la sua vittoria sono dovuti arrivare i nazisti ad aiutare gli aggressori fascisti ad aver ragione della piccola Grecia. L’Austro-Ungheria voleva punire la Serbia dopo l’attentato di Sarajevo, e non solo Belgrado è stata occupata dopo mesi ma, nelle prime fasi della guerra, i serbi hanno occupato il territorio austriaco. Come ci ricordava Clausewitz, che era uno che la guerra la studiava — e non l’amava particolarmente, come quasi tutti quelli che l’hanno fatta —, la guerra è scontro di volontà, perché la guerra ha lo scopo di piegare la volontà dell’avversario, e anche attrito di materiali e di personale. Ma tanto più la volontà è alta, tanto più può compensare almeno in parte l’attrito di materiali. Quindi il piano russo è in parte fallito perché la resistenza di volontà ucraina è stata molto più alta di quanto i russi pensassero. I russi si auto-ingannavano nella loro stessa propaganda che l’Ucraina non fosse degna di essere un Paese sovrano; essi avevano in mente il Paese del 2014, non il Paese del 2022. Hanno sottovalutato il fatto che l’attacco esterno ha creato e cementato una nuova identità ucraina, che non c’era prima. E sicuramente poi, non c’è dubbio, il massiccio aiuto militare occidentale ha compensato in parte l’attrito del materiale. Quindi, molta più volontà rispetto ai russi e un attrito che veniva ridotto per via dei rifornimenti militari hanno reso la guerra per i russi un gran pasticcio. Poi c’è la corruzione. Come diceva Lord Acton, il potere assoluto corrompe in maniera assoluta. E anche qui purtroppo — purtroppo per carità di storia patria, per fortuna visto il regime che esprimevano — l’Italia fascista entrò in guerra con risorse ampiamente sopravvalutate dal regime perché i gerarchi e le élite industriali in parte rubavano a mani basse e in parte si raccontavano frottole, dicendo che grandissimi mezzi militari erano disponibili, così potevano vendere allo Stato che li comprava. E abbiamo fatto la guerra mondiale con le scatole di sardine invece che con i carri armati, con i biplani invece dei monoplani, con navi senza radar. Quello che succede in Russia non è molto diverso. Putin è al potere da 23 anni (sono gli anni di Mussolini, grosso modo) e forse questa potrebbe essere la sua campagna di Grecia, almeno lo auspico con tutto il cuore, per i russi.
La minaccia russa di passare ad una guerra più letale e di far ricorso ad armamenti non convenzionali, come le armi batteriologiche o la guerra nucleare è concreta o fa parte di una strategia per scoraggiare e far desistere la coalizione che gli si oppone?
Non c’è dubbio che la guerra tenda all’escalation, come sempre Clausewitz ci ricordava. È un po’ come una rissa per strada: si inizia a spintoni e si finisce a coltellate. Però c’è una razionalità nella guerra. Se la tendenza della guerra è quella di degenerare, chi la pratica cerca tuttavia di controllarla, perché poi la guerra ha un obiettivo politico, che non è distruggere. La guerra è distruggere per poi raggiungere un obiettivo politico. Questa è la cruda realtà. Ora non c’è dubbio che il rischio, appunto, che le cose prendano la mano c’è sempre in guerra, però è anche vero che Putin è un mediocre criminale ma non è un pazzo. Quindi penso che i russi sappiano benissimo che non c’è nessuna possibilità di escalation nucleare, perché l’escalation nucleare significherebbe una contro-risposta nucleare. Il nucleare funziona sulla deterrenza, cioè sul fatto che tu non lo farai perché sai che non hai possibilità di difenderti e io non lo farò perché so che non ho possibilità di difendermi da te. Può sembrare terribile da dire, ma è la verità. È questo che fino adesso ha impedito di usare le armi nucleari.
