(di Alessio Musio)

 

Normalmente, il tema del futuro riguarda se non l’ignoto o l’imprevedibile la novità, ma proprio per questo, forse, per comprenderlo bisogna considerare il tema della ripetizione.

 

 

L’importanza della ripetizione

In ogni stagione della vita, infatti, quando una forma esistenziale ha preso consistenza e si è affermata, si consolida inevitabilmente una trama di atteggiamenti e avvenimenti ripetuti quasi senza accorgersene: basta pensare alla quantità di gesti piccoli e grandi che rifacciamo ogni giorno quando ci alziamo, ci rechiamo al lavoro o a scuola, torniamo a casa, prendiamo l’automobile, e così via. 

Le stesse forme verbali che descrivono le azioni più importanti della vita quelle da cui dipende il tipo di persone che stiamo diventando o siamo diventati hanno alle spalle una catena di ripetizioni il cui singolo anello è liberamente scelto e voluto. Verbi, come amare, essere amici, crescere, educare, ma anche come tradire, sedurre, imbrogliare, mentire, indicano qualcosa che sul piano esperienziale diviene possibile solo sulla scorta di atti pensati, ripetuti e poi eseguiti quasi senza più nemmeno accorgersene (in fondo è così, semplicemente dall’abitudine, che nascono virtù e vizio).

Come ha scritto Leonard Michaels in un suo romanzo particolarmente cupo e drammatico, che racconta la morte della sua prima moglie, «la ripetizione è [semplicemente] serietà. Lavorare, mangiare, dormire, implicano ripetizione. Il sole che sorge, le fasi lunari, le rivoluzioni dei pianeti e delle stelle, tutto nell’universo si ripete. Tutto è rituale. Cessare di ripetere equivale a morire non il contrario» (L. Michaels, Sylvia, trad. it., Adelphi, Milano 2016).

Il futuro come attesa

Visto da questa premessa, il tema del futuro che per essere comprensibile per l’uomo può avere solo la forma di quel particolare modo di essere nel presente rappresentato dall’attesa risulta più chiaro. È per il suo nesso con il tema della ripetizione, infatti, che ci troviamo a guardare con atteggiamenti differenti al futuro che ci aspetta. Come quando lo pensiamo annoiati, sentendo «come un’insonnia nell’alta luce del mezzogiorno» (questa la definizione della noia per Jankélévitch) il peso delle troppe routine quotidiane, o pieni di fiducia, certi della bontà di quello che abbiamo costruito e ci è stato donato, o segnati dalla paura e dal timore. Ed è proprio quando temiamo di perdere esattamente l’insieme delle nostre quotidianità per l’insorgere di una malattia o di un qualunque avvenimento negativo, che magari non è nemmeno capitato direttamente a noi stessi (sta qui la potenza delle relazioni quando divengono almeno un poco sostanziali!) che scopriamo quanto conti per noi ciò a cui proprio per abitudine rischiamo di non fare più caso.

Del resto, chi ripete è simile a Dio, aveva osato immaginare Kierkegaard («se Dio non avesse voluto la ripetizione, il mondo non sarebbe esistito», scriveva), tanto che la fedeltà dell’uomo può diventare già per questo un segno potente di quella grande fedeltà di Dio che in fondo la sostiene

E però ci sono molti modi di guardare al futuro, vale a dire diversi modi in cui si può stare nel proprio presente. 

I diversi modi di guardare al futuro

Una persona che proprio ora si trova a essere prigioniera del ricordo di un avvenimento accaduto nel passato, e continuamente rimpianto, diventa quasi incapace di rendersi conto di ciò che accade intorno a lei. Ed è interessante che la lingua conosca un tempo verbale per designare questo atteggiamento: è il tempo del condizionale passato, quello in cui si vive immaginando come avrebbe potuto essere la nostra vita se un certo accadimento non fosse avvenuto oppure se un altro fosse capitato; se non avessimo detto determinate parole o non avessimo commesso proprio quell’errore… Quando questo accade, viviamo il presente secondo il tempo della melanconia, indifferenti al presente e al futuro. 

L’atteggiamento, invece, di chi si illude di poter controllare tutto, di poter programmare ogni avvenimento avendone in mano la regìa, è quello di chi pensa di poter guardare al futuro con la sicurezza con cui si considerano gli avvenimenti che già sono avvenuti. È quanto esprimiamo con la lingua con i termini al futuro anteriore, il tempo verbale (ed esistenziale) che ci permette di dire che “domani”, o “tra un anno”, “proprio a quest’ora” sarà avvenuta una data cosa. 

Certo, non ogni condizionale passato e non ogni futuro anteriore sono un tradimento della nostra temporalità. Se dico: “avrei potuto non comportarmi in quel modo”, questa frase infatti può diventare il presupposto del pentimento e dunque di un’azione diversa e più buona nel futuro. Il fenomeno della previsione, inoltre, resta comunque di fondamentale importanza nella vita umana ed è il senso stesso della ripetizione.

Rimane, in ogni caso, la verità di quanto scriveva qualche secolo fa Pascal: «non stiamo mai nei limiti del tempo presente. Anticipiamo l’avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare, quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo, quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorrazzare in tempi che non ci appartengono e da non pensare all’unico tempo che ci appartiene. […] Ognuno esamini i propri pensieri e li troverà occupati nel passato e nell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente […]. Per questo non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo diventeremo mai» (B. Pascal, Pensieri, fr. 172). 

Nello sguardo al futuro, così strettamente legato alle nostre ripetizioni, si gioca dunque la possibilità della nostra felicità e la domanda di futuro è la domanda del rinnovamento di tutto ciò che di bello e vero c’è nella nostra vita. Come in quel passo del Nuovo Testamento in cui leggiamo: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap, 21,5); ed è impressionante pensare a queste parole con la consapevolezza secondo cui «la vita non è novità, ma rinnovamento», e questo perché «innovare, se non è continuare, significa uccidere», ossia sempre e comunque dissolvere un legame (così G. Thibon, nel suo Ritorno al reale).

 

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 20, NUMERO 2, Giugno 2019