Sul gas e sulle armi batteriologiche c’è un margine di rischio in più, perché in Siria chi le ha usate non è stato punito. Su questo si potrebbero aprire infinite discussioni ma non ha molto senso, secondo me, perché chi si è battuto per evitare una punizione per il regime di Assad nel 2015 lo ha fatto per nobili motivi e facendo una valutazione differente. Anche su questo, a mio parere, bisogna fare sempre molta attenzione. Nel senso che personalmente ho la massima disistima per le persone che sono disoneste intellettualmente, per coloro i quali, piuttosto che alimentare il dibattito, consumano il dibattito per scopi narcisistici, per scopi di propria autopromozione; ma ho il massimo rispetto per chi ha idee diverse dalla mia, a iniziare da quelle sulla pace. So benissimo che c’è un movimento pacifista sincero, che ragiona in maniera diversa, e ne ho il massimo rispetto.
La reazione europea o occidentale a questa guerra è stata sicuramente immediata e compatta nel condannare l’aggressione e nel decidere di inviare armi, aiuti finanziari e assistenza umanitaria e infine nell’adottare delle sanzioni economiche, che — benché molto discusse — sono state il risultato di un’ampia intesa. D’altra parte, se si va ad osservare l’atteggiamento dei singoli Paesi nella compagine occidentale, ad esempio Regno Unito, Stati Uniti, o la stessa Turchia, si possono individuare posizioni e aspirazioni non identiche. C’è ancora oggi chi appare non intimorito dalla possibilità di una guerra totale o sembra seriamente intenzionato a non evitarla, e chi invece ha assunto una posizione più cauta che predilige l’opzione diplomatica e persegue l’obiettivo di fermare la guerra il prima possibile.
Io penso che chiudere la guerra il prima possibile, alla fine, sia un obiettivo condiviso da tutti. La guerra la vogliono chiudere al più presto i russi, gli ucraini, gli europei, gli americani, i turchi, ma ognuno con un’idea diversa su come chiuderla: per i russi, vincere; per gli ucraini, buttare fuori i russi dalla loro terra; e per tutti gli altri c’è un’articolazione di possibili punti di equilibrio. È chiaro che questi punti sono diversi per chi non è coinvolto direttamente e per chi lo è.
Terrei un po’ da parte la Turchia, perché si tratta di un regime non democratico, che fa parte dell’alleanza occidentale dal ’52, insieme alla Grecia, ma è stata inclusa per motivi strategici (di fatto per chiudere il Bosforo ai russi). Credo che sia più interessante l’articolazione delle posizioni delle democrazie e su questo si scontano in parte retaggi politico-culturali diversi.
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno tratto dalle grandi guerre del passato una lezione diversa da quella degli altri Paesi, sostanzialmente perché aggrediti — al di là del fatto che qualcuno pensi che la guerra mondiale l’hanno iniziata gli anglo-francesi dichiarando guerra ad Hitler, ma, chiunque conosca un po’ la storia sa che appunto l’Inghilterra ha reagito all’invasione nazista della Polonia, gli Stati Uniti hanno reagito ad un’aggressione nei loro confronti del Giappone e, in maniera diversa, entrambi hanno resistito e vinto. E quindi hanno la consapevolezza che, di fronte a violazioni macroscopiche dell’ordine, talvolta si deve combattere. E quando si combatte, bisogna combattere a volte a lungo, fino in fondo, e poi la vittoria può arrivare. Per i Paesi dell’Europa continentale, uno per l’altro, parliamo di Paesi che hanno perso la guerra mondiale, cioè ci sono auto-distrutti nella guerra mondiale. E questo, secondo me, non è ininfluente in quello che è il nostro vissuto. Poi c’è complessivamente il fatto che i Paesi europei hanno da un lato una maggiore contiguità al fronte di guerra, il che significa che sono più timorosi, più preoccupati rispetto al rischio di escalation, hanno opinioni pubbliche che sono molto più, come potrei dirle, da una parte impaurite, da una parte non abituate a riflettere su queste questioni, dall’altra hanno valori magari fortemente pacifisti, in parte c’è anche una componente di cialtronaggine (quella che porta ad affermare: “Insomma, ma che mi importa dell’Ucraina! Ma che la smettano di combattere che io devo occuparmi del mio lavoro”). Questo, secondo me, fa sì che la posizione occidentale, che è accomunata dal bisogno di ripristinare i principi di funzionamento di questo ordine, altrimenti diventa una giungla — come è stata una giungla l’Europa fino al all’ultima guerra mondiale —, però articoli questa visione comune in modi diversi. Anche perché i governi europei hanno la preoccupazione di avere opinioni pubbliche che possono essere stanche e alcuni governi, come il nostro, hanno anche frazioni di classe politica che sono opportunistiche come non mai. Se lei va a guardare oggi (20/05/2022, ndr) su “Politico”, edizione europea, o ieri su un analogo sito francese, troverà come ci sia un enorme stupore per quello che è appunto il dibattito pubblico italiano, soprattutto quello televisivo, per quante posizioni filorusse vengono espresse e come ci sia uno sconcerto su questo.
Ci sono tante posizioni articolate, ci sono tanti punti di rischio, ci sono tanti punti di frizione interna, e la posizione occidentale deve tenerne conto, perché la democrazia è fatta così, grazie a Dio. È chiaro che i Paesi più importanti hanno maggior leadership, ma non è che non tengano conto della posizione degli altri. E non possiamo quindi rappresentare la posizione americana come il poliziotto cattivo e la posizione europea come il poliziotto buono. Qui tutti abbiamo un interesse a una cosa, che è non fare uscire dalla banca il rapinatore con il bottino e con gli ostaggi. Su come farlo si possono trovare diverse strade.
In cosa oggi dovrebbe soprattutto differenziarsi la politica europea rispetto alla posizione americana? Dov’è che l’Europa potrebbe vantaggiosamente spendersi per il proprio futuro? In molti abbiamo visto un’Europa un po’ diversa soprattutto nei primi giorni di guerra e la reazione che c’è stata, per quanto non del tutto coordinata, ha fatto pensare ad un’Unione meno paralizzata e più consapevole di un proprio ruolo internazionale. Ma come potrebbe assumere questo ruolo in modo più incisivo ed efficace?
È una domanda centrale quella che lei pone, perché dal mio punto di vista il paradosso è che una posizione comune europea sulla guerra è emersa soprattutto nelle fasi iniziali che erano quelle in cui l’Europa era più allineata con gli Stati Uniti, in realtà. Cioè quando l’Europa ha sorprendentemente detto: “No, non daremo sponda a nessun discorso di pace e trattativa subito, che coincida con una resa rispetto a Putin; noi invieremo armi, anche se in genere siamo molto cauti su questo, e aiuteremo la resistenza Ucraina”. Tutte cose sorprendenti. Il paradosso è che, a mano a mano che ci siamo un pochino differenziati o, mettiamola così, a mano a mano che la posizione europea è apparsa un po’ meno vicina a quella degli Stati Uniti, e viceversa, tanto più si sono manifestate anche crepe dentro la posizione europea. Allora, io con questo non voglio dire che sia giusta o sbagliata una cosa o l’altra, voglio solo mettere in evidenza che l’articolazione tra Europa e Stati Uniti ha prodotto all’interno dell’Europa più crepe dell’allineamento. Io credo che in parte sia perché l’Europa è stanca, più stanca degli Stati Uniti, ha una ripresa economica più ingessata rispetto agli Stati Uniti, sconta la pressione delle opinioni pubbliche di cui parlavamo, e deve fare i conti anche con un discorso di leadership al suo interno. In questo momento noi in Europa abbiamo Draghi e Macron come leader europei. Poi abbiamo delle leadership molto forti a livello di Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, o alla presidenza del Parlamento Europeo; abbiamo leader europei che emergono adesso da una loro apparente perifericità, penso alla prima ministra finlandese, alla prima ministra svedese, penso alla Presidente della Repubblica di Moldavia. C’è quindi un problema di ricerca di leadership, perché la leadership in Europa era un po’ vacante. Molti hanno detto — io sono sempre stato contrario a questo punto di vista — che mancava una leadership perché non c’era più la Merkel. Io penso che la Merkel abbia avuto una leadership deleteria sull’Europa, e che sia stata una persona senza visione trasformativa sull’Europa. E uno dei risultati è stata proprio questa debolezza che abbiamo accumulato negli anni. Per cui, a mio avviso, il punto dell’emersione di una posizione europea coesa non passa necessariamente dalla distinzione rispetto agli Stati Uniti. In alcuni momenti questo è stato senz’altro vero, ma non credo che in questa occasione, che è caratterizzata dalla minaccia rappresentata dalla Russia ai confini occidentali dell’Unione dell’Europa e della Nato, questa distinzione sia l’elemento risolutivo.
L’ingresso in Europa dell’Ucraina, che l’ha chiesto a gran voce e che le è stato anche promesso o in qualche modo garantito nei tempi e nelle modalità che la procedura prevede, quanto è auspicabile per l’Europa e quanto per l’Ucraina? Si immagina che per l’Ucraina possa essere una via per il consolidamento, un’occasione per il suo futuro e per la sua ricostruzione. Tuttavia l’Ucraina è un Paese non totalmente democratico, è un Paese che sta facendo un percorso di democratizzazione.
Il punto è proprio questo. L’Ucraina è una democrazia in transizione, ed in questo percorso è infinitamente più avanti della Russia che invece è tornata ormai dentro un solco autocratico. L’Ucraina di Zelensky è un Paese diverso dall’Ucraina di Euromaidan, quella del 2014, quella degli scontri con i nazionalisti russofoni, e via discorrendo. E quindi, in qualche modo, l’Ucraina che oggi guarda all’Europa è già più vicina all’Europa rispetto a quanto non fosse nel 2014, quando proprio la prospettiva di ingresso nell’Unione causò l’invasione, la guerra, l’annessione della Crimea, la secessione del Donbass.
Questo non vuol dire, come osservava giustamente lei, che già ricorrono tutte le condizioni. E neppure significa che per l’Unione nel suo complesso sia un’operazione win–win. Qui però dobbiamo fare subito un piccolo passo indietro, e ricordarci che cos’è stato l’allargamento post 1991, quello che poi si è consolidato sostanzialmente agli inizi del nuovo millennio. Quell’allargamento fu un modo per mettere in garanzia la transizione democratica dei Paesi ex-comunisti. Se non ci fosse stato quello, avremmo avuto un’enorme Jugoslavia. Fu anche preceduto dall’allargamento della Nato, perché era più facile allargare la Nato che richiede meno condizioni, e perché la Nato si occupava di sicurezza esterna. Ai tempi, l’Unione Europea non si occupava di sicurezza esterna, ma neanche di sicurezza interna collettiva. Oggi le cose sono diverse, ma se guardiamo dove siamo arrivati, possiamo vedere Paesi come l’Ungheria, o come la Polonia ancora nonostante tutto, che sono sul limitare (nel caso polacco) o oltre il limitare (nel caso ungherese) di quello che è accettabile per uno Stato membro in termini di interpretazione della democrazia e del rispetto della legge. Allora non possiamo trascurare che un’Ucraina che domani entrasse nell’Unione potrebbe costituire una colossale Ungheria. E quindi? Io credo che sia sempre più il momento di andare verso un’Europa che sia fatta di nuclei più duri e veloci che vogliono transitare verso una maggior coesione, a Deeper Union, prevedendo invece una Wider Union per i Paesi che sono più lenti o che in questa fase meno interessati ad andare verso una vera e propria federazione.
Allora, se noi pensiamo ad un’Unione Europea che è articolata al suo interno tra un gruppo più coeso che sceglie di fare più cose insieme e di fare passi più irreversibili, e un gruppo più lasco che comunque è dentro ma ha anche altre preoccupazioni, sempre con l’idea di mantenere la distanza tra i due gruppi non oltre un certo limite (se noi andiamo avanti di molto, gli altri possono andare avanti di meno, ma non possono pensare di tornare indietro), allora il problema dell’Ucraina, quando sarà il momento, cambia. E possiamo comunque inventarci tutto una serie di soluzioni intermedie che portino sempre di più l’Ucraina verso la sua democratizzazione irreversibile, verso un progetto di sviluppo economico equo ed efficiente il più possibile, verso uno sviluppo sociale, dello stato di diritto e del rispetto delle minoranze, di qualunque tipo siano, più garantito. Ecco, questo può essere un effetto di pull molto importante.
Questa è una fase storica di grande trasformazione in cui serve una gigantesca creatività politica, istituzionale, economica, valoriale, tecnologica, ambientale. Se pensiamo di affrontare questa fase solo con strumenti che ereditiamo dal passato, abbiamo già perso in partenza.
È importante che comprendiamo dove vogliamo andare; come pensiamo di rafforzare la nostra inclusività e l’equity dei nostri sistemi sociali ed economici; come pensiamo di evitare che gli oligopoli che si sono prodotti o che si produrranno dentro il mercato europeo non si trasformino in oligarchie, cioè in privilegi, in oligopoli protetti dalla legge. Queste sono le grandi sfide. Quando questa guerra finirà, i problemi che avevamo prima ci saranno ancora, anche aumentati come è ovvio, e bisognerà riprenderli in mano con molto più coraggio ancora.
L’altra faccia della crisi è l’azione diplomatica che finora, nonostante vari tentativi di avviare una trattativa, non è stata affrontata con determinazione. Si era parlato e sembrava delinearsi un accordo sulla neutralità. Finora però la diplomazia l’hanno tenuta in mano i contendenti, cioè Zelensky da una parte e Putin dall’altra, o comunque i loro delegati. E il primo accordo che era stato presentato come quasi risolutivo è saltato perché chiaramente mancava una convergenza sui territori, e poi a causa della logica dell’escalation. Era prematuro parlarne? Lo è ancora oggi? In secondo luogo, avrebbe potuto l’Europa assumere un ruolo diverso, prendendo una posizione differente sin dall’inizio, e proporsi come mediatore? Si può dire che l’Europa sia stata il negoziatore mancato di questa crisi finora?
Parto dalla seconda domanda, che è più semplice dal mio punto di vista. La risposta è no. No, perché noi siamo parti in causa. Perché la guerra in Ucraina minaccia la sicurezza in Europa, non solo la sicurezza dell’Ucraina, e vìola un principio fondamentale del diritto internazionale, che è quello per cui non si possono modificare i confini con la forza.
Non potevamo essere terzi, non potevamo essere neutrali, mediatori. Però l’Onu ha cercato fino all’ultimo di evitare il conflitto, e fino a quando i cannoni non hanno sparato, noi abbiamo cercato di parlare con i russi, anche quando era evidente che i russi stessero mentendo. Macron, fino a poche ore prima che le truppe russe invadessero l’Ucraina, era a parlare con Putin. Quindi io non mi sento di dire che l’Europa ha fatto poco. Ha fatto tutto quello che poteva fare per prevenire il conflitto. Una volta che il conflitto è scoppiato, ha cercato di mantenere aperti i canali di dialogo. Che non possono però consistere in trattative che sacrificano la libertà di scelta degli ucraini. Perché è la loro libertà, in primo luogo, che è in gioco, è il loro Paese che è stato distrutto, la loro popolazione che è stata costretta a sfollare (in una cifra intorno al 20% almeno) e a espatriare (probabilmente per una cifra intorno al 10%, forse anche al 12%). In tre mesi, non in trent’anni. È una cosa terribile. Questo ci dice dove siamo collocati naturalmente.
Venendo alla parte iniziale della domanda — se sia stato prematuro evocare continuamente la trattativa nei primi giorni di guerra —, secondo me sì, con tutta sincerità. Il che non vuol dire che non si dovesse cercare di parlarsi. Ma perché ci sia una trattativa, innanzitutto, i russi devono mettere in atto un comportamento che dimostri che sono interessati a trattare. E questo comportamento può essere solo l’arretramento di una parte delle truppe, la liberazione di prigionieri, lo stop o una tregua da parte loro (proclamata, all’inizio unilaterale e verificabile, di 2-3 giorni, in modo che si veda che c’è), la possibilità di aprire corridoi umanitari. Ci sarebbe una cosa che potrebbero fare i russi, come segnale di buona volontà, ed è far uscire tutte le migliaia di tonnellate di grano che stanno marcendo nei silos dei luoghi che loro hanno occupato o nei depositi ucraini perché non possono raggiungere il mare, mandare questo grano verso i Paesi del Sud del mondo che stanno morendo di fame o che moriranno di fame. Questo sarebbe un gesto semplice che garantirebbe alla Russia un grande successo propagandistico. Ma in questo momento sono talmente accecati, questi della leadership russa, che non se ne curano. Rimangono convinti che accusare l’occidente di affamare il mondo sia più utile che dimostrare che invece loro consentono al mondo di mangiare, veda lei.
C’è anche il ruolo dell’Ucraina che, forte anche di un certo vantaggio militare che le ha permesso di contenere l’invasione russa in gran parte del Paese, oggi come oggi non pare tanto disposta all’ipotesi di un cessate il fuoco…
Ma se lei fosse stato il governo italiano, dopo Caporetto, nel momento in cui si resisteva sulla linea del Piave, avrebbe fatto l’armistizio con l’Austria Ungheria che invadeva e occupava il Veneto e quella parte che avremmo chiamato poi Friuli, che era italiano prima della guerra?
È chiaro che gli ucraini, che in questo momento vedono che stanno riconquistando terreno, vogliono andare più avanti che possono. Dovranno essere loro a capire quando smettere, di fronte a un comportamento russo che non può essere quello di dire: mi prendo tutto quello che ho conquistato militarmente e poi nella trattativa mi prendo anche quello che non sono riuscito a prendermi con la forza, e troviamo una via d’uscita. Zelensky ha offerto e continua ad offrire, io credo che sia sincero, la neutralità futura dell’Ucraina, e ci sta, perché questo è un oggetto di trattativa politica imposto dalla guerra, ma non può offrire, dopo quello che è successo, un’Ucraina demilitarizzata. Per cui io penso che alla fine si arriverà a un punto negoziale, perché tutte le guerre prima o poi finiscono. Però non possiamo dimenticare che una guerra finisce quando un aggressore smette di aggredire e l’aggredito a quel punto è sufficientemente rassicurato da pensare di potersi sedere ad un tavolo di trattativa. Poi tutto il contenuto è da costruire.
La pace. Tutti la vogliono. È evidente. Molti ne discutono e emergono anche conflittualità, nel dibattito italiano anche molto accese. Come si trasforma la pace da auspicio ragionevole di molti a risultato politico, obiettivo concreto e soprattutto duraturo?
Intanto, tenendo conto dell’enorme complessità della situazione e della quantità di variabili coinvolte e del fatto che in ogni singolo passaggio emergono tante opportunità, altri vincoli, nuove variabili. A volte si fanno tanti discorsi al vento che magari ci rassicurano riguardo alla nostra identità, ma non risolvono niente. È essenziale invece che ogni passo che facciamo sia non solo evolutivo rispetto al precedente, ma anche sostenibile rispetto al successivo, che ci porta in una direzione. Perché lungo la via nel labirinto che ci condurrà alla pace ci sono mille vicoli ciechi. Ed è per questa ragione che è così importante scindere la buona fede dalla mala fede, l’onestà intellettuale dalla disonestà intellettuale, il dibattito che viene alimentato dal dibattito che viene consumato dal “direttismo”. Ecco perché è così importante quell’atteggiamento, proprio del pensiero cattolico, che è la prudenza, che non consiste nel rinunciare, quanto piuttosto nel bilanciare l’audacia dei cuori con, per così dire, la cautela degli atti.
Un errore comune è confondere la pace con la riconciliazione, che è sicuramente una sua componente, mentre la pace non può prescindere dalla verità.
Assolutamente. Il Papa dice sempre: «Non può esserci pace senza giustizia». In Sudafrica Desmond Tutu ci insegnò: «Non può esserci pace senza verità». Sono queste quattro cose: pace, giustizia, verità, riconciliazione. Tutte e quattro, in momenti diversi, con strumenti diversi, devono essere coinvolte. Se noi pensiamo che possiamo trascurare una di esse, ci auto-inganniamo e ci facciamo del male. E allontaniamo le prospettive.
VITTORIO EMANUELE PARSI insegna Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano. È direttore dell’Alta scuola di Economia e relazioni internazionali (Aseri) ed editorialista di «Avvenire» e «Panorama». Tra le sue pubblicazioni ricordiamo La fine dell’uguaglianza (Mondadori, 2012), Relazioni internazionali (con altri autori, Mulino, 2012), Vulnerabili: come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo (Piemme, 2021). È in libreria con una nuova edizione, radicalmente ripensata, di Titanic: naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale (Mulino, 2022). Vive a Milano.
©Dialoghi Carmelitani, ANNO 23, NUMERO 2, Giugno 2022